Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.
 
Da molte parti Baz Luhrmann viene definito un nostalgico del (grande) cinema che fu. Definizione corretta: Moulin Rouge! (dove il punto esclamativo è una dichiarazione di poetica) riprendeva il filo di un'intera tradizione del musical hollywoodiano; allo stesso modo, Australia (è quasi una banalità ricordarlo) era un'epopea nazionale al pari di Via col vento. Ma il cinema invecchia in fretta, e anche la nostalgia deve aggiornarsi. Così Luhrmann, che vent'anni fa rimpiangeva il cinema di mezzo secolo prima, oggi si trova a rimpiangere il cinema di vent'anni fa, e nella fattispecie il proprio.
 
Preso atto, grazie al mezzo fiasco di Australia, dell'impossibilità di ricreare ex-novo il kolossal in costume, Luhrmann – che sarà anche un sentimentale, ma di sicuro è un tipo pragmatico – ha deciso di ritornare con Il Grande Gatsby alla cosa che in passato gli era riuscita meglio: la trasposizione, o meglio la “rilettura pop” di un'opera letteraria. I sintomi della “luhrmanizzazione” sono evidenti: spolpare il testo originario fino a ridurlo all'osso (le parole dell'autore, a garanzia dell'integrità del testo); imbottire quel che rimane di luci, colori, effetti digitali, mirabolanti movimenti di macchina e una colonna sonora di studiato anacronismo.  
Intendiamoci: il problema non sono le canzoni di Beyoncé e Lana Del Rey, né quello che un tempo si sarebbe chiamato manierismo. Si parva licet, Stravinskij e Picasso non facevano nulla di più che questo. Tuttavia, dietro Picasso che rivisita Velázquez c'è comunque l'acribia dell'allievo che cerca di penetrare il segreto profondo dell'opera di un maestro; mentre dietro Luhrmann che dà nuova carne (digitale) a Fitzgerald nello stesso identico modo in cui l'aveva data a Shakespeare (o perché no, a Puccini), s'intravede l'idea che in fondo un testo valga l'altro, e che la pratica dell'adattamento non debba partire da una più o meno profonda comprensione dell'opera di partenza, ma consista solo nel cucirle addosso un nuovo abito, più sgargiante, più “moderno” e soprattutto più kitsch. 
 
Ma ad ogni parola, lei si ritraeva sempre più in se stessa, finché lui rinunciò e soltanto il sogno morto continuò a battersi […] cercando di toccare qualcosa che non era più tangibile…
 
Ma la letteratura è vendicativa. Il trucco di Luhrmann poteva funzionare col melodramma elisabettiano o l'Opera italiana (e infatti Romeo+Giulietta ha fatto scuola nell'ambito degli adattamenti shakespeariani, così come Moulin Rouge! ha contribuito a rilanciare il musical a hollywood), ma si rivela immediatamente posticcio di fronte allo stile obliquo e alle increspature naturalistiche del romanzo di Fitzgerald. Così Luhrmann e il suo sceneggiatore Craig Pearce non trovano di meglio che prendere un altro testo dello scrittore del Minnesota, "The Crack-up" ("L'età del jazz"), e farne il tenue spunto di partenza per una cornice narrativa in cui Nick Carraway (identificato superficialmente nella controfigura dello stesso Fitzgerald), in via di riabilitazione dall'alcolismo, decide di mettere nero su bianco la vicenda esemplare di Jay Gatsby alias James Gatz, l'uomo che volle farsi re per amore di una donna, e che finì invece per soccombere al proprio sogno impossibile. Espediente bolso e stantio (non a caso usato ripetutamente nel cinema più bolso e stantio dell'Occidente avanzato, quello italiano), e che soprattutto nella parte finale si ingolfa sempre più in spiegazioni e monologhi dell'onnipresente voice over. 
 
Il vero problema del film, tuttavia, sta altrove. Il Grande Gatsby è affetto dalla stessa sindrome del suo protagonista (un DiCaprio ancora una volta “wellesiano”, eppure meravigliosamente in parte): recuperare il passato, riportare ogni cosa esattamente al punto di prima. E il “prima” di Luhrmann sono i dodici anni che lo separano da Moulin Rouge!, i diciassette da Romeo+Giulietta, i venti da Ballroom – Gara di ballo. L'ultimo decennio del Ventesimo secolo, insomma, quello del postmoderno trionfante in cui il cinema era tutto un gioco; gli anni del pastiche, degli effetti trompe l'oeil (qui a malapena aggiornati mediante il 3D), dell'esibizionismo sfrenato della macchina da presa. Tutti elementi che ritroviamo puntualmente nel film, con spirito quasi enciclopedico (rileggersi il bel saggio di Vincenzo Buccheri "Vent'anni dopo", datato 1996): le vertiginose riprese aeree della tenuta dei Buchanan a East Egg, i ralenti enfatici sulla morte di Myrtle (roba da far impallidire il Pontecorvo di Kapò…) e dello stesso Gatsby, le inquadrature-finestre all'interno del quadro, l'ipertrofia scenografica che trasforma persino il Nord Dakota del giovane Gatz nella Death Valley di Von Stroheim.
 
Luhrmann come Gatsby, dunque? Ipotesi tentatrice, ma – appunto – solamente un'ipotesi. Secondo il sito Box Office Mojo, infatti, a poco più di un mese (20 giugno 2013) dall'uscita statunitense, il film ha incassato oltre trecento milioni di dollari in tutto il mondo (in quattro mesi Australia ne aveva incassati complessivamente solo duecento), nonostante l'accoglienza negativa della critica internazionale, convinta di essersi lasciata finalmente alle spalle il postmodernismo.
 
“Non si può ripetere il passato". "Non si può ripetere il passato?", fece lui incredulo. "Ma certo che si può!"
 
Bentornati negli anni Novanta.
 
 
Il Grande Gatsby (The Great Gatsby), regia di Baz Luhrmann, USA/Australia 2013, 143'.