Forse il modo migliore per ragionare sul cinema di Steven Soderbergh è seguire uno dei suoi metodi narrativi preferiti: la focalizzazione multipla. Nella differenza di generi, toni e coefficienti di devozione nei confronti dello star system, ogni suo film si porta sempre appresso almeno un elemento, un attore o un’invettiva che lo lega ad un altro. Allo stesso modo, mettere i suoi lavori all’interno di una struttura reticolare simile a quella che lega i suoi personaggi in film come Traffic, Ocean’s Eleven e Contagion permette di osservare che, fabbricante mainstream o artigiano indipendente, venditore di copie o originali, Soderbergh è uno dei pochi cineasti interessati a trasformare la parabola individualista del modello americano in un intero movimento di mondo, la predilezione per il personaggio singolo in ossessione per un circuito globale in cui tutto è connesso. Nei suoi film, ogni azione scatena una reazione che non comporta unicamente un cambiamento di situazione, ma anche di personaggio-guida. Questo slittamento continuo è rinvenibile in particolare nella produzione più recente, da quando, dopo un decennio di continua alternanza fra parate di divi e scommesse di austerità, ha trovato all’interno di una zona mediana fra spirito glamour e d’autore, sperimentale e lineare, un’incredibile prolificità. Effetti collaterali, annunciato come l’ultimo lavoro per il cinema, rientra in questa zona “giallo-grigia”, lo stesso colore assunto dalla luce nei suoi film e di cui è artefice diretto sotto lo pseudonimo di Peter Andrews. In superficie, un thriller sulla mania degli psicofarmaci apparentemente incentrato su una giovane donna (Rooney Mara) che cade in una depressione con tendenze suicide dopo che il marito (Channing Tatum) ha scontato quattro anni di prigione per insider trading. Sotto la membrana, un film che tesse un legame fra la manipolabilità delle menti dei pazienti e la manipolabilità del controllo del mercato delle azioni. Ancor più in profondità, un film sulla manipolazione a tutto tondo e in particolare sulla manipolabilità della cognizione spettatoriale.
Rispetto ai due precedenti film sceneggiati da Scott Z. Burns (The Informant! e Contagion), Effetti collaterali sembra trovare una sintesi proprio nell’idea di manipolazione, cogliendo in questo principio la combinazione fra i meccanismi fraudolenti dell’industria del film, con Matt Damon baffuto e bugiardo, e i rapporti fra economia e medicina in quanto strutture portanti del mondo contemporaneo del film, con Matt Damon vedovo devoto. Nel muoversi fra la speculazione finanziaria illecita e il cinismo farmaceutico attraverso la manipolazione, Soderbergh decide quindi di riscoprire la dimensione più canonica del thriller moderno, quella che basa sulla poetica della colpa e dell’inganno la sua forza motrice e che vede nella storica dialettica fra Lang e Hitchcock il proprio momento fondativo. Se è vero che una delle differenze fondamentali fra i due è che Hitchcock facesse film dello stesso genere in modi diversi mentre Lang utilizzasse uno stile riconoscibile con partiture diverse, allora Soderbergh sarebbe un regista più vicino al primo che al secondo. Eppure, la sensazione che il film lascia durante lo scorrere dei titoli di coda, è che Soderbergh a una prima parte più langhiana, incentrata sulla rappresentazione dell’esperienza patologica e delle turbe della coscienza, ne faccia seguire una decisamente più hitchcockiana, dove ogni momento precedente viene riletto in termini di intrigo e di ambiguità. La manipolazione, quindi, è al centro di tutto il film. E se alla fine è Hitchcock ad avere la meglio su Lang, è perché a questo lancio di dadi Soderbergh ha deciso di giocare con la mente dello spettatore, facendolo dapprima identificare con la fragilità emotiva di Rooney Mara e poi, gradualmente, spostando questa stessa empatia verso l’incastro in cui si trova coinvolto lo psichiatra Jude Law. Tutto questo, sempre seguendo il principio hitchcockiano che se è una star a essere in pericolo in un film, il pubblico aderirà con maggiore devozione al personaggio che se ci fosse un caratterista, anche se più adatto al ruolo.
Ancora una volta, dunque, Soderbergh mette economia, psicologia e sguardo all’interno di un circuito in parallelo dove è la stessa conoscenza del cinema a generare dinamismo, attraverso un vero e proprio catalogo di omaggi e citazioni dal maestro britannico. Da Psycho riprende lo zoom d’apertura sulle finestre dell’appartamento e il cambio di protagonisti a metà film; da La donna che visse due volte, la sospensione fra follia e simulazione, fra patologia e raggiro. In questa ricognizione dell’enciclopedia hitchcockiana, si direbbe che il MacGuffin sta dentro a un tubetto di Ablixa, il falso farmaco che Soderbergh concepisce fin nei minimi dettagli (manifesti, pubblicità, siti internet), tenendo così attiva l’idea che la manipolazione sia soprattutto una questione di linguaggio e di estetica.
In questo modo, se è vero che Effetti collaterali verrà ricordato con ampia probabilità come uno dei film “minori” di Soderbergh – un divertito esercizio di stile più che il manifesto di un regista altrove assai più impegnato – è anche vero che la pellicola sancisce il suo ruolo come autore interessato al reticolo della contemporaneità, fin dentro ai suoi interstizi con l’estetica del passato. Scrutando all'interno di tutte le fessure del network contemporaneo, Soderbergh è arrivato a costruire ogni possibile variazione sui temi menzogna, falsità e apparenza, guardando ogni volta tanto alla realtà di oggi che al cinema di ieri.
Effetti collaterali (Side Effects), regia di Steven Soderbergh, USA 2013, 106'.