Dai colori luccicanti e gli orpelli barocchi di Kamikaze Girls (2004), alle sfolgoranti nostalgie di Memories of Matsuko (2006), fino alle invenzioni incantate per l'infanzia di Paco and the Magical Picture Book (2008), non si può dire che a Nakashima Tetsuya piaccia lavorare di sottrazione: il suo è un cinema ostentato, che persegue un sistematico sovraccarico dei sensi e si struttura compiutamente nell'accumulo del comparto visivo-sonoro. In questo senso Confessions, ispirato al glaciale romanzo di Minato Kanae, rappresenta uno scarto laterale, perché mette a disposizione l'usuale e maniacale apparato della messa in scena per una svolta nera, lontana dai toni pastello soffusi dei precedenti lavori. Nakashima spinge alla simbiosi narrazione e resa visuale, adattando le scelte stilistiche appariscenti al mood del racconto, più plumbeo rispetto al passato: se già Memories of Matsuko aveva un incedere agrodolce con sobbalzi tragici, infatti, solo qui lo spleen esistenziale è palpabile e non celato da accenti ultrapop. Nakashima non ha paura di forzare la mano: lo dimostrano il monologo iniziale di oltre trenta minuti, il costante e reiterato utilizzo di slow motion e la colonna sonora indie straripante, che unisce sperimentazioni giapponesi (il rock psichedelico downtempo del trio Boris, il guitar pop minimale delle PoPoyans, le tessiture elettroniche di cokiyu) e occidentali (Radiohead, The XX). Eppure le sue scelte limite, che in altri contesti avrebbero potuto diventare urticanti e pompose, contribuiscono a creare un'atmosfera crepitante, che attanaglia fin allo stomaco, confermando la sua capacità di creare senso a partire dalla stilizzazione esasperata.
 
Confessions è un coacervo pulsante di vendette e solitudini, disperazioni e grida nel silenzio, che sottopone a definitivo cortocircuito quell'età oscura di passaggio che dalla prigione dorata dell'infanzia precipita nella stagione adulta del rimpianto e dei sensi di colpa. Non è un racconto di formazione in senso classico, ma piuttosto di deformazione, perché mette in luce con lancinante asprezza come l'unico modo per superare il salto tra fanciullezza e consapevolezza sia la guerra, lo scontro frontale tra due mondi che non possono comunicare tra loro. Questo eterno confronto ha come centro nevralgico – inevitabilmente – la scuola, il luogo in cui conflagrano tutte le contraddizioni della crescita, con le presunte razionalizzazioni del modello educativo che il corpo insegnante si ostina ad adottare per frapporre un risibile ostacolo al caos della pubertà.
 
L'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze primaverili, un'insegnante dalla parlantina rassicurante e l'atteggiamento sicuro indirizza un'ultima lezione alla sua classe di tredicenni, prima di dare le dimissioni. Il suo è un monologo sul senso della vita, che parte dall'esperienza personale – la malattia del compagno, la morte accidentale della figlia ancora piccola. Gli studenti, inizialmente disinteressati, sono attirati inesorabilmente nel gorgo delle sue parole: non per empatia o per lontani echi da L'attimo fuggente (Peter Weir, 1989), ma per mero interesse personale. L'insegnante ha infatti iniettato del sangue infetto da HIV in due dei cartoni di latte che hanno appena bevuto, per vendicarsi di due di loro in particolare, causa diretta della morte della sua bambina. Da qui si snodano una serie di confessioni paradossali dei diversi attori della vicenda, che intessono vita e morte, violenza e redenzione, rabbia e comprensione in un intreccio unico.
 
Il cinema giapponese ha sempre avuto un rapporto privilegiato con i film ad ambientazione scolastica: il superamento della linea d'ombra verso la maturità è un tema universale, ripetibile in infinite variazioni, ma è proprio in una società rigida come quella giapponese, con un sistema fondato sulla competizione e sulla necessità di primeggiare, che il passaggio assume toni e significati più evidenti. Confessions rielabora la metafora dello scontro generazionale portandola alle estreme conseguenze, inserendo nell'equazione non solo lo spaesamento dei giovani, ma anche le insicurezze e le manomissioni degli adulti, in questo emendando il livore che da Elegia della lotta (Suzuki Seijun, 1966) porta a Battle Royale (Fukasaku Kinji, 2000), in una riscrittura ancora più dolorosa e sfaccettata. La struttura a scatole cinesi elaborata da Nakashima dispiega un baratro fondato su apatia e vuoto esistenziale, un baratro i cui confini si allargano progressivamente sotto gli occhi dello spettatore, seguendo i disvelamenti successivi della storia, fino a inglobare tutti i protagonisti, nessuno escluso. Per questo tutti devono confessare: perché sono, consapevolmente o meno, vittime e insieme carnefici nel solipsistico gioco della ricerca del senso della vita.
 
 
Confessions (Kokuhaku), regia di Nakashima Tetsuya, Giappone 2010, 106'.