Raramente, su queste pagine, ci siamo interessati alla produzione cinematografica industriale americana e fin dal primo numero abbiamo esposto la nostra ferma convinzione riguardo l'esautorazione dell'interlocutore critico messa in atto da tale produzione. Come sostiene Girish Shambu su questo stesso numero, rinnovare una "politica degli autori" che elegga a propri alfieri registi come Michael Bay o Paul W.S. Anderson non può essere altro che una parodia di quanto fatto dai "giovani turchi" francesi oltre mezzo secolo fa: un azzeramento cinico e consapevole della politicità dell'autore. Ciò non toglie che anche la produzione più biecamente commerciale possa rivestire una qualche utilità nell'interpretare lo stato della società, e può capitare che dal suo mare magnum talvolta emergano esemplari in grado di dire qualcosa di sorprendente sullo stato del cinema. In maniera del tutto inconsapevole, crediamo.
C'è un momento illuminante in Sinister di Scott Derrickson, in cui lo scrittore sensazionalistico interpretato da Ethan Hawke si confronta per la prima volta con gli angoscianti filmati in super-8 ritrovati nella casa teatro di un recente e insoluto massacro. Taccuino in mano, osserva con occhi sbarrati l'impiccagione di un nucleo familiare, e la domanda che verga sulla pagina bianca non è "chi li ha uccisi?" ma "chi ha girato il film?". Nell'ultimo decennio il cinema horror abbia fatto sempre più spesso ricorso all'uso del found footage fittizio e ciò costituisce uno dei più interessanti territori di indagine della produzione cinematografica hollywoodiana contemporanea. Cosa si cela dietro questa necessità di ricercare l'immagine mossa e sgranata per filmare il male, per cogliere la natura sfuggente della paura? Cosa ci dice questa tendenza a favore di una finta amatorialità delle riprese che investe in maniera sempre più capillare i generi del cinema americano? Molteplici potrebbero essere le letture e le considerazioni da fare, e se abbiamo deciso di concentrarci sull'horror è perché lì più che altrove si annidano, come demoni in attesa di essere sprigionati, i germi di un'articolata e proficua riflessione sullo statuto dell'immagine e sulla nostra sete di realtà.
“Found footage” è la definizione clamorosamente errata che trovate sui quotidiani, abuso che profana opere di Gianikian/Ricci Lucchi, di Forgács, di Morrison. “Discovered footage” è la definizione proposta da David Bordwell, la definizione che rilanciamo, quella adeguata per parlare di una tendenza che, nel momento in cui scriviamo, impronta film come The Bay e The Dinosaur Project. Il dato è che oggi, sempre più insistentemente, sala e tv propongono immagini che si vogliono amatoriali, recuperate dall’archivio farlocco di una farlocca realtà divorata dalla voracità testimoniale, flussi di frame traballanti che descrivono una nuova idea di realismo. Storie di fiction che si vogliono fortissimamente rubate e ritrovate, narrazioni di occhi digitali in prima persona o sottratte a dispositivi di controllo, come fossero reperti significativi salvaguardati dall’indistinto sommarsi di video a video, da quella documentazione che affastella testimonianza su testimonianza, e finisce per scomporre la realtà in infinti punti di vista possibili.
Scorre, in questi oggetti, il sentimento eroico (ed eretico) di quest’atto di recupero, insieme al feticismo compiaciuto di un’infrazione, effettuata sia nel restituire al pubblico quello che un’implicita istituzione – in questo contemporaneo che ha sostituito la paranoia a ogni grande narrazione possibile – avrebbe voluto serbare come segreto; sia nell’ebbrezza pornografica di un oltraggio necrofilo al tempo: il rivivere nell’immersivo linguaggio del presente ciò che è dichiarato narrativamente come passato. Frantumi di un reale registrato e dissepolto, schegge di una Storia parcellizzata vissuta da uomini piccoli, frammenti di una realtà impossibile da comprendere nella sua totalità, lacerti di un senso che non è mai compiuto, ma sperimentato fisicamente nell’oscillare tremante della mdp, di quell’immagine che si finge traccia di un corpo, oppure nel nuovo realismo dei sistemi di controllo e dei loro pianisequenza baziniani, che si negano al decoupage classico, alla grammatica dei generi, alla retorica delle tensioni da imporre allo spettatore.
Ed è una retorica della realtà, questa che ossessiona il cinema d’oggi, che s’applica soprattutto ai generi, all’horror, in primis, al bellico, giocoforza, ma anche al monster movie (Cloverfield, precipitato esteticamente coerente delle narrazioni da 11/9), al supereroico (Chronicle), persino alla commedia (Project X. Una vacanza da sballo), come a voler aggiornare le logiche di questi modi seriali di produzione del senso all’assillo per il vouyerismo al tempo del reality show e delle videoconfessioni su youtube, alla vertigine delle immagini narcisistiche e/o oscene che informano la nostra quotidiana frequentazione del mondo.
Così, il versante di maggior interesse offerto dal filone del "found footage horror" ha a che fare con la capacità di mettere in una luce inquietante l'uso "domestico" delle tecnologie di ripresa proprie di videocamere, portatili e cellulari. E se da una parte il successo di questi film a basso budget, girati "male" e in cui spesso non succede assolutamente nulla fino agli ultimi minuti (e cosa succeda a quel punto non è mai sufficientemente chiaro) costituisce un salutare antidoto all'invadenza e all'inutile magniloquenza dell'effetto speciale, dall'altra dice anche dell'incapacità di un genere di reinventare i propri miti ed elaborare nuove forme della Paura. Allo stesso modo, è impossibile non pensare che rispecchi in maniera atroce l'alienazione dell'individuo, il suo ripiegarsi su se stesso e la sua disponibilità a cedere la concretezza dell'esperienza in cambio di una virtualizzazione sempre più marcata dei rapporti.
Il discorso è appena sfiorato e resta aperto a ulteriori approfondimenti, così come aperto resta il principale dilemma formale alla base dell'utilizzo del falso found footage nell'horror e altrove. Chi ha trovato questi filmati? Chi li ha assemblati? Chi ha montato le immagini della letale videocassetta di Ring e gli snuff di Sinister? Chi ha girato il film? La democratizzazione del digitale non deve fare paura, i buoni registi saranno in grado di emergere rispetto a quelli scadenti anche dopo la scomparsa della pellicola; deve fare paura l'annullamento della privacy causata dalla diffusione capillare e dal moltiplicarsi inarrestabile di immagini filmate prodotte dalle videocamere di sorveglianza e dai nostri stessi dispositivi di ripresa, dall'esibizione volontaria o meno di vite che non sono più nostre.