Clémentine è morta. Morta per un attacco di cuore, rotto in un atto d’amore postremo. Come s’era ripromessa quando blu era il colore più caldo, quando era sicura che oltre quel piacere, tra le braccia e le cosce di Emma, fosse possibile solo la morte. A Emma – che prima ha fugacemente incrociato e ostinatamente sognato, che poi ha amato, tradito, infine di nuovo trovato – ha lasciato le pagine del suo diario, la cronaca della sua crescita, della loro relazione: ed è fatto di questo, Le bleu est un couleur chaude di Julie Maroh, graphic novel a cui è ispirato La vie d’Adèle. Chapitre 1 & 2. Una narrazione che ne accoglie un’altra, in prima persona, un lutto che raccoglie i lacerti di vita nelle frasi di un’adolescente, l’elaborazione dei suoi scritti in immagini e nuvole. E dunque Clémentine racconta di sé, della scoperta della sua identità, dell’ebbrezza dell’amore per Emma, dell’oscillare struggente della propria narrazione personale tra la retorica contraria di parenti e serpenti conservatori e la sessualità vissuta come grimaldello politico dalla compagna. Un racconto di formazione delicato e frequentemente, ingenuamente didascalico, come lo sono le parole concesse a una Smemoranda, come lo è una storia che, mentre rivendica l’identità di genere come questione intima e solo poi sociale, è oggetto didattico e militante, dramma concentrato sulla lacerazione della protagonista di fronte all’emarginazione dal gruppo di pari, sul conflitto con il pregiudizio dei genitori, sull’assenza dei diritti di un’omosessuale di fronte al letto della compagna morente.
La vie d’Adèle, il film di Kechiche, invece, lavora sulla superficie delle cose. Non riduce a parola e poi a immagine il sentire dei personaggi, ma lo raccoglie, affestellato nel tempo e nel cinemascope, nella musica dei volti in primo piano, nella emozioni descritte dai gesti. Nelle variazioni che sì, solo una frequentazione di lunga durata (3h07) permette di cogliere. Kechiche ritorna a citare Marivaux (come in La schivata), e assorbe in La vie de Marianne il nome della protagonista Adèle Exarchopoulos, dimenticando così la Clémentine di Maroh e programmaticamente affermando il farsi vita della letteratura. E viceversa. Ma non lavora su questo limine, Kechiche. Viene dopo. Ed è qui che sta il suo pudore, sta qui la sua tracotanza. Di un materialismo da non confondere con misantropia, accoglie un mondo organizzato in strutture, guarda l’eternarsi dei discorsi, le logiche (mai) usurate dei conflitti sociali, ascolta gli schematismi che strutturano l’esistere, le parole reiterate che lo dicono, il ripetersi delle figure. E convive con queste, invitandoci a esperirne la sussultante singolarità. C’è la Emma di Léa Seydoux, che feticizza la propria sessualità, che strumentalizza l’identità sociale, che si spreme e s’esprime per essere riconosciuta, che prima di vedere Adèle vede l’immagine che serba di essa, l’immagine che di essa – in uno psicologismo elementare, offensivo, struggente – lei, artista, dipinge. E c’è Adèle, che la ama, Adèle che è un inno alla vita come intuizione, come esplorazione, una che è avversa all’analisi, una che è elegia dell’esistenza come cura e maternità, contro ogni sofisticazione intellettualistica, soggetto pragmatico al tempo della crisi economica e via elencando.
Sono banalità? È umanità, soprattutto. Un’umanità su cui la macchina da presa di Kechiche si muove a fior di pelle, con spartana e potentissima grazia, in un dispositivo cinematografico che articola la lingua del realismo tra il teatro e la televisione: in 3 ore di visi, lacrime e umori, sussurri e grida, in una retorica vitalistica di bocche che mangiano e lingue che tremano, s’attualizza e si fa fragile, si fa tragico, qualsiasi discorso preesistente. E come uno strutturalista che cerca di redimersi nel mirare il mistero delle cose, Kechiche elide dal fumetto le scene di contrimento e lamento militante, preferisce al melodramma i confini del naturalismo e aggiunge sfiancanti, gioiose scene di sesso che non s’offrono al godimento dello spettatore, ma cercano di rappresentare solo quello delle protagoniste, sottraendosi nel ritmo e nel decoupage alla pornografia e umiliando brutalmente i modi dell’erotismo soft, eccedendone la misura come il cinema anticolonialista di Kechiche eccede, sempre, le misure d’ogni discorso, per cercare di cogliere ciò che resta d’autentico, intorno. E come tutte, anche quelle immagini non assecondano le abituali logiche narrative del desiderio: le posizioni si ripetono, le coreografie sono goffe, non ci sono censure, l’orgasmo è solo, soltanto punteggiatura. Così, coeorentemente, il film non si chiude quando finisce il discorso d’amore, quando il blu è solo un ricordo: questi sono solo i Chapitre 1 & 2. Perché se la storia di Clémentine è finita, quella di Adèle, che non si conclude, è il precipitato di un cinema che sa raccontare la vita, anche, e soprattutto, quando le sue narrazioni sono sfinite.