Questa tavola rotonda è stata realizzata ai primi di aprile in quest’anno (fra l’altro, prima che Bertolucci e Ponzi iniziassero a girare i loro film). Ci spingevano a fare un primo, provvisorio punto della situazione alcuni fatti che, insieme, indicano una svolta importante nel cinema italiano d’autore: costituzione della C.C.I., scissione dell’ANAC, formazione di cooperative di giovani come la “21 Marzo”, ritorno al lungometraggio di Bertolucci… Da allora sono avvenuti altri fatti, più importanti ancora, e che per un momento ci hanno fatto sembrare invecchiato questo primo incontro: movimento studentesco, Pesaro, decisione dell’ANAC nei confronti di Venezia, crisi degli Enti di Stato, scissione (amichevole) della C.C.I. Abbiamo deciso, alla fine, di pubblicare comunque questa tavola rotonda, sottolineando che è solo la prima, e che ad essa ne seguiranno altre dove porremo gli autori che ci interessano a confronto con avvenimenti di politica cinematografica e di cultura che preludono a quello che potrà essere, o non essere, un cinema italiano veramente nuovo, per il quale intendiamo batterci. (Gli autori che partecipano a questo primo confronto non sono, evidentemente, tutti quelli che ci interessano: la loro scelta è stata condizionata anche dagli impegni di ognuno).

 
[Adriano] Aprà: Il tema che proponiamo, ma che può subire qualsiasi mutamento nel corso di questo dibattito “aperto”, è il seguente: come si può – o non si può – fare, oggi, da un punto di vista soprattutto produttivo e distributivo, un cinema d’autore in Italia.
 
[Maurizio] Ponzi: Si tratta di un argomento vecchio, naturalmente, ma che forse ha una particolare attualità in questo momento, dopo la scissione dell’ANAC, per esempio.
 
Aprà: E poi non nascondiamo che il problema ci riguarda direttamente, in quanto a Cinema & Film quasi tutti fanno o intendono fare del cinema. Ci interessa quindi il problema pratico del fare un cinema d’autore, nelle strutture attualmente esistenti o in quelle che si potranno elaborare, nonché delle responsabilità che tale fare implica.
 
Ponzi: Mai come adesso si parla di fare un cinema d’autore al di fuori delle strutture, commerciali, esistenti; dieci anni fa non esistevano alternative se non “estetiche”, oggi esistono, vedi il caso C.C.I., e di Leonardi qui presente. Come si pongono di fronte a un tale fatto i registi che invece ancora accettano, operano in certe strutture date? Direi che si può cominciare dando ad ognuno la parola perché esponga il modo in cui è stato o sarà prodotto e distribuito il suo nuovo film. 
 
[Valentino] Orsini: I problemi, per quanto riguarda un cinema d’autore, si sono sempre posti in maniera abbastanza difficile e drammatica, almeno da quanto sia io che Paolo e Vittorio Taviani abbiamo cominciato a fare del cinema, perché nelle strutture tradizionali del cinema gli spazi per un cinema d’autore sono sempre stati molto limitati. Per cui in un cinema d’autore, oltre, naturalmente, ad avere una buona ipotesi di lavoro, che è il film sul quale lavorare, è necessario cercarsi, da un punto di vista economico e amministrativo, quegli spazi o nelle strutture – perché questo secondo me è ancora possibile – o fuori delle strutture. Per esempio, il nostro film, Un uomo da bruciare, è nato fuori delle strutture, con capitali nostri, organizzazione nostra, e in parte nelle strutture, poiché usufruiva di un noleggio ufficiale, la “Cino Del Duca”. Però per quell’epoca era un film troppo al di fuori delle strutture, tant’è vero che la Banca Nazionale del Lavoro non ci concesse il normale sconto sulle cambiali del noleggio. Così il film, dopo la quarta settimana di lavorazione, entrò in crisi, ed è praticamente rimasto un film che si è mosso al di fuori delle strutture. Solamente con l’intervento di una società di produzione, la Sancro-Ager Film, il film è stato portato a termine; però ha conservato, anche durante la distribuzione, un doppio carattere: se è vero che è stato comprato e distribuito da una distribuzione normale, proprio per il suo carattere di film di ricerca ideologica e linguistica il film è rimasto ai margini, non è stato portato al pubblico; a Roma, per esempio, il film è uscito in pieno agosto. Questo fenomeno, secondo me, si ripete puntualmente tutte le volte che l’autore vuole portare avanti un certo tipo di discorso; tanto più forse oggi, che assistiamo a una progressiva razionalizzazione del sistema, per cui gli spazi che possono esserci per il cinema d’autore diventano sempre più limitati. Evidentemente questi pochi spazi, a patto che non costino nessun sacrificio di libertà artistica per l’autore, devono essere occupati; ma praticamente, a distanza di tempo, io con I dannati della terra, i Taviani con Sovversivi ci incontriamo con gli stessi problemi del nostro primo film. Sovversivi ha ottenuto il noleggio, il mio non ha ottenuto un noleggio di Stato, ha ottenuto solo il Credito speciale. Per il resto l’organizzazione del film è di tipo semi-cooperativo, cioè attori, tecnici e complesso artistico in compartecipazione, ed è un film sostanzialmente a basso costo. È un film che, ultimato, non ha una distribuzione; lo distribuirà il “C.I.D.I.F.”, senza però nessun rischio da un punto di vista economico. Ora io penso che fintanto che questi spazi ci sono devono essere occupati, però è bene che sia anche chiaro un fatto, che potrà darsi che per un certo cinema oggi o domani questi spazi non ci siano più, e pertanto il problema di porsi come prospettiva il fare un cinema che si muova completamente al di fuori delle strutture può risultare di estrema attualità. Se il processo di hollywoodizzazione della produzione italiana avanza come sta avanzando, evidentemente non ci rimane altro che produrre al di fuori delle consuete strutture. Se dal punto di vista produttivo talvolta è ancora possibile adoperare certe contraddizioni delle strutture, già il problema diventa difficile sul piano della distribuzione, che è quella a più diretto contatto col pubblico, più condizionata da elementi immediatamente commerciali; tant’è vero che molti film vengono prodotti ma molti di essi hanno una vita difficile sul piano della distribuzione. Trovare un proprio canale, una propria comunicazione col pubblico diventa un fatto fondamentale se vogliamo naturalmente che questo cinema sia visto. 
 
 
[Alfredo] Leonardi: Io qui espongo il punto di vista mio e forse anche di alcuni dei miei amici. A me sembra che indubbiamente il vostro cinema è un cinema d’autore, un cinema cioè di persone che affermano nei loro film una personalità abbastanza precisa; esso però, forse inconsciamente, è molto condizionato nel suo linguaggio da certe richieste precise del mercato e da certe caratteristiche proprie del cinema commerciale. A me sembra cioè che molti film diciamo “d’autore” non siano affatto diversi dai film, per esempio, di Hitchcock, dei grandi autori del cinema americano, i quali, all’interno di convenzioni narrative date, introducono una serie di elementi  che sono il sigillo del loro stile, e producono film che sono film d’autore, indubbiamente. Questo anche se voi introducete una serie di spezzature, di contestazioni di queste “regole del gioco”, che possono arrivare a un caso molto spinto qual è quello di Godard. Però si tratta sempre di una specie di dialogo, di dialettica con il cinema commerciale nel quale giustamente esistono spazi limitati per questo tipo di prodotti e nel quale è giusto che voi cerchiate uno sfogo e lo troviate anche. E questo lo dico senza spirito polemico, perché mi sento talmente lontano da questi problemi che è anche buffo e strano trovarmi in questa casa di produzione (l’AGER Film, che ci ha dato i locali per riunirci – n.d.r.) e sentirvi parlare di tutti questi film con un’aria molto aisée, perché in fondo anche voi fate parte di questo mondo, con tutte le vostre contestazioni, fate parte di un tipo di cinema che io non derido affatto, che solo mi è totalmente estraneo. A me insomma viene questo sospetto, quasi più da spettatore che da autore, che voi vi autocondizioniate perché tenete a tutta una serie di cose, che fanno parte non solo delle vostre necessità espressive profonde, ma anche di una serie di clichés, anche molto belli: quello del regista, degli attori, delle attrici, del cinema, dei cartelloni, delle amicizie di un certo tipo, ecc. ecc. Cose alle quali io ho rinunciato da tempo. 
 
Ponzi: La breve analisi di Leonardi mi trova consenziente, però dando ad essa un altro senso. Noi o, meglio, io voglio fare un cinema che “pensi” a un determinato tipo di cinema, che si muova anche nell’ambito di variazioni da clichés esistenti. E con ciò? Si tratta di una scelta stilistica precisa, non di una scelta pratica. E poi Leonardi fa di tutta l’erba un fascio. Girando I visionari penserò a Dreyer, a Hitchcock – due autori “nelle strutture”? O uno fuori e uno dentro? – o a due autori, piuttosto, che narrano all’interno di “convenzioni”? Da questo a chiamarli clichés… Insomma, le “regole del gioco” e relativa contestazione-accettazione possono essere una scelta e non intervenire inconsciamente, almeno se si parla di autori. Quando deciderò di cambiare idea in proposito e concepirò film che possono costare cinque milioni e che non hanno bisogno di essere visti dal grosso pubblico, me li produrrò da me come fanno Leonardi e i suoi amici. L’ideale sarebbe che non ci fossero discriminazioni… Del resto, anche Leonardi è costretto a seguire certe “contro-regole”(ammesso e non concesso che il cinema “underground” non pensi a quello classico), a meno che denunciando la sua estraneità a un modo di concepire il cinema non consideri tale atteggiamento come immutabile nel tempo, il che per un autore giovane mi pare un controsenso. Qualsiasi regista della Cooperativa di cui parla Leonardi può desiderare di approdare – o regredire – al cinema narrativo o a un cinema che per considerarsi compiuto ha bisogno del contatto con un certo tipo di pubblico medio. In quel momento dovrà fare i conti con le strutture che ci affliggono e che bisogna modificare affinché possano permettere qualsiasi tipo di cinema, dall’8 al 70 mm., con attori o senza…
 
Paolo Taviani: Mi interessa l’intervento di Leonardi. Salvo l’ultimo punto: dici di non essere qui in veste polemica, ma poi dichiari che in fondo siamo condizionati. È evidente che un certo tipo di condizioni ci sono – non viviamo in un mondo astratto, e soprattutto non viviamo nel migliore dei mondi! Bisogna vedere che tipo di condizioni. Noi vogliamo fare il cinema esprimendo, con la massima libertà, quello che abbiamo in testa. Detto questo – che è un punto di partenza fondamentale, al quale non trasgredisco perché non mi piace vivere diversamente e operare diversamente nel mondo: il nostro cinema è un cinema “nostro”, punto e basta – detto questo, la censura che posso fare a me stesso nel momento di realizzare un film può essere di questo tipo, per esempio: non posso pensare di fare un film che costa 500 milioni; cosa questa che vale anche per te. Altro esempio: abbiamo commesso, assieme a Valentino, un errore che ci ha paralizzato per due o tre anni: avevamo un film, Sotto il segno dello scorpione, che costava più di 100 milioni; questo film ce lo siamo portati addosso per cinque anni, battendoci senza mai riuscire a farlo. Quando finalmente ci è stata offerta la possibilità di realizzarlo, noi eravamo cambiati: non ci interessava più. Dovevamo insomma censurarci prima. Ma mi domando se questo tipo di censura lo si può chiamare veramente tale. Quanto poi all’elemento produzione, attori, ti assicuro che col cinema che facciamo qui, grazie a questo produttore che è Giuliani (che non è certo un “produttore” nell’accezione corrente) siamo nelle condizioni di agire con la massima libertà. Nei Sovversivi non c’è un solo attore che risponda alle richieste possibili di un possibile noleggio: tant’è vero che poi il film non fa una lira. Probabilmente neppure il prossimo nostro film farà una lira, eppure non ci viene chiesto di metterci certi attori perché il film incassi di più. Quindi mi sembra che sia il cinema che fai tu, sia il cinema che facciamo noi è, nella struttura del cinema italiano e europeo, quasi un paradosso, cioè noi non dovremmo esistere. Noi potremmo esistere solo in rovesciamento totale del sistema, cosa che, almeno praticamente, non è così prossima. Allora, noi cerchiamo, come dice Valentino, di inserirci in queste contraddizioni, non rinunciando a nulla, veramente a nulla, e cercando di tirar fuori da esso, sul piano delle strutture produttive, il più possibile: proprio per contestare il tipo di sistema. La nostra azione è un’azione di contestazione proprio perché noi sfruttiamo al massimo ciò in cui “loro”, attraverso piccole fessure, ci fanno penetrare. Operiamo contro di loro, contro tutta una forma mentis nei confronti del pubblico, nei confronti del cinema in generale, quale si configura attraverso il cinema italiano d’oggi. Vorrei poi che tu dicessi qual è il tuo tipo di cinema. 
 
Orsini: Io vorrei che tu ci dicessi che cos’è per te cinema d’autore, indipendentemente dalle particolari ricerche poetiche che ognuno fa. 
 
[Bernardo] Bertolucci: Io mi dissocio da queste due domande, dallo spirito con cui vengono fatte. 
 
Leonardi: Jonas Mekas dice che non ha niente contro il cinema di Hollywood, perché questo cinema è una cosa talmente lontana da quello che almeno attualmente egli pensa, che non c’è possibilità né di opposizione né d’interferenza: si tratta di due tipi di esperienza gnoseologica diversa. Io sento la stessa distinzione, non la stessa opposizione, e penso che il vostro cinema, sia pure d’autore, rientri in questo grande territorio cinematografico che non mi appartiene: siamo due cose diverse. Io faccio il cinema con gli stessi problemi pratici di un poeta che fa una poesia, cioè non ci sono problemi pratici. Ho una macchina a 16 mm, giro quello che voglio, come voglio, la pellicola costa poco, ho una moglie che lavora, ergo con quel poco che riesco a guadagnare scrivendo un articolo per esempio, riesco a sopravvivere. Per me insomma il processo produttivo si adegua perfettamente al processo creativo. Per esempio io adesso sono stato fermo un po’ di tempo perché c’era brutto tempo, perché ho una pellicola a colori di bassissima sensibilità e ho bisogno che ci siano dei bellissimi colori pieni; e questo è l’unico problema che ho. Per quanto riguarda la distribuzione, noi non abbiamo problemi, perché le nostre cose sono talmente libere e avanzate rispetto al livello generale di cultura della nazione, e in genere della società, che sarebbe sbagliato pensare di proiettarle in un cinema qualsiasi, anche se ciò fosse per ipotesi possibile. Io sono venuto all’ultima riunione dell’ANAC per vedere se per caso era possibile fare con voi una battaglia contro la censura, che è praticamente l’unico ostacolo che ci impedisce di accettare la distribuzione commerciale, posto che si trovi qualcuno che ci distribuisca i film. Noi rifiutiamo il semplice contatto fisico con qualcosa che sia “censura”, per cui fino a che non esisterà più noi non distribuiremo i nostri film nei cinema normali. Sono perciò venuto da voi, ma poi ho pensato che in fondo era sbagliato, perché i nostri film vanno accompagnati: una preparazione del pubblico da tutta una serie di esperienze che abbiamo fatto e che sarebbe qui troppo lungo citare. Ora, noi siamo una trentina, riusciamo appena a stare dietro agli impegni distributivi che abbiamo; ben presto non potremo più farlo. Inoltre, questa non è una cosa necessaria solo come politica distributiva; è anche una cosa molto bella quella di essere proprietari dei film, distributori dei film, e di accompagnarli, cioè la relazione col film è una relazione che continua, è un dialogo che si approfondisce, si scoprono nei propri film e in quelli degli altri che accompagnano cose sempre diverse, è una specie di convivenza di gruppo tra film e autori estremamente dolce, molto bella, non c’è niente di quelle storture, brutture, shock che si possono avere nel mondo del cinema commerciale, per quel pochissimo che l’ho conosciuto facendo l’assistente e altro. Tutto è molto civile, soprattutto, e io credo di non poter dare contributi problematici stasera perché i problemi li abbiamo anche noi, naturalmente, ma non sono problemi traumatizzanti, non sono problemi superiori alla nostra dimensione. 
 
 
Aprà: Prima di proseguire, vorrei che tu precisassi quali sono i vostri canali distributivi attuali.
 
Leonardi: I canali distributivi sono enormi; in Italia esistono decine di migliaia di circoli del cinema, circoli culturali, associazioni di ogni genere, che hanno un proiettore a 16 mm., oppure che hanno un proiettore a 8 mm., perché almeno la metà dei film che abbiamo in catalogo sono a 8 mm. Ognuno ha i suoi contatti, crea un interesse, si crea un’abitudine a pensare che esistono questi film, i film si danno, se ne parla. 
 
Aprà: Un’altra cosa: tu dici che non ci sono problemi in comune; ma almeno uno ce n’è, quello di contestare il cinema esistente.
 
Leonardi: È chiaro che in un certo senso noi tendiamo a contestare il cinema esistente; ma questo in fondo è il problema meno interessante, ognuno modifica, per il solo fatto di esistere, l’esistenza di tutti gli altri, quindi anche il nostro cinema, per il solo fatto che esiste, può modificare o può influenzare l’altro cinema. Ma manca un terreno comune d’incontro e di scontro, le due entità, sono sicuro, esisteranno sempre, ma senza mai incrociarsi, a meno che, naturalmente, uno non passi da un campo all’altro. 
 
Bertolucci: Io non credo che ci sia alcuna differenza fra i film dei Taviani, di Orsini, miei – tanto per fare un esempio – e quelli di Leonardi, se non nel fatto che i nostri sono a 35 mm. e i suoi a 16 mm. Quando io faccio un film mi sento esattamente, come dicevi tu, come un poeta che fa una poesia o un pittore che fa un quadro. Quindi veramente non riesco a partecipare a questa sorta di discriminazione; tutto quello che hai detto ritengo di poterlo sottoscrivere. 
 
Leonardi: Dicevo prima di parlare più da spettatore che da autore, da collega. Prendiamo Prima della rivoluzione: in quel film indubbiamente tu hai espresso, profuso tutto te stesso, esattamente come me nei miei film. Però il tipo di linguaggio da te adottato è talmente correlato alle convenzioni narrative del cinema commerciale, che appunto in questo io cercavo di vedere una differenza. Inconsciamente, sei condizionato dal cinema, dal cinema “grande”…
 
Bertolucci: E tu credi di non esserne condizionato?
 
Leonardi: Certo, ma il problema è leggermente diverso. Tu sei influenzato da un certo tipo di cinema, io sono influenzato da un altro tipo di cinema…
 
Bertolucci: …il quale è influenzato dallo stesso tipo di cinema da cui sono influenzato io. 
 
Leonardi: Ma no! È chiaro che la storia del cinema è comune a tutti, però al suo interno si dipartono diverse correnti, alcune delle quali tendono di più a una comunanza con la letteratura, il romanzo, il teatro, altre invece con la pittura, la musica, ecc. Ora, guarda caso, il cinema “grande” è sempre stato molto più vicino a un modo di narrare, a convenzioni espressive proprie della letteratura. A me sembra – e questo dovrebbe servire a fare, a farci o farvi fare un’autoanalisi – che voi, in un modo o nell’altro, accettiate certe norme che vi consentono di convivere in seno a questa grande famiglia hollywoodiana, parigina, romana o moscovita, come direbbe il signor Godard. Il quale Godard fa, con Masculin Féminin per esempio, un film bellissimo e drammaticamente confuso, l’esempio tipico delle contraddizioni a cui va incontro una persona intelligente come lui, il quale ha un piede nel grande cinema, che conosce a memoria, e uno nel cinema nuovo, che è quello nel quale noi stiamo, bene o male. Godard ha delle intuizioni geniali, delle invenzioni di ritmo straordinarie, e poi delle banalità orrende che sono ancora appartenenti a questa scoria della storia, col suo bravo anti-happy end… Si incontrano cioè sempre nei suoi film queste cose con le quali lui è, probabilmente, in opposizione, che lui contesta, ma che mette sempre, che sono il segno della sua appartenenza, tuttora, a questo cinema. 
 
Bertolucci: Ripeto quello che ho detto prima. Mi sembra che noi facciamo tutti lo stesso tipo di cinema. La differenza è che noi forse siamo più condizionati dall’esperienza letteraria, narrativa, voi forse siete più condizionati dalle esperienze figurative o musicali. Però ho la sensazione che, anche perché nei nostri film i personaggi parlano e nei vostri film, almeno quelli che conosco, no, o forse non ci sono personaggi, voi siate tornati indietro a prima del 1930. Ho la sensazione insomma che i vostri film siano film in cui le immagini contano molto e il pensiero non conti niente, ho la sensazione che i vostri siano film totalmente privi di pensiero, molto rinunciatari nei confronti del pensiero e di un pensiero dell’autore, che siano film in cui c’è un certo lirismo dell’immagine, che può essere scarso o che può essere enorme, ma che sia un cinema in confronto al nostro piuttosto arretrato, reazionario, rinunciatario. Anche perché poi prendete il cinema come un’arte figurativa soltanto, e non come un’arte audiovisiva, prendete cioè il cinema per quello che non è, e alla fine tutti i vostri film sono piuttosto estetizzanti. Il tuo ultimo film, Se l’inconscio si ribella, io l’ho sentito come un film muto. Ora, posso essere distratto, ma non fino a questo punto. In questo momento sono molto attento al sonoro dei film, perché penso che il sonoro sia non solo importante tanto quanto l’immagine, ma addirittura, paradossalmente, più importante. 
 
Leonardi: Tu hai sbagliato prima a dire che i nostri film mancano di pensiero, essi mancano di parola, o, meglio, di sonoro labiale sincrono. 
 
Bertolucci: Un momento. C’è una grandissima differenza fra i film del muto e i tuoi film. I film del muto erano film sonori proiettati in un momento in cui le m.d.p. e le sale da proiezione non erano attrezzate per il sonoro, mentre i personaggi parlavano in continuazione. Invece i tuoi sembrano muti perché tutta l’importanza è data all’immagine. 
 
Leonardi: D’accordo sulla precisazione. I film muti erano del teatro filmato, solo che a teatro si sentivano le parole, al cinema non c’erano ancora le tecniche necessarie. Finalmente è arrivato il cinema sonoro, e allora il teatro si è trasferito in pieno al cinema, è arrivata la parola. Ora prendiamo Prima della rivoluzione: quello che mi ha dato fastidio in questo film è il sonoro, cioè la letterarietà strabocchevole dei dialoghi. Secondo me il linguaggio al quale tu fai riferimento, le parole, appartengono a un codice a nostro orecchio talmente scaduto, talmente banale, ovvio, che la prima cosa da fare è quella di abolirlo, prima di ricreare faticosamente un nuovo codice in cui la creatività sulla parola, o sul suono, raggiunga il livello della creatività sull’immagine che qualcuno di noi ha già raggiunto. Qui è un problema di reinvenzione che ognuno di noi si pone e che ognuno di noi ha risolto a un grado non definitivo, naturalmente. 
 
 
Aprà: Scusate, ma non vorrei che questo “scontro” vertesse su argomenti soltanto estetici, dove ognuno può avere le sue buone ragioni.
 
Ponzi: Mi sorprende una cosa in Leonardi; credevo che il vostro movimento aprisse le porte a chiunque, senza preclusioni. Ora, supponiamo che il film che sto per cominciare lo facessi con soldi miei, in maniera indipendente, ma senza cambiare nulla della sceneggiatura, troverei un posto fra di voi o no?
 
Leonardi: Teoricamente sì, e anche praticamente. La Cooperativa è un insieme di uomini che hanno dei film da distribuire, senza alcuna preclusione ideologica o poetica. 
 
Ponzi: Ma allora cade il discorso, la distinzione estetica che hai fatto!
 
Leonardi: Io ho parlato a titolo personale, non a nome della C.C.I.
 
Ponzi: Quello che io non capisco è perché una divisione di poetica debba diventare anche una divisione al livello produttivo e distributivo.
 
Taviani: Leonardi ha parlato di codici. Io penso che più o meno tutte le forme espressive dell’uomo in questa civiltà, oggi, fanno parte di un certo codice. Se tu fossi coerente con la tua stessa contestazione del codice, non mi dovresti venire a parlare improvvisamente degli elementi figurativi, ecc. No, dovresti stare zitto, cioè non dovresti parlare, non dovresti fare del cinema: perché cerchi soltanto delle scappatoie. Mi escludi la parola e non mi escludi il mezzo figurativo che forse è il più codificato di tutti. Dovresti scegliere il silenzio; al di fuori di questo, ci si riduce a una distinzione di generi espressivi che, fra l’altro, ha fatto il suo tempo, in cui non crediamo. Esiste come fatto pratico, ma non esiste come atteggiamento nei confronti della realtà. E comunque portare il discorso sul piano delle poetiche, almeno fra noi, diventa un giudizio di merito che non ci compete, almeno in questa sede: o che comunque a me, da parte tua, non interessa. 
 
Orsini: Io invece con Leonardi devo essere polemico. Alle chiese è tanto tempo che non ci credo più e, soprattutto, non le voglio fra i piedi. Tu mi prendi un’estetica e me la trasformi in una chiesa. La cooperativa di cui mi parli mi sembra una conventicola in cui, fra l’altro, vi siete autoconvinti che voi siete il cinema e il resto è Hollywood. Le più spregiudicate avanguardie storiche non sono mai arrivate a queste definizioni; c’era nei confronti di persone che operavano in altre poetiche un’attenzione più sensibile. Se voi nella vostra cooperativa fate i vostri film in piena libertà, a me va bene. Se però ti vuoi sostituire a tutto il resto, ponendoti come chiesa, ti assicuro che un coltello nella pancia nessuno te lo toglie. Perché? La differenza fra il nostro cinema e il tuo è che tu hai la moglie che guadagna…
 
Leonardi: …non più di 90.000 lire al mese…
 
Orsini: …io e i Taviani andiamo a lavorare e il nostro cinema ce lo finanziamo. Praticamente il procedimento è sempre il solito. Il fatto è che nessuno di noi è disposto a fare la pur minima rinuncia, e non è neppure condizionato, come dici tu, inconsciamente, perché c’è una coscienza critica costante, continua, di che cosa è il cinema, se addirittura ha ancora senso o no fare il cinema. Tu dici Godard, ma mi pare a sproposito, perché uno dei valori di Godard, mi sembra, è non solamente quello di fare un certo tipo di cinema, ma anche la coscienza dei limiti, il giudizio critico che dà sullo stesso mezzo, la coscienza della portata del linguaggio, la responsabilità di che cosa significa fare cinema; è una “coscienza infelice”, quella di Godard, che evidentemente nella vostra cooperativa non c’è, perché voi siete convinti di essere nella verità, o al di fuori delle contraddizioni. Tu mi fai un po’ pensare a un tipo di santone il quale si è ritirato sulla montagna e dice: “Il mondo non mi preoccupa”. Sarebbe facile risponderti. Né Lenin né “Che” Guevara, se fossero vissuti come dici tu, avrebbero cambiato la storia; il neocapitalismo o la hollywoodizzazione del cinema italiano continuerebbe tranquillamente ad esistere, mentre tu resti arroccato laggiù, hai il tuo circoletto, i tuoi filmini. Invece c’è qualcuno che per esempio non disprezza nemmeno i segni convenzionali. Tu dici la parola; “Che” Guevara non disprezzava un altro rumore convenzionale, quello delle armi da fuoco, il segno tipico con cui il potere costantemente ci domina. “Che” Guevara, infischiandosene se si trattava di un segno convenzionale, ha assunto questo segno, l’ha rivoltato contro chi l’usava prima, è riuscito a fare almeno una rivoluzione, cioè ha inciso nella storia, ha cambiato, ha fatto cultura e, se arte è conoscenza, a suo modo ha fatto arte, perché il suo è un momento della conoscenza del nostro tempo. La differenza sul piano personale – al di là di quella estetica, indubbia – sta nel fatto che forse noi siamo più disponibili a sporcarci le mani, più disposti a rimestare in questo mondo carico di merda e a cercarvi il sistema per cambiarlo. Certo, se le nostre opere non trovano quelle coincidenze storiche fortunate rimarremmo delle voci isolate – e questo indipendentemente dal valore delle opere -; ma almeno questo è il tentativo, da parte nostra. Dal punto di vista poi strettamente estetico, io sono d’accordo con Bertolucci. Ho l’impressione che le vostre esperienze al massimo si possono circoscrivere in quelle che sono le piccole contraddizioni della piccola cultura della grandissima biblioteca che è la cultura borghese; non uscite di lì. Se c’è oggi un tentativo di distruggere lo spettacolo, certamente non passa attraverso di voi, passa molto di più attraverso Godard quando Godard cerca per esempio di fare un cinema-saggio, dove cerca di articolare pensieri, non solamente attraverso la codificata parola, ma attraverso una ricerca linguistica in una certa direzione. In un mondo pieno di confusione come il nostro, mai come ora è necessario decifrare questo caos con estrema chiarezza, o almeno con la chiarezza di cui disponiamo, non cioè continuando a confondere o a eludere i problemi, o arroccandoci in posizioni di pura emozionalità o lirismo, che ti assicuro non danno noia a questo mondo, soprattutto non lo modificano. Invece i pensieri, i pensieri uniti al linguaggio, incidono, modificano, danno noia, cambiano la realtà culturale, tendono cioè a proporre un’egemonia culturale a questa egemonia culturale che non è in mano nostra. La coscienza di molti di noi è proprio questa, di operare in un mondo in cui il patrimonio di nozioni culturali è loro. E non mi venite a dire, Leonardi, che gli elementi del tuo linguaggio non sono, come i nostri, ricavati da una cultura che non è nostra, ricavati cioè da una serie di emozioni, di studi, di esperienze che abbiamo fatto fin dall'infanzia in un mondo che è questo mondo che ci ha partorito. Soltanto la coscienza di tutto questo può farti riadoperare dei segni consumati e ritemprarli nella tua opera. Se talvolta qualcuno di noi non ce la fa è per respiro poetico corto, per mancanza di chiarezza o di personalità, ma non perché è integrato. Ora, a me sembra che tu come noi conosci la più difficile delle integrazioni, quella di cui è più difficile liberarsi, che è quella che ci viene dalla nostra educazione: ma, a differenza di noi, mi sembra che tu non abbia la coscienza critica che questo linguaggio che viene fuori nei tuoi film fa parte di un patrimonio che ci viene da una cultura non nostra. Se poi il nostro linguaggio può ricordare per certi aspetti quello del cinema hollywoodiano, questo non ci spaventa affatto, come, sono sicuro, Tolstoj o Kafka non si spaventavano affatto di usare le stesse parole e perfino la stessa struttura del libro usata da tanti scrittori popolareschi. Mi sembra che il problema non sia questo: a parte il problema estetico, mi sembra che il punto stia nel rapporto fra l'autore e la propria opera, cioè nell'onestà del suo atteggiamento. La coesistenza pacifica di varie poetiche è poi un dato di fatto, tant'è vero che noi la ricerchiamo per un'azione comune nei confronti dei problemi politici, distributivi, produttivi, nel sistema, fuori dal sistema, proprio perché gli autori possono compiere, ognuno nell'ambito delle proprie esperienze specifiche, ognuno col massimo della libertà e con la coscienza di come servirsi del proprio mezzo, un'azione diretta a spostare un'egemonia culturale che noi sentiamo addosso pesantissima; e nell'egemonia culturale io ci metto non solamente quello che è tradizionale, ma anche tutta la neo-avanguardia, perché non la vedo né come una cultura né come un'arte alternativa, ma solo come una contraddizione della ideologia del potere; tant'è vero che se tu facessi pittura nel modo in cui fai cinema faresti anche soldi.
 
 
Aprà: Tutto sommato sono d'accordo con Bernardo quando dice che, dal punto di vista dell'atteggiamento dell'autore nei confronti della propria opera, non c'è differenza fra i suoi film e quelli di Leonardi, o della C.C.I., o del N.A.C. Aggiungo addirittura che ciò che più mi ha colpito vedendo i film del N.A.C., cioè di un movimento che rivendica un'assoluta autonomia dall'altro cinema, è la straordinaria relazione di alcuni di essi con registi diciamo classici: The Art of Vision e Griffith, Chumlum e Sternberg, Himself as Herself e Ejzenstejn, p.es. Su questo terreno, insomma, mi pare che le divergenze siano opinabili. Dove invece credo che non ci sia accordo, e vorrei che si discutesse in proposito, è sulla effettiva efficacia che possono avere film che in qualche maniera vogliono opporsi, diciamo, al sistema. Quello che mi chiedo è insomma questo: anche nel caso-limite di Godard, quando si opera bene o male nel sistema, cioè nelle sue strutture produttive e distributive, non si finisce con l'alimentare semplicemente il sistema che si voleva combattere? Con il fornirgli quelle opere, anche “diverse”, di cui il sistema ha bisogno per sopravvivere? La buona fede del regista, che mi pare difenda Orsini, forse non basta. Tutti sappiamo che Belle de jour, il film di opposizione, finisce per non esserlo più quando viene lanciato e distribuito in un certo modo. Il meccanismo del sistema è tale, oggi, che finisce per inglobare tutto: è un interrogativo che mi pongo, questo. Ciò che mi sorprende in Leonardi è che egli non abbia messo in rilievo il fatto che, da un punto di vista produttivo e distributivo – e non estetico come egli sembra volere -, la C.C.I. Si pone come un'alternativa, efficace o meno è un problema da discutere.
 
Leonardi: L'attacco di Valentino è stato diretto e frontale, e a me piacciono molto gli attacchi diretti e frontali. Prima di tutto debbo parteciparvi la mia venerazione per la vostra dirittura morale, che non ho mai messo in dubbio. Secondariamente, io non so se tu conosci i miei film.
 
Orsini: No, non li conosco.
 
Leonardi: Terza cosa, il discorso sulla contestazione. Questo è un discorso molto importante e centrale. Nonostante non mi sia piaciuta per niente la tua identificazione, inconscia, con “Che” Guevara, perché direi che è una mozione degli affetti piuttosto semplice, noi dobbiamo riconoscere che viviamo in un sistema in cui la parte più retriva spesso è rappresentata dal settore socialista, da un punto di vista artistico; e Godard questo l'ha perfettamente messo in luce con le sue ultime opere. Quindi mi sembra che sia estremamente semplicistico dire che noi saremmo gli utili idioti del sistema perché agiamo nel sistema, dato che tutti siamo nel sistema; non è più al livello di etichette che si può distinguere nel sistema, perché il sistema è una cosa ignobile, che travalica le frontiere, travalica anche le cortine, travalica tutto. Noi ci troviamo in un mondo industrialmente sviluppato e siamo nel sistema. A me sembra che all'interno di questo minestrone in cui ci troviamo tutti, presumere di contestare è prima di tutto una cosa estremamente relativa, relativa ai dati di fatto culturali, sociali, economici in cui ci si muove; secondariamente, una contestazione può avvenire solo se a un contenuto progressivo – cosa di cui non ho dubbi nel vostro caso – si accompagna 
un mutamento di modi, che sono sia modi di vita che modi espressivi; il problema delle mete è un problema talmente banale come è banale, se vogliamo, quello del Vietnam; non credo che ci sia più alcuna persona sensata che abbia dubbi sul problema del Vietnam. Il problema non è proiettarsi, avere delle mete talmente lontane da essere totalmente astratte e indefinibili, ma è quello di cercare ora di modificarsi, di cambiarsi. Il problema, ripeto, è un problema di modi, non di fini. Questo l'ha detto John Dewey, ed è per me un'affermazione fondamentale. Non è un problema di slogan, di contenuti, ma di linguaggi, perché lo slogan è un messaggio ipnotico che addormenta lo spettatore; la cosa importante non è dargli delle parole d'ordine ma dargli i mezzi per essere autonomo, per essere creativo, per essere lui stesso il creatore delle proprie parole d'ordine. Il problema è quindi quello di un rinnovamento totale del linguaggio, che non è solo una crosta esteriore, ma è un modo integralmente nuovo di essere, quindi di svilupparsi, quindi di comunicare. Le persone che hanno un linguaggio vecchio sono vecchie, hanno delle parole d'ordine vecchie, sono totalmente vecchie. Io non posso accettare la distinzione fra linguaggio vecchio e contenuto progressivo.
 
Bertolucci: Ma chi fa più una distinzione del genere? Forse solo gli zdanoviani del partito comunista.
 
Leonardi: Il problema è un problema di film. Quando ti chiedevo, Orsini, se avevi visto i miei film, non te lo chiedevo per brutalizzarti, perché io non ho visto i tuoi film, ho visto solo I fuorilegge del matrimonio, che mi è sembrato un film totalmente reazionario, con parole d'ordine superate, superflue. Per quanto riguarda Prima della rivoluzione, mi pare un'opera delicata, che a me piace abbastanza, ma abbastanza “tranquilla”; solo l'incultura di un popolo e l'insipienza di un distributore fa sì che un film del genere non abbia successo. A questo punto, a me sembra che noi facciamo un passo avanti. E fra di noi qui presenti si apre una dicotomia che si può saldare solo sul piano umano, ma non su quello culturale. È inutile dire che siamo tutti d'accordo, perché non è vero. Per me è importante che non si facciano queste fratellanze artificiose ma che invece si facciano delle distinzioni rigorose, dopo di che ognuno cerca di capire, cerca di vedere come crede.
 
Taviani: Nessuno cerca di fare delle fratellanze. Siamo cinque “imbecilli”, per usare la terminologia del cinema ufficiale, che sopravvivono in un sistema cinematografico quale il nostro. In questo senso diventiamo fratelli; fratelli coltelli, come dice il proverbio, certo, ma a un altro livello. Ci hanno costretto ad essere fratelli, siamo fratelli nella disperata ricerca di fare qualcosa che non è quello che è fare cinema oggi in Italia. Quanto poi al problema estetico, non capisco come tu possa fare distinzione – ripeto – fra ciò che appartiene al codice e ciò che non appartiene al codice, perché se vuoi negare in blocco, devi condannarti al silenzio. Non c'è nient'altro da fare. 
 
Amico: Si era partiti dai problemi che ognuno di noi ha incontrato per fare il proprio film e si è finito per fare un processo a Leonardi. Ora, io problemi per fare Tropici non ne ho avuti, ma li avrò per il prossimo film che farò. Problemi tali per cui può anche darsi che io di film non ne faccia più. In questo senso, la strada di Leonardi mi interessa enormemente. Quando Leonardi dice che noi siamo influenzati da Hollywood, da un certo tipo di cinema codificato, io non credo che questo sia vero al livello del linguaggio, e credo che Prima della rivoluzione sia svincolato da un certo linguaggio standardizzato tanto quanto i film di Leonardi; ma qui non mi interessa parlare di linguaggio. Dove io penso che Prima della rivoluzione sia molto meno autonomo dei film di Leonardi è nella formula produttiva. Trovo cioè che Leonardi ha ragione quando dice che noi ci facciamo condizionare; noi non siamo liberi proprio perché quando pensiamo a un film, pensiamo a un oggetto che costa come minimo 40 milioni e che ha una serie di caratteristiche, che sono un tipo di pellicola, una troupe numerosa, gli attori, ecc. Loro da tutti questi problemi si sono liberati. A me interesserebbe discutere il problema da questo punto di vista; vedere che cosa si può fare e in che cosa l'esperienza loro ci può essere utile, per rendere poi ognuno di noi libero di fare il proprio cinema. Resta un dato oggettivo che Bernardo riesce oggi a fare un film dopo essere rimasto quattro anni senza averne fatti, mentre Leonardi i suoi film li fa quando e come vuole.
 
Bertolucci: Ma questo è un problema personale. Nessuno ti vieta di prendere una 16mm., della pellicola e di girare.
 
Amico: D'accordo, ma in pratica poi questo non avviene.
 
Orsini: Ma no. A me interessa fare un certo tipo di opera, per cui fino a che non mi sento maturo per farla non la faccio, e la faccio solo quando mi sono creato le condizioni per farla. Ma questo non vuol dire che io sia condizionato.
 
Bertolucci: Amico vuole invitarci in sostanza a discutere sulla possibilità di creare una nuova struttura in cui sia possibile p.es. fare un film con due milioni e mezzo. Il che però è già possibile. Non vedo perché bisogna parlarne. Ognuno di noi può trovare una 16 mm., fare il suo film, proiettarlo al “Filmstudio” o a Via Belsiana… Io non lo faccio perché non mi interessa, perché ho bisogno della 35mm., dello scope… Il problema è casomai vedere perché l'Italnoleggio ha impiegato due anni prima di decidersi, dopo che io ho dato una serie di sceneggiature.
 
Amico: Questo significa che ci facciamo condizionare dall'Italnoleggio, e diamo ragione a Leonardi.
 
Taviani: Il fatto è che per raccontare quello che voglio raccontare io – almeno in questo momento; domani potrà essere diverso – ci vogliono più soldi di quelli di cui ha bisogno Leonardi per raccontare le sue cose.
 
Bertolucci: Io non ritengo giusto che mi si obblighi a fare dei film in 16mm. Non li voglio fare. Il giorno in cui li voglio fare, li farò. Li ho fatti a 15 anni, li rifarò fra un anno, quando Partner sarà andato talmente male che capirò di non poter fare più film per dieci anni, allora per dieci anni farò film a 16mm., e forse troverò una libertà nuova, verrò con te, Leonardi, andremo insieme ad accompagnare i nostri film, i nostri figli. Però adesso non ci vengo.
 
Amico: Ma nessuno ti vuole obbligare a fare i film a 16mm. Voglio solo porre il problema, e dire che da molti punti di vista Leonardi ha ragione quando dice che noi ci facciamo condizionare dal sistema.
 
 
Orsini: Non sono d'accordo. Col 16mm. – la televisione insegna – si possono fare i film più immondi e infami, e col 35mm. puoi fare opere che incendiano il mondo. Non è il mezzo, sono le idee che stanno dietro il mezzo a contare; e le idee, ripeto, non sono gli slogan, sono idee-linguaggio. Per questo condizionati lo siamo tutti, e per questo ci vuole la coscienza del proprio linguaggio, perché è quello che più ci sfugge nel momento dell'operare cinematografico, perché è l'elemento più inconscio, che recepiamo da una cultura che molto spesso razionalmente rifiutiamo. Sapere, semplicemente, che questa è la situazione ci porterebbe al silenzio. Ma poiché zitti non vogliamo stare, poiché dobbiamo operare su questo mondo, evidentemente è la coscienza di questo condizionamento che ci deve rendere vigili nei confronti del linguaggio che adoperiamo. C'è un altro problema invece, quello posto da Aprà, che secondo me è centrale, e che deve inquietare un autore. Fare del cinema che significato ha? È, anche quando noi pensiamo che sia il più avanzato possibile, veramente qualcosa di nuovo o non è già contemplato dal sistema, o il sistema non è capace di integrarlo? Il mondo ci chiede, se lo vogliamo modificare, dei gesti cui molto spesso il cinema, o qualsiasi altra espressione artistica, non è capace: si rischia insomma costantemente di essere integrati o, se non integrati, esclusi dal gioco, il che praticamente è lo stesso. Leonardi diceva una cosa secondo me giusta: è una questione di modi. L'operare cinematograficamente in un certo senso non può esimere l'autore da tutta un'altra serie di responsabilità. Prima di tutto perché oggi l'autore non può più credere alla funzione definitiva della propria opera; e poi – parlo qui di inquietudine personale – sì, un cinema il più avanzato possibile, dal punto di vista delle sue ipotesi ideologiche e dei suoi risultati logistici, cioè la coscienza costante del fare cinema, una mediazione fra pubblico e opera completamente diversa, non esclusivamente emozionale ma tesa a promuovere l'attività del pubblico nei confronti dell'opera stessa; sì, tutto questo va bene, ma è sufficiente? Questo non è già contemplato, questo tipo di contraddizione non mi è già permessa? Nel novantanove per cento dei casi mi è permessa. Allora come autore devo accompagnare l'opera a tutta un'altra serie di gesti che riguardano la mia vita privata, poiché il mio cinema in un modo o nell'altro per me è la coscienza; ma se questo non è sufficiente allora evidentemente devo impegnare la mia vita privata in una serie di atti che siano conseguenti al tipo di cinema che faccio; e questo non solo nel difenderlo, nel trovargli un pubblico – e in questo l'esperienza della C.C.I. mi sembra interessantissima e  affascinante – ma anche in quello che è il proprio rapporto con la società, in modo che l'opera non esaurisca tutta l'attività di un uomo ma ne sia solo un momento, attraverso il quale si cerca di decifrare certi aspetti della società. D'accordo anche con Leonardi quando dice che tale rapporto non può avvenire più attraverso gli schemi, spesso fermi e morti, dei partiti politici attraverso i quali non passa quasi mai più la contestazione; ma attraverso quei gruppi o avanguardie attraverso i quali essa passa; con una visione un po' più generale di quella di Leonardi, però, nel senso di un legame  fra queste avanguardie e le avanguardie politiche, rivoluzionarie; anche le cose che si fanno in Italia, in Europa, allora acquistano un significato ben preciso, anche se immediatamente non determinano e non modificano nulla. Insomma, potrò fare un film a basso costo quando voglio, al di fuori delle strutture, ma il dubbio che esso sia già contemplato dal sistema mi rimane, non mi sento salvo, e questo per due ragioni fondamentali. Prima, quella del linguaggio, col quale debbo sempre fare i conti; seconda, perché ho sempre la sensazione che qualsiasi gesto io faccio sia previsto dal nemico. A questo punto, l'unico legame che mi dà solidità è quello di legarmi nello spirito dell'opera e poi, nella mia azione pratica, alle avanguardie che io so che invece contestano e non sono digerite dal sistema del potere.   
 
Leonardi: Mi interessa il discorso di Orsini a proposito delle avanguardie politiche. Io ho avuto una recente esperienza con gli studenti universitari, che possiamo considerare in questo momento un'avanguardia politica. La mia netta sensazione, ricavata da dialoghi con loro prima, durante e dopo la proiezione organizzata dall'università, è che le avanguardie sono tali nel loro campo specifico di azione, ma poi sono retroguardie negli altri campi. P.es. gli studenti sono profondamente diseducati – dalla scuola che loro criticano, giustamente – rispetto alle esperienze artistiche moderne. Questo mi ha fatto capire che le avanguardie, primo, esistono dappertutto ma settorialmente, e molto spesso i momenti del nostro fare artistico e i momenti delle loro rivoluzioni non coincidono; secondo, che siamo noi i rivoluzionari del nostro settore, e non credo che dobbiamo andare a cercare presso altri delle patenti di nobiltà che ci tirino su, per così dire; in fondo siamo noi che siamo avanti e dobbiamo non tirare su gli altri, ma parlare con gli altri, perché questo è essenziale. Per questo dico che è fondamentale per noi il fatto di accompagnare i nostri film; i nostri film hanno un elemento in comune, che è quello di una estrema soggettività e quindi di una estrema sfuggevolezza rispetto a dei canoni che sono ora di giudizio artistico, ora di giudizio morale, ora di giudizio sulla vita civile, che sono insomma le regole della società; il fatto di portare lo spettatore a capire e a rispettare questo, a cercare di distruggere tutti i suoi diaframmi, di abolire tutti i suoi apriorismi, di accettare, di cercare di capire e di vedere quello che l'autore vuol dire, non porta a capire meglio quello che l'autore dice, perché questo nessuno lo saprà mai, nemmeno l'autore lo sa; ma porta lo spettatore a una grande creatività, perché è lui che riempie di nuovi contenuti, di nuova vita, o semplicemente di vita, uno stimolo che gli viene dato; e questo crea o può creare in lui lo scatenamento di un principio di autonomia, di creatività che manca o è addormentato nella grande maggioranza delle persone; creatività che non si deve esprimere solo nei confronti dell'arte, ma globalmente, come per l'artista, per il quale la cosa importante in fondo non è l'arte ma la vita, l'arte è solo il suo modo di riflettere sulla vita. Se si riesce a operare in questo senso sulla gente, allora siamo sulla buona strada. E noi crediamo che questo processo di autonomia risvegliata nell'individuo è dato dalla visione dell'autonomia di un altro individuo, che dev'essere il più possibile radicale.
 
Ponzi: Perfettamente d'accordo, ma questi sono appunto gli scopi della grande maggioranza del “nuovo cinema”.
 
Bertolucci: Scusami Leonardi, ma tu dici delle ovvietà con l'aria di scoprire il mondo. Le tue banalità mi fanno venire sonno.
 
 
Aprà: Anch'io non ho dubbi sul fatto che sia i filmmakers della C.C.I. o del N.A.C. che i registi del nuovo cinema partono più o meno con gli stessi scopi. Continuo però a chiedermi se al punto di arrivo, cioè per quanto riguarda gli effettivi risultati sul pubblico, non vi sia una differenza. Il problema insomma non sta nel come è fatta l'opera, ma in come l'opera viene ricevuta.
 
Leonardi: Lo ripeto, è un problema di modi. C'è per esempio un problema collaterale ma importante, ed è che il nostro tipo di cinema è un cinema che molto facilmente gli spettatori potrebbero fare. Noi cioè diamo un esempio di libertà sia creativa che produttiva tale per cui lo spettatore si sente stimolato a fare del cinema. Si tratta insomma di insegnare alla gente a vedere, a conoscere, a rivivere, a pensare e a fare. Mentre invece quello stesso spettatore non può fare, p.es., Belle de jour, film bellissimo, meraviglioso ma elitario, perché può essere fatto solo in certe condizioni, da certe persone, sottostando a certe regole.
 
Aprà: Io torno su quello che dicevo prima. Vorrei per esempio chiedere a Gianni Amico che efficacia spera di ottenere con Tropici, dal momento che questo film verrà trasmesso in televisione, cioè letteralmente confuso nel gran calderone che è oggi questo mezzo di comunicazione.
 
Amico: Mi chiedi perché ho fatto il film per la televisione. L'ho fatto innanzitutto perché è la televisione il produttore che mi ha consentito di farlo. Ma a parte questo, la televisione è l'unica fortuna del mio film. In televisione mi dicevano che esisteva il pericolo che il film finisse sul secondo canale il sabato sera, quando sul primo passa “Canzonissima”. Allora mi sono informato, e ho saputo che avrei potuto contare su un indice di ascolto di 700.000, 800.000 persone. Quando mai tante persone avrebbero visto il mio film se fosse passato al cinema? Poiché il mio film è un film didattico-politico la cosa che mi interessa di più è che raggiunga un pubblico il più vasto possibile. Per questo dicevo che la televisione è la fortuna del mio film. Mi sembra che nella tua domanda sia implicito un atteggiamento negativo nei confronti della televisione. Io difendo la televisione per quello che potrebbe essere potenzialmente, basta pensare al lavoro di Rossellini. E poi il mio film si confonderà nel gran calderone della televisione, ma tu sei certo che il gran calderone del cinema sia meglio? Se guardo i programmi televisivi di oggi e i film in programmazione nei cinema di Roma, direi che il calderone del cinema è peggiore di quello della televisione. I film nostri sono destinati a confondersi in un enorme calderone nel quale, per lo spettatore, è praticamente impossibile individuarli. Anche per questo mi interessa il lavoro della cooperativa. Hanno scelto un pubblico e propongono al loro pubblico un programma di un certo tipo, che non permette possibilità di equivoci.
 
Orsini:  Si è accennato agli studenti. Gli studenti, con la loro attività, ci hanno fornito un esempio. Non si tratta solo di fare dei film in piena libertà, ma anche di non rinunciare tout court ai canali di comunicazione esistenti. Approfittiamone; perché ci dobbiamo arrendere? Non basta dire, come fa la C.C.I., “noi abbiamo il nostro pubblico”. E l'altro pubblico? E quello che non avviciniamo, quello che abbandoniamo al cinema commerciale? Lì la responsabilità non la sentiamo? Perché non cerchiamo di conquistare gli spazi esistenti, proprio perché la nostra influenza sul pubblico sia molto maggiore? C'è il rischio di ritirarsi e basta. Se questo serve come elemento tattico, sono perfettamente d'accordo con te, Leonardi: ritiriamoci sulla montagna, organizziamoci bene, per poi scendere a conquistare la città; non lasciamo gli altri in città, perché questa sarebbe solo autocastrazione. Quanto poi al problema della soggettività, al quale ha accennato Leonardi, devo dire che oggi chiunque in un modo o nell'altro voglia modificare la storia lo richiama, questo non abbandonarsi a un'oggettività che ci condiziona e che sembrerebbe immodificabile; perciò questo richiamo alla soggettività: proprio per incidere e modificare, perché non vogliamo che l'oggettività ci schiacci. Però nel momento preciso in cui dico questo e rivendico questo momento soggettivo, devo anche fare un'esatta valutazione di questo momento soggettivo, poiché esso è frutto di un rapporto con la storia, cioè con un'oggettività storica che è al di fuori di me.
 
Amico: Io torno  dire che qui non si è parlato abbastanza del vantaggio che offre l'esperienza di Leonardi e della Cooperativa dal punto di vista produttivo e distributivo. Molti dei film che facciamo potrebbero benissimo costare molto meno se solo venissero fatti a 16mm. E soprattutto potrebbero essere girati molti dei film che invece non realizziamo. 
 
Aprà: Io credo che non cambierebbe la sostanza del film, girandolo a 16 mm. Quello che cambia, date le strutture attualmente esistenti, è il pubblico a cui l'opera verrà destinata. Io ho l'impressione che in definitiva la scelta di certi mezzi tecnici sia determinata dalla scelta preventiva di un certo pubblico, e da tutta una serie di elementi circostanti che esistono attorno a tale scelta. Questo almeno in Italia, dove non abbiamo, come p.es. in Canada, l'esperienza del film a 16mm. “gonfiato” a 35 mm. e distribuito nelle sale normali.
 
Amico: Il problema è fare i film o non farli. Ci sono dieci persone che fanno i film a 35 mm. Ma accanto a queste dieci ce ne sono cento che non riescono a farli, e che invece potrebbero farli a 16 mm. o a 8 mm. Quello che noi dobbiamo pretendere è che tutte e cento le persone facciano i film. Questo mi sembra l'unico vero modo di cambiare la situazione.
 
Taviani: Ma i cento film non entrerebbero mai nel mercato, così come esso è strutturato adesso. Perciò bisognerebbe cominciare con il cambiarlo.
 
Amico: Ma infatti Mekas, per esempio, ha creato un forte circuito distributivo indipendente, dove i cento film trovano modo di essere visti.
 
Taviani: Tutto sommato, devo dire che sono solo palliativi quelli che si possono trovare. Finché viviamo in questo tipo di sistema, possiamo trovare solo delle scappatoie. Il discorso di fondo è sempre il solito: bisogna rovesciare il sistema. Finché viviamo in questo sistema, cerchiamo sì delle strade, ma rendiamoci ben conto della loro relatività. Sono d'accordo con te, Amico, che col cinema non si fa la rivoluzione.
 
Amico: Ho l'impressione che noi si faccia un gran parlare senza che si sia disposti a sacrificarci. Personalmente, il rimprovero iniziale di Leonardi, che noi ci si muovesse in strutture hollywoodiane, l'ho sentito vero. O almeno è vero che la strada da lui scelta è più coraggiosa. Tutti i nostri sforzi – per tre quarti sprecati fra l'altro – sono indirizzati a ottenere qualcosa all'interno di un sistema che non ci concede niente. Loro invece hanno almeno questo merito, di avere trovato un altro modo di fare cinema.
 
Bertolucci: Nessuno nega che produttivamente essi operino diversamente. Ma quello che conta sono i risultati, e questi secondo me sono vecchi: si tratta tutto sommato di un cinema di evasione, se si può ancora usare questo termine, di un cinema reazionario, conservatore, di un cinema estetizzante, perché in esso quello che conta sono le immagini e non i pensieri, è un cinema che ripercorre le strade già battute dal cinema quarant'anni fa, Un chien andalou. Io amo Un chien andalou.
 
Amico: Ripeto che non mi interessano i problemi artistici, mi interessa la formula produttiva. Per me il problema è uno solo: fare dei film, e loro riescono a fare dei film. E non tutti devono essere necessariamente univoci nel senso di Leonardi. Il film che abbiamo visto a Mannheim, p.es., David Holzman's Diary, era un film abbastanza classico, con attori, era molto bello ed era costato pochissimo. Il miglior film italiano che ho visto quest’anno è il film di Paolo Brunatto, Vieni dolce morte, un film costato anche questo pochissimo, girato in 16 mm., sonorizzato con dei dischi.
 
Ponzi: Sul problema del costo sono d'accordo con Amico, ma non mi pare più un vero problema. Il film che faccio io o quello dei Taviani o quello che farà Ferreri costano pochissimo. Il vero handicap sorge al momento della distribuzione, perché senza di essa non scattano una serie di combinazioni produttive. Comunque, ripeto, se si desidera che il proprio film venga visto (e non per questioni di vanità personale, secondo le allusioni di Leonardi, che, se ci sono, non sono determinanti), appunto perché si giudica essenziale il rapporto potenziale col pubblico attuale, la distribuzione serve. Non che io mi faccia illusioni sul fatto che la distribuzione esaurisca questa esigenza – spesso il circuito minore si profila fatale – ma dà una patente di regolarità al film che gli permette di avere una prospettiva. Amico dice: Brunatto il film lo fa; ma è proprio tanto banale rispondere: e chi lo vede? Questo ricatto forse è quello che imprigiona, ma io una via d'uscita non la vedo. Il nostro modo di fare cinema – a prescindere dalle scelte estetiche – mi pare ancora inevitabile se vogliamo certe cose, che è giusto che un autore pretenda.
 
Taviani: Sono d'accordo che si apra una nuova prospettiva per fare i film, in questa maniera. Quello che nego è che questo significhi contestare il sistema più che nel nostro caso; e poi mi oppongo alla poetica proposta da Leonardi, come unica poetica possibile. Ma scherziamo?
 
Amico: Su questo sono d'accordo anch'io.
 
Bertolucci: Io non sono d'accordo. È un problema di scelta personale che uno può fare di volta in volta, quello del 16 mm. o dell'8 mm.; non lo vedo come argomento di discussione da teorizzare.
 
Amico: Io credo che l'attività della Cooperativa ci aiuti almeno a distruggere la cattiva coscienza di chi dice che certi film li vorrebbe fare e non li può fare. No, i film si possono fare, se non si fanno è perché non si vogliono fare, o almeno perché non siamo disposti a sacrificarci per farli.
 
(Tratto da: Cinema & Film, nn. 5-6, estate 1968)