«Mi chiedo come si possa dire che la giovinezza è il momento migliore della vita.
Deve essere proprio terribile la vecchiaia.»
(Pekka Autiovuori in Käpy selän alla)
Nel 1962, quando Mikko Niskanen esordisce con Pojat (I figlioli), l’industria cinematografica finlandese sta attraversando la fase più critica della sua storia. Lo scenario è a dir poco allarmante: le società produttive di punta sono esangui; la quantità di pellicole nazionali è più che dimezzata rispetto agli anni Cinquanta, toccando il fondo nel 1963, anno in cui escono soltanto 11 film in lingua suomi, come non succedeva dal 1930. A questa caduta libera hanno contribuito fattori di diversa natura: l’incapacità di svecchiare il sistema produttivo, la concorrenza incontrastabile della neonata televisione (introdotta nel 1957) e lo sciopero dell’Unione Attori – per l’improvvisa riduzione dei compensi – durato addirittura due anni e mezzo.[1] Nei suoi primi tre film (Pojat; Sissit, 1963; Hopeaa rajan takaa, 1963) prodotti dalla Suomen Filmiteollisuus, Niskanen, sebbene già introduca due filoni tematici (giovinezza e ruralità) che saranno alla base della sua poetica,[2] è ancora costretto dentro le maglie dei rigidi metodi produttivi, del realismo ortodosso e dell’ideologia imposti dalla casa di produzione; il vero e proprio gesto di frattura con la tradizione di cui egli sente l’urgenza è soltanto rinviato di qualche anno. Nel 1965 SF fallisce per bancarotta e, al di là del momento di difficoltà, Niskanen reagisce all’impasse produttiva ritrovando stimoli nuovi e l’opportunità di ripensare da zero (e alla svelta) il suo modo di fare cinema. Alla FJ-Filmi, una delle compagnie più dinamiche del momento, benché agli albori e con mezzi limitati, egli può finalmente godere di un ampio margine di manovra per sperimentare.
Contraddizioni dell’iniziazione all’età adulta nello spazio agreste
Käpy selän alla (Una pigna sulla schiena,1966) è l’opera che sancisce una nuova fase artistica dell’autore e contemporaneamente dà al cinema finlandese l’impulso decisivo verso la modernità, fino a quel momento ipotizzata, anelata o al massimo sfiorata. Dopo il crudo racconto della gioventù ai tempi della Guerra di Continuazione (1941-1944) visto in Pojat, primo capitolo della «trilogia della giovinezza», Niskanen si sincronizza con il palpito del proprio presente, in cui già affiorano umori pre-contestatari. Siamo ben distanti, però, da un’opera che celebra per partito preso la generazione degli anni Sessanta. L’intento è invece quello di smontare progressivamente i clichés di cui si è nutrita, al fine di coglierne le ambiguità, la paradossale oscillazione tra vitalità e fragilità, la difficoltà di autodefinirsi (a livello esistenziale, sociale, politico) segnando un autentico cambiamento di rotta rispetto alla generazione dei padri.
Due giovani coppie trascorrono insieme un weekend votato alla libertà e all’amore, immersi nella natura, a debita distanza dal mondo degli adulti che quotidianamente soffocano i loro slanci: l’esile spunto narrativo è piuttosto convenzionale, ma si tratta solo di una facciata di cui Niskanen presto si sbarazza per dare l’abbrivio a uno studio entomologico sulle passioni tristi dei quattro personaggi, ognuno dei quali è una diversa anima della gioventù del proprio tempo. L’elemento discordante su cui si apre il film, ovvero la malinconica ballata intonata da Riitta (Kristiina Halkola), è un dato indicativo che prelude alla imminente sovversione del registro da commedia e alla inattendibilità di un prologo lieve e spensierato, destinato presto a dissolversi. Lungi dall’essere un mero belletto esornativo, il repertorio di canzoni mette a nudo, di volta in volta, quello stato emotivo di smarrimento e amarezza che i protagonisti si ostinano a dissimulare.
L’ideale che Santtu, Riitta, Timppa e Leena inseguono è una specie di ritorno alla natura rousseauiano, concepito in modo tanto vago quanto infantile, attraverso il quale sperano di ripristinare una condizione di primigenia purezza in cui poter sbrigliare il loro erotismo e viverne tutta la forza dirompente. Se da un lato Niskanen accarezza le sinuosità dei corpi, esaltandone – con l’aiuto della raffinata fotografia di Esko Nevalainen – il sensuale biancore accecante, quasi si trattasse di una fonte di vitalità inesauribile, dall’altro non tace il sostanziale impaccio dei ragazzi e la loro scarsa dimestichezza col sesso. È un’ambiguità che via via troverà piena risonanza nel contrasto che viene a instaurarsi fra la verbalizzazione del desiderio e una paura inconscia che lavora in senso contrario, fra la volontà di trasmettere un'immagine emancipata di sé e l’incapacità di svincolarsi nettamente dalla morale e dai costumi della generazione precedente.
Nel finale, dopo l’esplosione delle angosce latenti, la crisi del gruppo viene sanata: Santtu (Eero Melasniemi), il bohèmien indolente e donnaiolo, viene perdonato da Riitta, la fidanzata neoconservatrice con programmi di vita piccolo-borghesi; Timppa (Pekka Autiovuori) relativizza, grazie all’ironia, il naufragio della sua relazione con Leena (Kirsti Wallasvaara), mentre quest’ultima sembra aver preso coscienza di insospettati aspetti del proprio carattere. Tuttavia il film non approda ad alcuna risoluzione definitiva, perché le contraddizioni individuali non vengono risolte. Per Niskanen, difatti, queste scissioni non possono trovare in alcun modo una conciliazione, giacché le considera caratteri strutturali della natura umana che a partire dalla gioventù, il periodo in cui vengono scoperti e patiti in modo violento, proseguono nell’età adulta e per il resto della vita. La maturità, dunque, consiste né più né meno che nell’accettazione di questa spaccatura fra pensiero e azione.
Emancipazione sessuale e impegno politico nello spazio urbano
Sebbene l’erotismo di Käpy selän alla rimanga a uno stadio acerbo, i corpi dei quattro giovani potevano almeno avvalersi degli intensi stimoli di un ambiente edenico, che coniugava metafore iniziatiche ambivalenti (le abluzioni nel lago che funge da fonte battesimale e da richiamo allusivo al sesso) al mito dell’estate scandinava (archetipo imperniato sulla fugacità della passione e delle fantasie che la alimentano). Con l’ultimo tassello della trilogia, Lapualaismorsian (1967), invece, la consumazione degli aneliti sessuali viene confinata tra le mura disadorne di claustrofobici locali per studenti universitari, costretta al silenzio e all’oscurità, con la riduzione dell’amplesso alla stregua di pratica clandestina. L’azione si sposta in città: quanto raccontava Riitta in Käpy nei suoi canti sugli amori soffocati dall’opprimente atmosfera urbana trova qui il suo riscontro diretto. La Helsinki ritratta da Niskanen non è altro che un brulicare caotico dove impera un senso d’angoscia e di alienazione per moti esistenziali che, nelle rare occasioni in cui non si disperdono nella cieca frenesia, si infrangono contro barriere insormontabili. E i giovani studenti, alternando svago a passione politica, si ritrovano come foglie trascinate dal vento, ignare di dove li porterà. Non c’è da stupirsi, dunque, che sul piano del linguaggio il regista – a cui si perdonano un certe godardeggiare – radicalizzi ancor più l’andamento rapsodico e le improvvisazioni stilistiche di Käpy, spingendosi ancor più radicalmente verso una forma del frammento e della breccia in grado di raffigurare l’aritmia degli stati incerti. In Lapualaismorsian i microepisodi carpiti dal quotidiano delle tre amiche, Liisa, Tenu, Lulu, si susseguono in ordine sparso, subiscono bruschi mutamenti di tono, vengono recisi da un montaggio ellittico che tronca di netto anche i suoni extradiegetici, mentre il quadro, quando non trabocca di persone e di oggetti, viene moltiplicato in concitate serie di primi e primissimi piani, che riproducono il disperato dinamismo cognitivo ed emotivo dei protagonisti, sempre a un passo da un brusco e repentino arresto.
Nonostante il loro differente rapporto con la modernità, un gioco di riflessi complementari fonde in un solo concetto di emancipazione le tre protagoniste che subiscono, di giorno in giorno, le storture di una società maschilista, in cui forme esplicite di discriminazione si avvicendano ad altre più subdole, celate dietro pose pseudo-progressiste. Alle prese con gaglioffi presuntuosi che danno per scontata l’accondiscendenza sessuale femminile, le ragazze risponderanno con un rifiuto che Niskanen intende come il passo cruciale con cui la donna si autodetermina riappropriandosi del proprio corpo. Rispetto al film precedente, in Lapualaismorsian il vento della contestazione e della ribellione ai costumi sociali tradizionali si fa più forte (dopotutto manca solo un anno al ’68). Su questo fronte viene sottolineata l’indissolubile continuità fra sfera privata e pubblica, un assunto che però sembra sfuggire ai giovani, i quali non possono dirsi civilmente affrancati finché non riescono ad affermare la propria libertà sessuale. Sposano con convinzione la causa pacifista, protestano contro la guerra in Vietnam, tanto che meditano di bruciare i passaporti, ma i loro discorsi politici rimangono imbevuti di ideali vaporosi, nonché di una progettualità approssimativa. Pur essendo d’ispirazione marxista, Niskanen è ben cauto nell’evitare la celebrazione di una dottrina e di una prassi ideologica: preferisce coglierne gli stridori, le incongruenze e soprattutto i paradossi, ai quali viene dato un risalto specifico in occasione dell’allestimento di Lapualaisoopera (l’opera di Lapua) da parte del gruppo teatrale dell’università. Si tratta di un’opera militante che, ricalcando il modello brechtiano-weilliano, rievoca il tentato colpo di stato (e i feroci scontri che seguirono) in Finlandia nel 1930, da parte di Lapuan liike, un movimento ultranazionalista e anticomunista. Siamo in un periodo storico importante per la Finlandia, giacché nel 1966 si insedia un governo di sinistra, dopo la vittoria elettorale dell’SDP. Il materiale fornito dal testo è un incentivo per la riflessione dei ragazzi su certi passaggi controversi del passato della loro nazione, ma col proseguire delle prove di palcoscenico scopriamo che le suggestioni degli studenti vengono schiacciate dall’insegnante di teatro marxista, in cui Niskanen vede l’ennesima figura di oppressore e manipolatore delle coscienze. L’epilogo di Lapualaismorsian si distacca nettamente del tutto dal resto del film, con l’intento di suggellare tutte le diramazioni e le sospensioni messe in campo. Ricompare un leitmotiv già presente di Käpy (la nostalgia per una innocenza perduta), a cui si affianca la conquista di una certezza dagli accenti consolatori (non può esserci una rivoluzione sociale se prima non c’è una rivoluzione individuale). L’ultima sequenza, con un bambino che avanza su un pontile verso la macchina da presa, lascia intendere che la gioventù è finita, e il futuro è già di altri.
NOTE
[1] T. SOILA, “Norway”, in Nordic national cinemas, ed. G. Iversen, T. Soila, A. Söderbergh Widding, London-New York 1998, p. 77-78.
[2] Due temi che s’intrecciano di continuo nel suo cinema, ma che hanno trovato rispettiva preminenza in due cicli distinti. Negli anni Sessanta «la trilogia della giovinezza» (Pojat, 1962; Käpy selän alla, 1966; Lapualaismorsian, 1967), negli anni Settanta «le storie di campagna» (Laulu tulipunaisesta kukasta, 1971, Kahdeksan surmanluotia, 1972).
DEUX FILMS DE MIKKO NISKANEN (Malavida)
KÄPY SELÄN ALLA, regia di Mikko Niskanen, Finlandia 1966, 89'
LAPUALAISMORSIAN, regia di Mikko Niskanen, Finlandia 1967, 90'