El cant dels ocells, come il tuo film precedente, tratta personaggi che appartengono al mondo dell’immaginario, della letteratura e del passato. Come mai?
Fondamentalmente per due ragioni. La prima è che amo molto fare riprese in esterni, e questo genere di film mi consente di farlo. Durante le riprese si passa del tempo con gli amici: si mangia insieme, si lavora molto, perché ci si sveglia presto, si vedono paesaggi bellissimi e, alla fine, si va a dormire molto tardi; addormentandosi come dei bambini. Cosa chiedere di più alla vita?
La seconda ragione è che non mi piace girare film che si svolgono in tempi moderni. Il momento storico trattato in El cant dels ocells mi interessava in modo particolare: riguarda gli inizi di quello che sarà il Cristianesimo ed è presente una certa ambiguità. È un momento di passaggio. Un momento un po’ assurdo, dubbioso, ancora incompiuto.
È vero che avete scelto i luoghi dove effettuare le riprese attraverso “googleEarth”?
Sì. Per il film cercavamo un luogo in cui ci fosse della neve; ma nel mese di settembre o ottobre è davvero difficile trovarne in Europa. Così, quindici giorni prima dell’inizio delle riprese abbiamo cercato su GoogleEarth, lì abbiamo trovato dei posti che sembravano innevati, ma eravamo molto dubbiosi: non sapevamo se queste immagini venissero attualizzate regolarmente. Sono quindi andato a fare dei sopralluoghi una settimana prima dell’inizio delle riprese. Così mi sono accorto che l’Islanda era il posto che cercavo. Abbiamo poi girato alle isole Canarie, a Fuerteventura abbiamo trovato il deserto di cui avevamo bisogno. Inizialmente volevamo andare in Libia, ma abbiamo avuto grossi problemi per le autorizzazioni, tanto che non abbiamo neanche avuto i documenti per poter fare dei sopralluoghi.
Tanto l’Islanda quanto Fuerteventura presentano paesaggi molto astratti, senza alberi né animali. Questo era perfetto per un film in presa diretta e ambientato nel passato: ci sono pochi posti in Europa dov’è possibile non sentire aerei, macchine o suoni fuori dal contesto e dalla civiltà. Abbiamo girato anche in un'altra isola delle Canarie, Tenerife, sul vulcano Teide.
Ci sono anche delle scene bellissime girate in un bosco.
Quelle immagini sono state riprese in Francia. In quel caso io volevo un’ambientazione un po’ più triste perché nel film quella scena rappresenta il momento della fine dell’illusione. Ciò che si cercava è stato trovato e, come sempre, la realtà vera e propria era migliore di ciò che avevamo immaginato. Nel film il momento della conversazione nel bosco introduce il ritorno dei Re Magi nel mondo reale. Si inizia a vedere la fatica del viaggio compiuto; al tempo stesso i tre personaggi si trovano in una situazione paradossale: sono credenti senza saper di esserlo. La fede è già nata, la sua consapevolezza non ancora.
Il film è tutto in bianco e nero, ma avete girato a colori, giusto?
Sì, ma questa era una cosa prevista fin dall’inizio. Abbiamo fatto molti test, con videocamere diverse e alla fine ho trovato questa immagine che mi sembra interessante perché dà un’ambiguità particolare. Si ha l’impressione di qualcosa a metà strada tra la definizione data dal numerico e la composizione analogica dell’immagine. Se avessimo girato in 35mm, il risultato sarebbe stato il classico film storico, come quelli realizzati a Hollywood, se invece avessimo realizzato il film in digitale il risultato avrebbe potuto facilmente assomigliare ad un telefilm, con il rischio di sembrare un po’ snob. Per questo ho ricercato una resa dell’immagine, che donasse una sensazione di antichità ai paesaggi.
Che apparecchio hai usato?
Ho girato con una Sony 900, HD, sperimentando però un metodo particolare che produce un tipo di immagine completamente diversa dal solito. È un metodo piuttosto complicato, ma avevo già chiaro il risultato prima di girare il film, poiché avevamo già fatto molti test con diverse telecamere. Per il dvd abbiamo operato il telecinema sulle copie in pellicola, non dalle immagini di alta definizione. Sono molto contento del risultato.
In diverse scene vi è un forte contrasto luminoso: a volte filmate il cambio di luce dovuto al passaggio di nuvole o semplicemente al vento che modifica l’intensità della luce. Era questo un elemento che faceva parte del progetto iniziale oppure ne avete preso atto solo una volta arrivati sul luogo delle riprese?
I giochi di luce non erano previsti nei minimi particolari. Sapevamo che l’Islanda fosse un paese dove le nuvole passano a grande velocità e dunque sapevamo che questo avrebbe potuto dare al film un atmosfera un po’ lunaria, spaesata. Come la sensazione di essere in un altro mondo.
Inoltre, la variazione d’intensità di luci è interessante se rapportata ai personaggi: riflette il loro stato d’animo. I magi sono viaggiatori spaesati e in cerca di un senso. Si trovano nella condizione di tentare di trovare qualcosa che non conoscono. L’assurdità di questa ricerca era la chiave della prima parte del film. C’è poi anche un aspetto comico poiché i tre non riescono a prendere decisioni, sono in balia di loro stessi. In questa situazione i Re Magi sono come dei pionieri, persone che intraprendono per la prima volta un’avventura che nessuno aveva mai compiuto. La gente che li circonda si domanda che cosa essi stiano facendo e cerca di dissuaderli rivelando l’assurdità dell’impresa. L’idea era di mischiare il sacro, come il momento del loro arrivo davanti alla capanna di Maria e Giuseppe, dove il montaggio si fa più chiaro, nitido, e le immagini acquistano un tono più contemplativo, rispettoso e onesto, e il profano, come l’assurdità nel credere in qualcosa che non è ancora nato. Ho voluto presentare personaggi che sono umani, anche se non posseggono psicologie particolarmente definite e le loro debolezze sfiorano quasi il burlesco. Mi piace arrischiarmi in questi mix tra toni e registri apparentemente contraddittori, e mi piace cercare di intersecarli e di farli dialogare con un po’ di coerenza ed uniformità.
Nel film non c’è un’ottica narrativa, né la volontà di sorprendere lo spettatore, anche perché si sa già dove i tre magi sono diretti. Questa è una delle idee che mi hanno spinto a raccontare la vicenda come quella del Don Chisciotte: non c’è bisogno di spiegare nulla poiché tutti conoscono già la storia, almeno a grandi linee; così io posso concentrarmi sul succedersi degli eventi: sul come, il dove e il quando.
Nel film, nonostante la sua apparente semplicità, si sente che è stato fatto un grosso lavoro di montaggio.
Per quanto riguarda il montaggio ho qualche rimpianto, perché abbiamo finito il film molto velocemente e quando ho visto il film in sala mi sembrava che mancasse alla scena qualche secondo. In realtà avrei voluto lavorarci ancora qualche giorno ma non c’è stato tempo!
In generale il montaggio per me è il luogo in cui il film si forma. È in questo momento che abbiamo deciso di dare alla prima parte un tono più divertente per poi riconvertirlo in un ritmo più regolare nella seconda. Io credo che sia possibile sbagliarsi durante le riprese, dove c’è sempre poco tempo, possono sorgere dei problemi o essere ispirati da idee poco efficaci; ma non ci si può sbagliare durante il montaggio. È il momento in cui le immagini vengono giudicate: lì si ha tutto il tempo per riflettere sul tempo del film e la resa della scene.
In concreto come hai lavorato?
Ho effettuato il montaggio su final cut con un amico montatore. In due o tre mesi abbiamo elaborato la struttura del film, decidendo ciò che era da tenere e ciò che era da eliminare. È stata una fase molto interessante: a volte avevamo due opinioni da confrontare e così abbiamo iniziato a fare delle prove. Alla fine però il montaggio lo termino sempre da solo, com’è successo anche con il film precedente.
Riesci a mantenere due ipotesi diverse di lavoro in fase di montaggio?
No, porto avanti una sola ipotesi: bisogna pur avere un po’ di fiducia in sé stessi! Ci sono stati momenti in cui ho chiesto l’opinione ad amici ma poi ho deciso da solo. Le varie ipotesi che final cut permette di avere le scarto velocemente, in modo da dedicarmi interamente alla resa di un progetto definitivo. Ora, con il computer è molto facile intravedere l’effetto finale di una data soluzione di montaggio, così puoi velocemente scartare possibilità diverse. Prima invece eri obbligato a prendere una direzione, bisognava già avere un piano di montaggio ben chiaro in testa. Le possibilità offerte dal montaggio non lineare ti permettono di fare qualche prova per vedere la resa migliore e puoi essere più preciso a livello di tagli. Nei film di Pasolini, per esempio, ci sono diversi errori a livello di montaggio, perché tecnicamente era impossibile avere la precisione che possiamo avere oggi. Io sono ossessionato dal «montaggio perfetto» perché se adotti un film con una costruzione narrativa convenzionale, dove si dà molta importanza allo svolgimento della storia puoi permetterti delle imprecisioni, ma se l’idea centrale del film si trova in elementi interni all’immagine, allora bisogna essere molto precisi nella decisione di mantenere o eliminare certe immagini. È necessario avere un’intuizione, cosa che è molto difficile da spiegare ad altri; dove devi sentire se il fotogramma è necessario o meno. In questo contesto un fotogramma può cambiarti tutto.
C’è un forte contrasto nel mio modo di lavorare fra la fase di riprese, dove molto è lasciato all’improvvisazione, e la fase di montaggio, alla quale io dedico un’attenzione forse eccessiva. Quando inizi il montaggio sei nel caos, tra il progetto che avevi inizialmente e le immagini che hai girato; per questo è il momento di maggiore razionalizzazione, in cui devi cercare di fare un confronto fra due elementi: l’idea che avevi e le idee racchiuse nelle immagini che stai guardando.
Nella colonna sonora c’è una musica particolare, che non abbiamo riconosciuto.
È un canto folkloristico catalano molto conosciuto. Si chiama Il canto degli uccelli e parla per l’appunto della nascita del Signore; per il film ho utilizzato una versione strumentale. L’interpretazione è di Paul Casals, un famoso violoncellista. La colonna sonora è stata scelta prima dell’inizio delle riprese, infatti dà il titolo al film.
Nel film – soprattutto grazie ai dialoghi, come ad esempio quelli tra i magi che si riposano sotto gli alberi – è presente anche l’immaginario del Medio Evo, dove magia, esoterico e religione si mescolano.
È vero. C’è una forte influenza del periodo medioevale, non solo nelle immagini evocate dai dialoghi ma soprattutto per il tipo di immagine che ho utilizzato che ricorda un po’ la fissità dei dipinti dell’epoca. Nel film è presente una sorta di composizione ieratica, caratterizzata da una pressoché totale assenza di volumi e una profondità di campo quasi inesistente. È un tipo di estetica che richiama il medio evo, con le sue miniature senza prospettive, prive di ogni forma di psicologia. Ci troviamo in un momento precedente alla pittura del Rinascimento, dove oltre alla prospettiva sono presenti anche effetti drammatici; qui invece si assiste un susseguirsi di immagini, posizionate una accanto all’altra, che conferisce al film questo aspetto un po’ primitivo.
Questo effetto era voluto e presente nella mia mente fin dall’inizio. Ricordo di aver detto che non volevamo avere movimenti di macchina; anzi, inizialmente avevo in mente di fare un solo piano sequenza per ogni scena, idea che poi non sono riuscito a mandare in porto. Quando poi mi sono trovato in fase di montaggio, mi sono domandato se non fosse il caso di levare il suono, proprio per esasperare il rifiuto della prospettiva, visto che il suono conferisce profondità alle immagini. In realtà le immagini sono sempre bidimensionali, ma il suono dà come una chiave d’accesso allo spettatore, una porta attraverso cui entrare in una scena. È per questo motivo che ci sono dei momenti in cui il suono è totalmente assente.
Quest’assenza di suono crea nello spettatore un effetto di stupore, che è una cosa molto importante al cinema.
Oggi il rapporto fra immagine e suono è molto convenzionale. Inquadratura dopo inquadratura, si sa esattamente che cosa succederà in un film, che suono ci sarà, quale immagine verrà montata. Ma suono e immagine nei film sono due cose separate: questa è un’idea portata avanti anche dalla Nouvelle Vague. Io vorrei riuscire a trovare un suono che non sia né un supporto naturalista al film, né che diventi, come nei film di Gus Van Saint, una presenza fortissima, invasIva, troppo evidente.
Per il tipo di tono utilizzato, El cant dels ocells ci ha ricordato il personaggio di Totò nei film di Pasolini.
Uccellacci e uccellini è uno dei film più matti e divertenti che io abbia mai visto, ma è anche un genere di film che più nessuno ha il coraggio di fare. Questo gioco su toni diversi, il senso dell’assurdo mescolato a soggetti molto seri, profondi, culturali, è oggi impossibile da trovare. Tutti i film sono formattati, allineati a un modello ben preciso. Per questo ho nostalgia di tali eccessi pasoliniani, del suo tentativo di mettere in scena qualcosa di completamente folle, di fregarsene delle scene imperfette… Ho nostalgia di questa libertà che oggi è venuta meno per assecondare degli standard tecnici, per avere un film rifinito, curato, perfetto. Per i miei film non presto molta attenzione ai difetti tecnici, se ci sono delle scene che trovo belle ma che presentano qualche imperfezione cerco di tenerle lo stesso. Conservare questo atteggiamento è difficile perché anche i festival ti mettono addosso pressione, cercano un prodotto tecnicamente perfetto a discapito della libertà assoluta, della poesia dell’incompiuto. Ho nostalgia dell’imperfetto, di uscire dall’efficacia assoluta, dalla perfezione tecnica, dalla coerenza senza turbamenti. Perché così facendo non si prende più il rischio di andare al di là di sé stessi.
Gli attori si conoscevano già prima di girare il film? Nella scena dove dormono tutti e tre insieme sotto un minuscolo cespuglio si percepisce una forte intimità.
Sì, sono tutti amici. Abitiamo tutti nello stesso villaggio. Ed è questo che mi piace. Mi piace il loro lato imprevedibile e poetico. Nei loro gesti, nelle loro azioni traspare una forte ingenuità e semplicità. Non so se lavorerò ancora con loro, sicuramente continuerò a tenermi alla larga da super produzioni hollywoodiane con attori famosi, forse faremo ancora un film con ambientazioni storiche, ma è ancora tutto da decidersi.
(Intervista realizzata in occasione della presentazione del film El Cant dels ocells al Festival di Cannes 2008; originariamente pubblicata in: "Panoramiques", anno XVIII, n° 46, II semestre 2008)