Come un esergo. «Tra l'effetto che ti aveva fatto il contatto e quanto ti eri stancato, tra le cose pazzesche che avevi visto e sentito e ciò che personalmente avevi perduto di quanto era stato distrutto, la guerra ti lasciava uno spazio che era tutto per te. Trovarlo era come ascoltare della musica esoterica, non riuscivi a coglierne l'essenza attraverso tutte le ripetizioni finché il tuo stesso respiro non ci era penetrato diventando un altro strumento, e ormai non era più soltanto della musica, era esperienza. Vita come un film, guerra come un film (di guerra), guerra come vita» (Michael Herr, Dispatches, 84)
 
Premessa. La crisi della rappresentazione non è la crisi dello sguardo. I due regimi agiscono nel campo generale della cultura secondo dispositivi semiotici propri: interconnessi ma separati. Dietro alla prima (la rappresentazione) agiscono le grandi tradizioni narrative, il sistema canonico dei generi e dei tipi. Dietro al secondo (lo sguardo) si collocano l'evoluzione dell'immaginario tecnologico (a) e l'ormai protratta crisi del Soggetto occidentale (b) – la sua incapacità di riarticolarsi come istanza unitarie di senso (trascendentale, esistenziale o, banalmente, prospettico). Le considerazioni che seguono sono – nel bene e nel male – espressione di questo convincimento.
 
Fatti e antefatti. Delimitiamo il perimetro: il tema specifico è quello dell'uso del found footage nel cinema di guerra americano, diciamo recente. Il tema più generale è quello della crisi del genere bellico: uno dei generi hollywoodiani classici – disceso dal Western, cementatosi intorno alla Seconda Guerra Mondiale e fissato analiticamente da Jeanine Basinger in uno studio  canonico (1) datato 1985. Il war film entra in crisi con il Vietnam, ed è una crisi profonda, epistemica. I modelli narrativi ereditati dalla "guerra giusta" non riescono più a mediare l'esperienza di una guerra troppo fuori dai solchi riconoscibili dell'immaginario. Seguono prove tecniche di ri-trasmissione: Cimino (1978), Coppola (1979) e da ultimo Kubrick (1987) al quale si deve lo scarto fondamentale: la riformulazione del problema, che da etico-mitologico diventa estetico-mediale. La crisi della rappresentazione si scopre crisi dello sguardo (2). In mezzo c'è circa un decennio di affannosa rimozione/dislocazione della colpa, nelle forma di Vietnam movies più o meno trascurabili. È solo negli anni Novanta che Spielberg riaggiorna il problema: Saving Private Ryan, nella sostanza un film reazionario, prova a cancellare il problema aperto da Kubrick spingendo a fondo il pedale del realismo cinestetico: il realismo tecnico consente di mettere la sordina alla crisi del genere: l'immersione sensoriale dello spettatore riscatta la crisi del racconto e segna l'apoteosi della verosimiglianza come principio di legittimità. Ma è una pezza: e che di questo e non altro si tratti emerge quando – nell'era bushista della Guerra al Terrore – il cinema statunitense si ritrova nuovamente sprovvisto dei codici adatti per mediare/raccontare/rappresentare la guerra. 
 
 
Sindromi dello sguardo. Le linee fondamentali del dibattito (ad oggi) sono quelle tracciate da Garrett Stewart in un articolo – già classico – uscito nel 2009 su Film Quarterly, sotto il titolo "Digital Fatigue" (3). Riassumo in breve i punti del suo ragionamento. Il cinema americano – nota Stewart – fa fatica a rappresentare le guerre mediorientali dell'era Bush, e, quando ci prova, fallisce. Le ragioni offerte dalla critica – eccessiva vicinanza ai fatti, impopolarità delle guerre – sono insufficienti. I titoli in esame sono – considerato il lasso di tempo già decennale – sorprendentemente pochi: Lions for Lambs, Redacted, Body of Lies, Stop Loss, The Hurt Locker, In The Valley of Elah (e qualche altro). In tutti questi film l'analisi di Stewart rintraccia i sintomi di quella che egli stesso definisce una 'sindrome': trame deboli che stentano ad articolarsi, un ordito narrativo fatto di episodi giustapposti, tenuti insieme da un flusso costante di immagini digitali. Proprio questa saturazione di immagini starebbe alla fonte del problema, di quello che lo studioso definisce un "genre crash": dalle ombre verdi dei visori notturni montati sui caschi ai video trasmessi dei droni spia, passando per gli immancabili video-diari realizzati dai soldati sul campo. Una miriade di immagini strappate alla guerra ingolfa le formule del genere, le sovraccarica fino a svuotarle di senso, fino a impedire l'incontro con la violenza in quanto tale (la sua elaborazione critica e culturale). Stewart individua, letteralmente, due prospettive sulla questione: quella aerea – lo sguardo panottico dei droni spia – ai quali questi film affidano il retaggio di una fantasia di potere, il miraggio di una vittoria conseguita dall'alto – e lo sguardo "di basso livello" – i video di sorveglianza, i video-diari e i filmati realizzati sul campo dai soldati: il found footage in senso proprio. In entrambe queste direttrici Stewart rileva un elemento di rimozione, di allontanamento: imperialista e strategico da un lato, psicologico dall'altro. Di più: proprio nella natura digitale di queste immagini si anniderebbe un'angoscia più sottile, un'angoscia che finirebbe per contaminare il genere bellico con il sottogenere spionistico della "paranoia di sorveglianza". È l'idea che queste immagini siano in qualche modo lacerti anonimi di una macchina che va avanti da sé, che produce e consuma immagini (e morte) senza altro fine che quello di alimentare sé stessa. Come già in Herr, la guerra è una macchina che gira a vuoto. 
 
Sema del found footage. Tra le righe del discorso stewartiano si indovina un'antinomia di fondo. Quella tra il 35mm come luogo dell'elaborazione – l'autore parla espressamente dello 'spazio retorico' che solo la pellicola sa/può offrire – di contro all'immediatezza irriflessa e per così dire apocrifa delle immagini digitali. Dico apocrifa non per vezzo: dietro al ragionamento di Stewart alligna l'annosa questione del Soggetto, di quell'istanza creatrice la cui assenza terribilmente spaventa e senza la quale ogni possibilità di testimoniare/comprendere l'esperienza umana dilegua. Detto più semplicemente: le immagini digitali di questi film sarebbero immagini e basta, immagini acefale, senza autore, perciò condannate a ripetersi. Perché gli autori muoiono, e con quel tempo – finito – sono perciò costretti a confrontarsi. La ripetizione invece – vera o presunta – colloca questi frammenti video in un ciclo continuo che nulla ha più a che fare con la durata delle nostre esistenze: da un lato il tempo immateriale dei flussi digitali, dall'altro la durata dello sguardo umanista e baziniano (e il vero fantasma, qui, è ancora quello dello schianto nuovaiorchese, l'aero contro la torre, eternamente ripetuto e mai davvero risolto nella sua ambivalenza di Evento/Spettacolo [4]). Questa antinomia conduce finalmente al primo nocciolo della questione. Perché il sema del found footage qui è giocato in netta opposizione a quello che normalmente rappresenta: vale a dire – brutalmente – un regime scopico meno compromesso coi processi di mediazione, una sorta di ready-made cinematografico le cui valenze testimoniali o addirittura diaristiche  (penso ai film della Marazzi) emergono tanto più chiare quanto più sono contrapposte alla 'normale' enunciazione cinematografica (il 35mm di Stewart). Nel recente cinema di guerra americano si avrebbe invece la tendenza opposta; e nel fantasma di un found footage trasformato in incessante flusso digitale troveremmo il sintomo di un emblematico scarto generazionale.
 
 
Tre parentesi. Dico 'troverebbe' perché l'analisi di Stewart – fondamentalmente corretta – non mi convince del tutto. Soprattutto non mi convince il nesso causa-effetto tra la 'saturazione digitale' e il fallimento del genere come meccanismo di interpretazione/rappresentazione. Le ragioni teoriche di questo mio scetticismo le ho esposte più sopra (cfr. premessa). Ora – prima di avviarmi alla conclusione – vorrei considerare tre film.   
 
Parentesi uno. Ne In the Valley of Elah (Paul Haggis 2007) Hank Deerfield, poliziotto militare in pensione, indaga sulla morte del figlio, soldato rientrato da poco da una missione in Irak e trovato smembrato ai confini dell'area che separa la base militare dove è di stanza dalla circostante giurisdizione civile. Apparente chiave dell'indagine sono i frammenti video che il protagonista ritrova nel video-telefono del figlio: frammenti troppo confusi per essere leggibili, che l'anziano poliziotto affida a un tecnico perché questi provi a rimetterli insieme. Nel frattempo le indagini procedono grazie alle doti di segugio vecchio stile di Deerfield, il quale e.g. si accorge leggendo le tracce sul terreno che il corpo del figlio è stato spostato dopo l'assassinio, e che il reato ricade quindi nello spazio di competenza della polizia locale. Da ultimo, la soluzione del caso è ottenuta a mezzo di tradizionalissime interrogazioni incrociate: solo dopo arriverà la rivelazione (digitale) dell'antefatto iracheno (l'uccisione gratuita e deliberata di un bambino per strada) e la realizzazione (morale) del fatto che è tutto l'apparato della guerra – e non solo i responsabili di questo specifico crimine – a essere ormai fuori controllo e fuori rotta. 
 
Parentesi due. In Restrepo (Sebastian Junger e Tim Hetherington 2010)  i due documentaristi/registi trascorrono un anno in un avamposto dell'esercito americano isolato sulle montagne afghane, condividendo la quotidianità dei soldati che alla difesa di quell'avamposto sono preposti. Il film abbraccia pienamente la propria natura frammentaria: l'intento è quello di restituire la dimensione umana di un gruppo di giovani uomini costretti a farsi da famiglia, la forma è quello di un video-diario collettivo, in cui l'intenzione mostrativa e testimoniale convive senza troppi drammi con l'assenza di qualsivoglia sguardo critico. I due autori si limitano ad esplorare la quotidianità (sentimentale, goliardica, occasionalmente drammatica) del gruppo. Traspare evidente la volontà di astenersi da qualsiasi giudizio (o forse: l'incapacità di formularne uno senza snaturare la sostanza del film). 
 
 
Parentesi tre (con postilla). Di tutti i film elencati da Stewart e comunemente considerati in relazione all'impasse del genere bellico nell'ultimo decennio The Hurt Locker (Kathryin Bigelow 2008) è senz'altro quello che ha raccolto più attenzione critica. I discorsi sul film si sono – per quanto ne so – finora concentrati sullo statuto digitale/non digitale delle sue immagini e sulla capacità delle stesse di incorporare (sensorialmente/eticamente) lo spettatore (5). Non altrettanta attenzione mi sembra sia stata data all'ordito narrativo. Al riguardo, Bigelow ha dichiarato più volte di aver voluto presentare una rappresentazione il più possibile fedele all'esperienza contemporanea dei soldati impegnati al fronte, rigettando esplicitamente ogni velleità di denuncia morale/politica. In altre parole: questo non è un film di guerra. E' un film su cosa si prova a esserci dentro, la guerra. Tant'è che la storia dello sminatore William James ha tutti i crismi di un privatissimo dramma di assuefazione. Il film riproduce la dipendenza fisica del soldato dalla guerra-come-droga, alterna picchi di adrenalina a cadute di astinenza: intorno a questo principio (soggettivo) organizza la propria materia, scartando accuratamente i problemi ideologici legati al conflitto. Stacco. 
 
Nel 2012 Bigelow dirige Zero Dark Thirty. Il film – come è noto – racconta le vicende che hanno portato all'uccisione di Osama Bin Laden. La pellicola suscita reazioni veementi, soprattutto in America e soprattutto per la rappresentazione diretta della tortura (l'annegamento simulato utilizzato dalla CIA negli interrogatori dei detenuti) accusata (la rappresentazione) di "far sembrare utile" ciò che rappresenta (la tortura). La virulenza del dibattito ha finito con l'oscurare totalmente il dato fondamentale del film: non solo in America (il che sarebbe anche comprensibile) ma perfino in Europa. Sorprende insomma che nessuno finora si sia accordo di come ZDT – ancora più platealmente di quanto non facesse THL – faccia di tutto per raccontare quello che racconta (l'uccisione simbolica dell'Altro) senza ammetterne la portata culturale e collettiva. Detto altrimenti: questo è un film che fa di tutto per non essere ciò che tutti si aspettano/vorrebbero che fosse ma che – francamente – nessuno, a partire dalla sua regista, sa come fare. In questo senso, le scene di tortura ci sono perché – semplicemente – la tortura fa parte della storia: ma la Bigelow non fa un passo oltre, sta attentissima a non caricare le scene, e – soprattutto – le presenta come un tassello di un mosaico molto più ampio. Nel film infatti ritroviamo tutto: immagini dei droni-spia, bombe teleguidate, interrogatori ripresi e visionati su monitor di computer, DVD, telefoni satellitari, e-mail, SMS, filmati di sorveglianza. L'intero immaginario descritto da Stewart è convocato, presentato con l'oggettività necessaria di un universo ormai acquisito. Necessaria per noi – non per il film, che si regge – di nuovo – sulla sua protagonista, una creatura completamente apolitica che cerca Bin Laden ma potrebbe egualmente bene cercare gli alieni. La geopolitica dello sguardo militare/digitale descritta da Stewart qui non ha campo. Tant'è che a trovare il corriere di Bin Laden sarà una meticolosa stagista, che ne rintraccia la foto (ripeto: la fotografia) in un archivio, dove è rimasta per anni, colpevolmente ignorata da una CIA sobbarcata da troppe immagini. E a trovare la fortezza in cui si nasconde Bin Laden non sono i droni volanti, ma gli occhi stupefatti di un agente sul campo, che segue il SUV bianco del corriere fino alla sua destinazione finale.    
 
 
Conclusioni, uno. Riassumendo: questi film sono (mi sembra) assai meno spaventati dal found footage digitale di quanto non creda Stewart. Forse l'unico esempio che segue completamente il paradigma descritto dallo studioso è quello di Redacted (Brian De Palma 2007) in cui la disseminazione dei soggetti scopici traduce, in effetti, l'assenza di un vero Soggetto morale. Ma già in Restrepo, per esempio, il valore umano e testimoniale del found footage è recuperato senza troppi traumi: la differenza sta nel fatto che qui il genere è quello (privato) del video-diario. Il problema insomma si pone nel momento in cui il cinema americano prova a recuperare il senso collettivo del racconto di guerra: la sua funzione – se vogliamo – identitaria. In questo senso, In The Valley of Elah mostra chiaramente da che parte stia l'immaginario americano. Per comprendere a fondo i frammenti della guerra serve – come per il protagonista del film di Haggis – saper leggere la terra, saper ritrovare i confini di un universo simbolico terremotato. Deerfield saprà trarre una lezione (l'unica lezione possibile) dagli spezzoni video del figlio perché – a differenza di quest'ultimo – egli crede che ci debba essere un senso e possiede gli strumenti (culturali) per trovarlo. La detective story riscatta il war film. Altrimenti non rimane che rinunciare a ogni ambizione collettiva: i film della Bigelow ci restituiscono il bisogno di ancorare il racconto a ossessioni personali, private, beatamente apolitiche. Una volta accettata questa premessa, il caleidoscopio digitale paventato da Stewart perde immediatamente importanza, perché la rappresentazione della guerra in sé perde importanza: essa diventa lo sfondo riconoscibile di battaglie tutte private ("it's her against the world", dice della protagonista di ZDT uno degli altri funzionari CIA). 
 
Conclusioni, due. L'impressione è che tutto questo accada non perché le immagini digitali "ingombrino" il campo visivo. Questi film – quello di Haggis, quelli della Bigelow – indicano silenziosamente quello che manca allo scenario mediorientale. E cioé l'eroe. E cioé l'altro, il nemico. E cioé gli spazi della guerra: un confine da attraversare per riaffermare il proprio ruolo e la propria identità, in un copione culturale tracciato fin dai tempi di Fenimore Cooper. Senza questi elementi non si dà racconto di guerra: non a Hollywood, per lo meno. La crisi del genere era lì da prima che arrivassero le immagini digitali: si tratta di una ferita aperta da decenni, che il cinema americano ha provato a rimarginare spostando l'attenzione sullo sguardo. Ma le domande rimosse tendono a riemergere. Al soldato che ha appena ucciso la nemesi di un'intera nazione un commilitone domanda: "do you realise what you just did?" Per tutta risposta, il militare si cava di tasca una fotocamera, e scatta una foto al cadavere. 
 
 
NOTE
 
(1) Cfr. Basinger, Jeanine. The World War II Combat Film: Anatomy of a Genre. Middletown, Connecticut: Wesleyan University Press, 2003 (1985).
(2) Il passaggio è riassunto in maniera formidabile da De Bernardinis in “Le forme informi della frontiera. La fine dello sguardo nel cinema post-Vietnam”, contenuto in Franco La Polla (cur.) Poetiche del cinema hollywoodiano contemporaneo, Torino: Lindau, 1997, 73-77.
(3) Stewart, Garrett. “Digital fatigue: Imaging war in recent American film”. Film Quarterly, estate 2009, LXII.4.45-55. In area italiana, una ricognizione generale del genere si trova in Menarini, Roy, Moretti, Massimo e Alonge, Giaime A. Il cinema di guerra americano 1968-1999 (Recco: Le Mani, 1999). Più da vicino sulle questioni affrontate qui cfr. Malavasi, Luca, “Guerrieri al cinema: scrittura della storia e funzione sociale”, in L'immagine riflessa. Testi, società e culture, X:2, luglio-dicembre  2001 e – si parva licet – Cicchetti, Pasquale, “Prospettive di guerra. Declinazioni scopiche e culturali nel nuovo combat-film americano”, Cineforum, giugno 2011, 504.  
(4) Cfr a riguardo l'ambizioso volume di Marco Dinoi, Lo sguardo e l'evento. I media la memoria il cinema. Firenze: Le Lettere 2008.
(5) Per quest'ultimo spunto, si veda Robert Burgoyne, “Embodiment in the War Film: Paradise Now and The Hurt Locker”, in Journal of War and Culture Studies, 5:11, 2012, 7-19.