Già da molto prima che fosse presentato a Cannes, era evidente che Behind the Candelabra dovesse essere un film sulla fine. Doveva, in teoria, essere l'ultimo film firmato da Steven Soderbergh prima del ritiro (al quale peraltro nessuno crede). In ballo c'è invece molto di più: nientemeno che la celebrazione della fine dello Spettacolo.
Fosse davvero la sua ultima pellicola, tutto sommato, non farebbe una piega. Legittimo, terminare con questo funerale dello Spettacolo una carriera iniziata ventiquattro anni prima (Sesso, bugie e videotape) con una Palma d'oro che sigillava nella sua bara il decennio quintessenzialmente wendersiano (e il tedesco quell'anno presiedeva la giuria), postmoderno e compiaciutamente meta-cinematografico. Anche adesso, in un certo senso, e come nell'esordio dell'89, è ancora in questione il balzare, da parte di un voyeur, davanti a un obbiettivo e viceversa. I tempi peró sono cambiati: la piovra mediatica tutt'intorno al cinema, molto più articolata e pervasiva di vent'anni fa, non chiede più, ma esige la partecipazione diretta dello spettatore allo spettacolo. Molto oltre la semplice “interazione”, essa pretende che sia lo spettatore a diventare direttamente lui stesso lo spettacolo. Era già il soggetto di Magic Mike. Rispetto ad esso, la beffarda lezione supplementare di Behind the Candelabra è che se allo spettatore viene proposto il gran balzo, c'è poco da fidarsi, perché vuol dire che lo Spettacolo (anche e soprattutto nel senso debordiano di “Società dello Spettacolo”), sta proprio tirando gli ultimi.
È un Liberace ormai anziano, quello che accoglie Scott sotto la sua ala, facendo di lui il suo ultimo grande amore. Il film peró non sposa il punto di vista del primo, ma del secondo: di uno cioè che da dietro le quinte (prima di conoscere il variopinto pianista, Scott lavorava con gli animali sui set cinematografici) balza sulla scena, a fianco della star in un mondo di strepitosa e sbracata ricchezza materiale, per poi esserne frettolosamente cacciato via ad amore svanito. L'intero arco di questa passione viene percorso da Soderbergh con piglio analitico, fase dopo fase, scrupolosamente. Ascesa e caduta vengono tracciate con assoluta nitidezza, grazie soprattutto all'esemplare pulizia della regia di Soderbergh, alla sobrietà delle sue traiettorie, alla certosina essenzialità delle inquadrature. Di più: la forza di una regia del genere viene dalla sua allucinante freddezza, dalla sua spaventosa e spietata lucidità affabulatoria. Una storia del genere rischiava grosso di affondare a forza di strizzatine d'occhio, di pittoresco camp (di “palatial kitsch”, come lo definisce il pianista), di colorite e compiaciute futilità. Niente da fare. Inflessibile, Soderbergh guarda ai lustrini, al lusso sfrenato del microcosmo di Liberace, alle sue sensuali (per quanto cheap) attrattive, da una distanza letteralmente siderale. Fondamentale, in questo, la fotografia (a cura, al solito, del regista stesso sotto pseudonimo), con i suoi bagliori e i suoi luccichii nient'affatto assecondati: non sono loro, quasi mai, gli assi portanti di come è illuminata una data scena, sono letteralmente pleonastici e ricacciati sullo sfondo, in campo sí ma raramente estendentisi oltre il quadro. Le “luci della ribalta” (in senso lato) sono insomma una specie di derisoria carta di parati – se non un ancor più derisorio schizzo di sperma su di essa.
Insomma: un film al tempo stesso con e contro la fascinazione spettacolare, alla quale viene opposta la meticolosa ricostruzione della traiettoria ascesa-caduta, centimetro dopo centimetro. Basti pensare alla scena in cui Liberace si lancia in vertiginosi virtuosismi pianistici, nella quale mulina accordi sempre più follemente veloci: Soderbergh allora “risponde” con un non minore pezzo di bravura di montaggio. Qual è la differenza tra i due? Uno strafà, l'altro se ne guarda bene, e inanella un riff tanto “da urlo” quanto millimetrico, completamente privo di sbavature.
Solo una rigorosa lucidità, infatti, permette di esaminare davvero il decomporsi dello Spettacolo. A cosa si deve questa decomposizione? Cos'è che, nel dispiegarsi del ciclo vitale dello Spettacolo, “va storto” e innesca la rovina? Risposta: è essenzialmente una questione di specchi. Liberace fu il primo, a suo dire, a guardare nella telecamera, e dunque negli occhi dei telespettatori. Fu il primo, insomma, a stabilire un contatto diretto tra i due lati dello schermo – un'ovvia anticamera al salire sulla scena da parte di Scott. A quel punto, peró, il rispondersi degli occhi negli occhi estremizza il proprio effetto-specchio fino al parossismo: Liberace chiede a Scott di sottoporsi a chirurgia plastica per assomigliare a sé. Se il “peccato originale” è l'abbraccio tra i due lati dello specchio, non puó che conseguire una sempre più perversa rincorsa all'identità, l'esito della quale puó essere solo il dilagare catastrofico della differenza.
Eccola qui, nella sua olimpica semplicità, la parabola dello Spettacolo. Ma perché accanirci, seguirne l'arco palmo a palmo attraversandone la gloria come la decomposizione? Per capire che a essere finito è lui, lo Spettacolo, e non noi. Noi non siamo lui. L'era dello Spettacolo è già alle nostre spalle, e non abbiamo che da rendercene conto. Scott, nella strepitosa ultima scena, riconquista la propria posizione di spettatore, e assiste da una distanza di sicurezza (“è una questione di sicurezza”: tra le primissime battute del film, la rivolge Scott a uno stunt su un set) alla rinascita trionfante dello Spettacolo a partire dalla propria fine: stavolta peró non è più la fine dello Spettacolo, ma la fine come Spettacolo.
Attaccato da sempre alle grandi narrazioni mitiche, e dunque ai racconti sull'origine, James Gray si concentra invece sugli inizi della parabola dello Spettacolo. Poco dopo la prima guerra mondiale, dunque agli albori del secolo breve dominato dagli Stati Uniti (paese il cui trionfo è (stato) anche, e inseparabilmente, quello dello Spettacolo), Ewa arriva dalla Polonia a Ellis Island. Lei tenterà la fortuna nella Grande Mela, mentre la sorella verrà ancora trattenuta sull'isola per ragioni sanitarie. Da lí in poi, Ewa farà di tutto per ricongiungersi a lei: The Immigrant racconta pertanto la nascita dello Spettacolo, gli strenui tentativi di conciliare i due lati dello specchio – quello specchio che andrà definitivamente in frantumi in Behind the Candelabra. È incentrata su uno specchio, infatti, l'ultima bellissima inquadratura, uno degli inaspettatamente numerosi vezzi calligrafici che sfoggia il film (quella mano tremante che si avvicina a Ewa appena prima della dissolvenza incrociata che suggerisce l'ellissi del coito…). E anche qui, come Scott, Ewa valicherà la soglia del palcoscenico e transiterà sotto i riflettori solo come fase intermedia per poi passare, fatalmente, oltre.
Per raggiungere il suo scopo, Ewa dovrà passare per due uomini (e per un cadavere e mezzo): l'ebreo Bruno (mezzo pappone, mezzo impresario di avanspettacolo), e il prestigiatore Orlando. Due uomini di spettacolo, ma anche, e inseparabilmente, due pedine dell'ennesimo sottotesto teologico che immancabilmente, e in genere con ben poca leggiadria, Gray ama imbastire. Il secondo, infatti, assume presto connotati inconfondibilmente – fino appunto alla didascalia – cattolici: dei due pezzi forti del suo repertorio, uno è una resurrezione, e l'altro è una levitazione con le braccia orizzontali a mo' di crocifisso. La lotta fratricida tra i due è quella dal cui sangue nascerà lo strapotere dell'immagine: è il conflitto tra (semitica) iconoclastia e (cattolica) iconolatria. Bruno è colui che per convenienza sempre nasconde, Orlando colui che sempre espone alla vista, anche ció che non dovrebbe esserlo. Mentre uno mette sotto il naso dell'avversario una pistola finta, l'altro lo accoltella per davvero, con un coltello che nessuno vede.
È The Immigrant tutto intero ad essere lacerato tra visibile e invisibile: in superficie, una leziosa patina kolossal, una lussuosa ricostruzione scenografica della New York dell'epoca; in profondità, un'anima potentemente meló che borbotta a lungo e che di tanto in tanto erutta con notevole intensità (una scena per tutte: quella del confessionale), perlopiù grazie a un Joaquin Phoenix sempre più obliquo. Ma a contare, in questa appassionante genealogia dello Spettacolo, proprio come nelle sue esequie soderberghiane, è la fotografia: anche qui, è soprattutto questione di bagliori e luccicanze, non biancastre e glaciali come in Behind the Candelabra, ma un assai più morbido e soffuso giallo oro, che un sempre più immodesto Darius Khondji tende sovente a spalmare su tutta l'inquadratura. Lo Spettacolo, qui, è infatti una dolce promessa non ancora usurata e sfiorita… ed è facile, del resto, immaginare che sia verso il kafkiano teatro Oklahoma (America) che si dirigono le due sorelle, oltre l'ultima inquadratura. Il che è un modo per dire che come nell'altro film nella fine sta in agguato l'inizio, qui il nuovo inizio cui va incontro Ewa contiene più di un presagio della fine.