Il cinema di Lav Diaz era cominciato con una citazione da Dostoevskij. Il primo fotogramma della sua prima opera, Serafin Geronimo: Ang kriminal ng Baryo Concepcion (1998), portava in calce una frase da Delitto e castigo: «Una fase strana inizia per Raskolnikov; una rugiada l'ha avvolto in un'insopportabile solitudine da cui è impossibile fuggire», e il protagonista di quel film, Serafin Geronimo, autore impunito di sequestri di persona, incarna la figura di Raskolnikov. Benjamin Agusan, il protagonista di Kagadanan sa banwaan ning mga Engkanto (2007), uno dai tanti alter ego del regista nei suoi film, espone all'amica Catalina un suo racconto, ispirato a una storia vera di un uomo condannato ingiustamente, che lui stesso definisce un apologo morale di stampo dostoevskiano. Raskolnikov si manifesta ancora nel cinema di Lav Diaz, nella sua ultima opera, Norte, hangganan ng kasaysayan, e precisamente nella figura di Fabian, un altro studente di legge, che commette un delitto, uccide l'usuraia Magda, ma al suo posto finisce in galera un innocente, il povero Joaquin. E il primo film del regista viene ancora richiamato in un'evidente giochino autocitativo: la prigione di Joaquin è soprannominata “dente marcio”, riferimento ai problemi dentali di Serafin Geronimo.
Negli usuali diverticoli narrativi del regista filippino, distillati in un film dalla durata decisamente contenuta rispetto agli standard del regista (poco più di quattro ore), con la tipica struttura a staffetta dei protagonisti, il novello Raskolnikov non viene più seguito dopo l'omicidio, viene lasciato in un'inusuale ellissi per poi essere recuperato solo nel finale, e concentrarsi sulle traversie di Joaquin, dei suoi famigliari e di altri personaggi. La consueta fitta tessitura, tipica di Diaz, viene qui notevolmente semplificata. Con il respiro del cinema di Diaz, nella terra apparentemente incontaminata delle Filippine, tra i suoi poveri villaggi, il mare, le spiagge, il sole, le palme, viene messo in scena un archetipo della letteratura, ma anche del genere noir hollywoodiano classico, come quelli di Fritz Lang (Furia, Sono innocente, La strada scarlatta, L'alibi era perfetto), o di Hitchcock. Il tema della “giustizia” fallibile degli uomini, del senso di colpa e dell'espiazione.
Se Totò a colori (1953) rappresentava fin dal titolo l'approdo dell'attore comico italiano alla pellicola non più in bianco e nero, così potremmo definire Norte come “Lav Diaz a colori”. Il discorso cromatico per il cineasta filippino è complesso. I suoi film in bianco e nero erano in realtà girati con una fotografia a colori poi convertita in scala di grigi in post-produzione. Diaz dichiara di essersi convinto a lasciare il colore, stavolta, affascinato dalla natura, dalla luce dei luoghi del film, nella Provincia di Ilocos Norte, nell'estremo nord-occidentale dell'isola di Luzon. Una sorta di “finis terrae” filippina. Diaz usa la tavolozza cromatica con lo stesso potere mesmerico, abbacinante, dei film in bianco e nero, rifuggendo comunque a qualsiasi facile estetismo. Ma cruciale è l'ambiguità di questa nuova terra di “encantos”, di questa ultima frontiera del cinema di Diaz, nell'antitesi tra la sua bellezza incontaminata, la vita semplice dei suoi villaggi, e l'aver rappresentato un bubbone morale per il paese, l'epicentro del suo degrado etico e politico in quanto terra natale di Ferdinand Marcos e tutt'ora covo e feudo dei seguaci del sanguinario dittatore. Non c'è più bisogno di scavare nel suolo per disseppellire i fantasmi del passato di una nazione, come avveniva in altre opere del regista. Non c'è più bisogno di mostrare le tragedie collettive del popolo filippino, i cataclismi naturali e geopolitici che hanno da sempre martoriato quel paese. L'orrore è compresente con la bellezza policromatica dei paesaggi dell'arcipelago, in un'antinomia che si esprime in un apologo dostoevskijano.