E così Refn scelse di intraprendere un percorso solitario e impervio.
Proprio dopo la croce e la delizia di Drive, capolavoro (mancato?) destinato a crescere man mano che il suo hype va dissolvendosi, il danese si getta a capofitto in un'operazione che seppellisce l'astuzia sotto una coltre di autolesionistica passione. Chi si attendeva un po' di sana ultra-violenza è servito, ma la portata è ricca di spezie per pochi palati; chi si attendeva un nuovo Drive è costretto ad assistere a un Gosling ridotto a simulacro dello stuntman taciturno, osservatore passivo in odore di martirio in luogo dell'implacabile giustiziere with a code.
 
Fin dai titoli di testa in caratteri thai è chiaro che Solo Dio perdona si rivolge a un target esoterico, quasi solipsistico, e che Refn non cerchi altro che girare il proprio film, come se il fenomeno di massa generato da Drive non rappresentasse che un vago brusio di fondo per la sinfonia che impazza nella testa del danese. Refn, questa volta, non fa nulla per piacere, né per celebrare proselitismi. E se l'anti-refnismo – sovente isterico e pernicioso quasi quanto l'idolatria refniana – accusa costantemente il nostro di plagio e difetto di originalità, ecco che il regista sceglie di tuffarsi nel citazionismo stilistico, riprendendo con virulenza i più palesi tra gli stilemi lynchiani per calarli in una Bangkok nuovamente Dangerous. Procedendo per simbolismi e ricorrendo ad archetipi – madre, figlio, Edipo, vendetta, giustizia – che sono patrimonio del(la vulgata della tragedia greca secondo il) cinema dell'Estremo Oriente, di cui Refn si dimostra, ancora una volta, debitore appassionato e riconoscente. Nulla avviene per caso nel cinema dell'autore di Valhalla Rising, e così è per Solo Dio perdona: perché altrimenti scegliere la Thailandia, terra del miglior cinema d'azione degli ultimi anni, dedito al verismo della messinscena e scevro da digitalismi spurii? Né stupisce il ringraziamento nei titoli di coda a Gaspar Noé, la cui estetica pare sempre più affine alla crudezza refniana. Noé e Lynch incontrano il cinema di Prachiya Pinkaew e i neon dei fratelli Pang per una rivendicazione inaspettatamente sincera del cinema di genere. 
 
Un'operazione in cui il lavoro di svuotamento e ribaltamento del personaggio di Ryan Gosling diviene componente essenziale: un esercizio consapevole, metodicamente calcolato e finanche divertito, che carica di simbolismi a effetto – la mano che si tende cronenberghianamente verso il ventre materno squarciato – la disintegrazione dell'eroe per lasciare spazio a un osservatore disgustato, preda di conflitti edipici irrisolti ma impossibilitato a sfuggire di fronte alla propria etica. Come per il giovane Paul Newman, che non poteva fare a meno di dimostrarsi umano, persino quando era selvaggio come Hud, altrettanto impossibile vestire con i panni del villain il corpo di Julian/Gosling, che pare accettare con tacita approvazione il verdetto della giustizia implacabile di Chang. Quasi che prevalesse la consapevolezza di aver errato, e di averlo fatto in eccesso, di aver “invaso” e contaminato una comunità che risponde a leggi incomprensibili quanto inflessibili, incarnate da una figura di giustiziere che pare una diretta emanazione dell'universo dei manga più efferati. Fino a spingersi così in là da leggere nella rassegnazione di Julian una sottomissione dell'Occidente (e del cinema occidentale con esso) di fronte alla magnetica imperscrutabilità dell'Oriente (e del cinema orientale con esso).
 
Con gli eyes wide shut di un bambino menomato, sommerso da pellicole e bobine di film, che pare smarrito, ma invece prevede il futuro.
 
 
Solo Dio perdona (Only God Forgives), regia di Nicolas Winding Refn, Francia/Danimarca 2013, 90'.