Nella virtualità in cui siamo immersi, pronti a tenere un “diario” aggiornato aperto alla lettura di follower o presunti amici, in una più o meno consapevole costruzione di un avatar che diventa il tramite con cui ci immettiamo nelle relazioni interpersonali e/o nel dibattito politico-culturale restaurando una solo presunta rete sociale, viene da chiedersi se il compito del critico non sia provare a rintracciare i segnali (o meglio i sintomi) che questa trasformazione mediatica abbia portato nella rappresentazione cinematografica.
Se la dinamica delle community e dei socialnetwork sono state affrontate in maniera diretta dai registi più disparati (pensiamo alle stanze-paranoidi di Chatroom di Idaho Nakata o alla epopea post-classica di Socialnetwork di David Fincher), altro concerne quel gruppo di autori la cui opera sembra flirtare in maniera ambivalente con le nuove pratiche di comunicazione, quasi imbastendo le regole di un campo estetico condivise dal social e dai suoi utenti. Metodi quali la collezione, il collage, la raccolta di oggetti/immagini/pensieri diventa il trend entro cui si muovono da anni (non ancora sospetti) i film di Wes Anderson, Sofia Coppola, ma anche Harmony Korine, Miranda July, i meno noti fratelli Safdie e con loro una piccola schiera di registi americani indipendenti. Le immagini dei loro film “funzionano” in rete, sono postate e cliccate, catturano più di altre immagini cinematografiche l'attenzione del fruitore dei social che ambisce a cristallizare il proprio “io” in un collage significante, quanto una delle camerette retrò dei protagonisti della famiglia Tennembaum o nel tripudio del gusto in ogni inquadratura di Marie Antoinette.
Si può tranquillamente sostenere che Sofia Coppola avesse già trovato il modo, certo più elegante e raffredato, per affrontare la progressiva virtualizzazione dei rapporti sociali e il conseguente culto dell'oggetto (che sia il capo di moda o la tecnologia retrò, poco importa): proprio attorno a questi due poli ruotano in maniera più o meno evidente tutti i suoi film, descritti dai denigratori come “la noia vissuta dalle ragazzine perbene” (vedi le dure recensioni di Variety). E ancora una volta ritorna al fulcro nevralgico, in maniera più scoperta e diretta, con The Bling Ring basato su un caso di cronaca esemplare nella trasformazione della società contemporanea. Gli adolescenti della gang non sono soltanto dei fashion addicted pronti a rubare abiti e accessori di marca nelle ville dei vip, ma sono ragazzi convinti di essere nel giusto, perchè entrare in quei santuari del lusso è come portare via qualche vestito dall'armadio di un'amica (e chi non l'ha fatto in adolescenza?), perchè il loro vivere il jet-set di Los Angeles dai margini, dal buco della serratura dei social-network e dei tabloid online, regala loro un'imprevista chiave d'accesso all'intimità di stanze piene di oggetti glamour pronti a trasformarsi in feticcio. E come tale il feticcio deve essere immagine: fotografia scattata e postata nei social, traccia di stile ma anche indizio per la polizia che sa ben utilizzare gli strumenti dei più giovani, collezionando una serie di prove inoppugnabili, seppur nelle delicate nuances istagram.
The Bling Ring, presentato come apertura di Un certain regard al Festival di Cannes (uscito a seguire nei cinema europei, in Italia in sala dal 18 settembre), è stato ricevuto in maniera piuttosto neutrale da una critica concentrata più sul curioso e significativo caso di cronaca raccontato che sul film in sé (come sempre accade del resto, quando di mezzo c'è l'adolescenza, internet e soprattutto la moda). Le tracce di smaccata autorialità che contraddistinguevano le scelte di regia alla base di Somewhere, qui sembrano smorzate rendendo l'istanza enunciatrice incerta e oscillante, in una posizione fluttuante tra empatia e presa di distanza dai giovani protagonisti.
Siamo tutti collezionisti
Fin dall'inizio, filtrato attraverso le videocamere di sorveglianza, il film si pone negli occhi di chi segue (e partecipa) ma anche di chi spia: proprio questa duplicità di posizione ritorna in diversi momenti del film, mescolando le carte. Alle spalle dei ragazzi scopriamo e godiamo della facile refurtiva, ma restiamo anche distanti da loro a guardarli, mentre corrono da una stanza all'altra di una lussuosa villa di vetro che ci permette di seguire le loro mosse senza neppure dover cambiare inquadratura, senza accedere a una nuova “pagina” o a un altro “profilo”, in un punto di vista che ci rivela per un attimo la nostra posizione e la trappola di cristallo a cui sono condannati.
Davanti ai nostri occhi si spalancano repertori di gioielli, vestiti, cappelli, scarpe, borse, foulard, cuscinetti e beauty, profumi e rossetti, orologi e cravatte, in un trionfo della merce che sembra arrestarsi soltanto quando viene suggellata da un'istantanea o catalogata in una teca. Allora si apre un altro consumo quello dell'immagine, che passa dal cellulare allo schermo del computer e inizia a vivere di vita propria, guardato e “usato” da altre mani e altri occhi. Proprio di fronte all'entrata in scena diretta del socialnetwork ritorna, in maniera più evidente, l'oscillazione tra diverse posizione enunciative. Chi sta guardando le foto su facebook? I ragazzi in un momento di edonistica estasi o la polizia che sta cercando di rintracciarli? E chi sta postando degli indizi, le vittime o i carnefici?
Duplicità e smarrimento in una società in balia degli strumenti da lei stessa creati: collezione di vite, di immagini, di consumi, controllo di vite, di immagini, di consumi senza sosta. Nella rottura simbolica di pubblico e privato, una delle utopie di internet tradotta qui in una realtà ridicola quanto emblematica, si consuma l'unica progressione narrativa del film, molto lontano dall'offrire una qualsiasi catarsi o via di fuga. La prigione sarà soltanto una nuova soglia verso la distanza dagli altri e il progressivo confondersi nel mero spettacolo, che sia quello piccolo-piccolo dei consigli per gli acquisti o il manuale del nuovo savoir faire (con un duro colpo contro la mania della scolarizzazione domestica che pervade gli Stati Uniti). Perchè persino in cella, l'unica esperienza vissuta arriva dai pianti di Lindsay Lohan, dall'immaginaria vicinanza di un idolo, dalla vita vissuta attraverso un altro.
Simulacri dell'immaginario
Se in diversi articoli sul film compare l'accostamento, quasi naturale, tra The Bling Ring di Sofia Coppola e Springbreakers di Harmony Korine si deve al lavoro sull'immaginario adolescenziale, all'ipotetico avatar che si può delineare seguendo la rappresentazione che una generazione – i nati negli anni Novanta – sta lasciando di se stessi (non a caso nei due film, in un cast di volti meno noti, si è scelto di inserire due “star” da ragazzini: Selena Gomez di Disney Channel e Emma Watson di Harry Potter).
In entrambi i film è stata immediatamente rilevata la mancanza di verbalizzazione dei protagonisti: gli adolescenti della Coppola comunicano a furia di “Oh, my God!” mentre i bulli di Korine usano “Look at my sheet” per commentare le più disparate situazioni. L'enfasi sembra l'unica cosa su cui puntare l'attenzione, quasi si vivesse in una perenne teoria di momenti unici in cui “il reale” inebetisse la possibilità di essere trasformato in parola e, di conseguenza, in comunicazione.
Nelle seppur antitetiche rappresentazione dell'adolescenza americana (il trash esasperato di Korine e il glamour “raffreddato” di Coppola, che seguono distinzioni classiche di maschile e femminile), il risultato è estremamente simile: ragazzi incapaci di agire su se stessi, possono soltanto ritirarsi spaventati dalle proprie esistenze o fuggire in presunti sogni di grandezza, come i protagonisti di un videogioco di cui non si riesca a superare il primo livello. Nell'esaltazione dei corpi nudi, abbronzati e tatuati di Korine come nella celebrazione del look di Coppola, quello che scompare è la persona, e di conseguenza la sessualità che quando improvvisamente riappare è sostituita (in entrambi i film, in modo curioso) dall'uso fallico delle armi da parte di ragazzine in cerca di maschi.
In qualche modo i due film hanno la loro provocazione maggiore nell'essere costruiti come anti bildung roman, in cui la formazione dei giovani protagonisti viene bloccata ad ogni tappa fermandosi ad un grado zero della consapevolezza che spaventa e atterisce. L'amore, ideale e idealizzato, che porta i ragazzi del quartiere a vivere la traumatica esperienza della morte ne Il giardino delle vergini suicide, in The Bling Ring è vissuto dal giovane protagonista solo come l'intuizione di un attimo (suggellato dal consueto ralleti, sempre utilizzato dalla Coppola a segno di “sovraincanto”), che sarà smarrita, nell'incapacità di affrontare se stessi e gli altri, neppure se mascherati, neppure attraverso il filtro della rete.
Collezionisti d'immagini, artefici e vittime della blogosfera, ologrammi opalescenti dell'immaginario, gli adolescenti spingono nuovamente a informare il corpo filmico verso nuovi approdi: derive di un universo cinematografico che traducono “il terribile sogno delle nostre coscienze”, ricordandoci che gli altri siamo proprio noi.