È sempre interessante leggere i report dai festival internazionali dei film di Jia Zhangke. Una delle espressioni più tipicamente ricorrenti, quanto meno da The World, è quella per cui Jia ci racconterebbe l’attualità della Cina, i grandi cambiamenti che sta attraversando la Cina, o che cosa sia diventata oggi la Cina. Un po’ come un reportage. D’altra parte che cosa ci può dare un film cinese se non la sua stessa "cinesità"? Se il grande cinema americano è capace di raccontare il mondo intero o le storie universali, il cinema cinese non può che essere legato alla sua località. Il suo compito è quello di offrire allo sguardo oggettivo e un po’ imperiale del centro euro-americano la prospettiva particolare della periferia. Viene in mente quello che diceva la filosofa femminista indiana Gayatri Spivak: “agli europei piace che io parli del mio essere donna e indiana, di che cosa voglia dire oggi essere donna e indiana; ciò che non sopportano è che io prenda parola sulla filosofia occidentale.” Vorremmo innanzitutto provare a partire da questa indicazione, forse un po’ provocatoria, ma che ci pare tuttavia corretta: i film di Jia Zhangke, e A Touch of Sin ne è un esempio particolarmente riuscito, non parlano della Cina. Parlano del capitalismo contemporaneo. Parlano del nostro mondo. Parlano dunque non della specificità di un luogo, ma dell’unica universalità a cui è permesso di avere accesso nel mondo moderno. Quella del capitalismo. Vediamo in che senso.
Rappresentare il capitalismo costituisce da sempre una questione particolarmente insidiosa per qualunque forma espressiva. Chiedersi come possa essere guardato un oggetto non in quanto oggetto ma in quanto merce, è una delle domande più complesse che il cinema si possa porre (o la rappresentazione in generale, fu il problema anche di Brecht). In una merce vengono condensati moltissimi processi sociali e produttivi che spesso avvengono in quattro angoli del pianeta e che tuttavia non si vedono se ci mettiamo a guardare l’oggetto in quanto oggetto concreto. Per il cinema è facile farci vedere un insieme di oggetti concreti, ma il fatto che l’esistenza di questi oggetti dipenda simultaneamente da un miniera peruviana di zinco, da una fabbrica siderurgica del Guangdong, da un broker assicurativo di New York, uno sviluppatore di software di Bangalore, un camionista italiano e da una centrale idroelettrica di Hubei è qualche cosa che sfugge alla visione. Ciò che il capitalismo, da quando è nato, ci impedisce di fare è di avere un approccio ingenuo alla visione. O meglio, ci impedisce di pensare che l’unità di spazio e tempo possa essere sufficiente a vedere il mondo com’è realmente. Quelli che si sono cimentati con questo problema, da Ėjzenštejn a Alexander Kluge, sanno che vedere la merce non può che voler dire vederne la sua natura “sensibilmente sovrasensibile”, secondo l’espressione di Marx. Dunque bisogna non vedere quello che c’è in concreto ma vedere quello che non si vede e che tuttavia esiste più di ogni altra cosa. Come fa Kluge in News from Ideological Antiquity dove gli oggetti di un campo visivo qualunque vengono aperti alle loro storie invisibili e tuttavia esistenti. D’altra parte non ci vuole molto per capire che gli oggetti che ci circondano, anche se non lo vediamo, hanno dentro di loro fabbriche, operai, camionisti, trasporti, sindacati, conflitti, migrazioni, sofferenze, disastri ambientali etc. Aprire gli occhi a questa dimensione vuol dire chiuderli sull’immediatezza del visibile. E pensare che anche il visibile è qualcosa da costruire non da recepire passivamente.
Jia Zhangke, già da Pickpocket, non si limita a farci vedere la Cina come un certo esotismo coloniale vorrebbe credere, ma più direttamente ci mostra ciò che il cinema contemporaneo europeo e americano ha semplicemente cacciato via dal proprio perimetro del visibile: il lavoro e il mondo della produzione. È come se vedessimo il nostro mondo, ma non a partire da come si dà spontaneamente alla visione, ma seguendo i flussi delle sue merci e le conseguenze che provocano nel mondo. Jia sa però che non va fatto l’errore di sostituire alla pseudo-oggettività del visibile immediato un’altra oggettività (non basta mettersi a vedere il processo produttivo così com’è, come alcuni registi per altro credono). Bisogna marcare nel visibile la distanza tra i due. Ovvero bisogna vedere come si relazionano e con che contraddizioni, la particolarità della storia individuale nella sua immediatezza e l’universalità dell’accumulazione capitalistica. Si vede bene in Still Life dove l’intimità di due storie di coppia si intersecano con un’enorme progetto ingegneristico di Stato, quale è la costruzione della Diga delle Tre Gole nell’Hubei. Coesiste infatti nel cinema di Jia una doppia polarità: da un lato l’attenzione desublimata per il dettaglio minuto, la vita di personaggi minori, umili, di estrazione sociale bassa, visti nella loro vita quotidiana. Secondo alcuni, come l’intellettuale cinese Wang Hui, si vedrebbe in questo registro l’influenza del cinema di Ozu o di Hou Hsiao-Hsien. Ma Jia è anche profondamente legato alla generazione dei registi documentari politici nata in Cina negli ultimi anni: lavori come West of the Tracks di Wang Bing, o Petition e Paper Airplanes di Zhao Liang capaci invece di alzare lo sguardo alla complessità delle questioni politiche ed economiche. La particolarità dell’individuo e la dimensione astratta dell’accumulazione capitalistica stanno sempre l’una accanto all’altra senza che mai riescano a trovare una possibile sintesi o pacificazione. Più spesso i motivi personali o individuali vengono sovrastati dalla contingenza sistemica nella quale si vengono a trovare. È questo un tono tipico di tutti i film di Jia Zhangke: una sorta di smarrimento e di alienazione da parte dei personaggi rispetto alla realtà nella quale si trovano. Lungi dall’essere espressione del proprio contesto come vorrebbe il cinefilo/spettatore che cerca la "cinesità", i personaggi di Jia mostrano proprio questo radicale trovarsi “fuori posto”. È questa infatti l’esperienza più fondamentale e universale del capitalismo: non avere più alcun legame elettivo con nessun luogo e nessuna comunità. L’essere "astrattamente umano", come diceva Marx.
A Touch of Sin rappresenta in questo senso un punto di arrivo di tutti questi temi. Dopo uno storico trittico di film sulla provincia dello Shanxi, da dove viene il regista (i film Pickpocket, Platform e Unknown Pleasures) – un luogo particolarmente poco “paradigmatico” per la Cina: periferico, fondamentalmente agricolo e incentrato sull’industria mineraria –, e The World, il suo primo film “di Stato” su un parco dei divertimenti a Pechino, sia Still Life sia 24 City mostravano un percorso che tendeva sempre più a “generalizzare” il proprio sguardo (Still Life sui movimenti migratori interni, 24 City sulla lunga storia operaia di una fabbrica dello Sichuan). Jia con gli anni tende a guardare il capitalismo e la modernità cinese in una veste sempre più “complessiva”, dove è sempre più consapevole la messa a tema del non-rapporto tra il particolare della storia individuale e lo sfondo universale del capitalismo contemporaneo sul quale si staglia. Questo aspetto, in una contemporaneità che è sempre più incapace di pensare insieme storia individuale e storia collettiva, e accompagnato all’attenzione tipica del cinema cinese degli ultimi anni riguardo al mondo del lavoro, rappresenta a nostro avviso la dimensione politica più rilevante del cinema di Jia.
Le due novità più importanti di A Touch of Sin sono il confronto per la prima volta con il genere dei wuxia – un passo importante per un regista di cultura cinese –, e un intreccio che non è più legato a un’unica storia, ma che vuole direttamente ingaggiare la complessità della Storia con la S maiuscola. Partiamo da quest’ultimo aspetto: dalla privatizzazione delle miniere dello Shanxi e l’ingente appropriazione di risorse collettive da parte della nascente borghesia locale, alla zona di libero scambio di Guandong, vicino a Hong Kong e Macau; da una storia di migrazione a Chongqing fino alla Cina centrale dell’Hubei, si vede nel film una panoramica sull’intero paese. Dal punto di vista geografico e sociale si va dalle zone più arretrate, agricole e decentrate, a quelle più sviluppate e legate ai servizi; dalle miniere ai treni ad altissima velocità; dai giovani cosmopoliti agli anziani legati ai luoghi più rurali e tradizionali. La Cina in A Touch of Sin è davvero “il mondo” in quanto a complessità e diversità. Persino le lingue cambiano in continuazione da una zona all’altra e le persone non sempre si capiscono. Tuttavia le storie sono intrecciate l’una all’altra, come se ci fosse un legame di fondo nonostante tutta questa diversità apparente: il padrone dell’azienda dove lavora Xiao Hui, il giovane dell’ultima della quattro storie in cui è diviso il film, è l’amante segreto della hostess del salone di massaggi interpretata da Zhao Tao; Zhou San, l’immigrato della seconda storia compie un massacro all’inizio del film vicino alla miniera di Shanxi dove si svolge la prima storia. Anche se non è visibile, dato che le storie paiono governate dal caso, c’è una logica di fondo che le tiene insieme. Il capitalismo fa legame tramite l'astrattezza dei rapporti sociali, non tramite la comprensione reciproca e Jia ci fa vedere come questa complessità di particolari si tesse di fronte ai nostri occhi. Il regista dice di essersi ispirato alla pittura paesaggistica tradizionale cinese dove l’impulso era quello di raffigurare il paese il più possibile nella sua interezza. Il problema è che essendo Jia un regista che sta pienamente “dentro” alle contraddizioni della modernità capitalistica questo paesaggio non può che venir fuori come attraversato da una profonda scissione. Non ci può essere nel capitalismo un paesaggio pacificato e “immediatamente” (nel senso di prescindere dalle “mediazioni sociali”) bello, che si può offrire alla contemplazione di chi lo guarda. In tutti i campi lunghi paesaggistici del regista cinese c’è sempre un elemento umano che, per così dire, lo “rovina”: ogni vallata ha un ponte; ogni fiume ha delle chiatte per il trasporto industriale; ogni sguardo che si perde a vista d’occhio non può che incontrare un insediamento urbano. Anche nelle zone più remote della Cina rurale il massimo di naturale che si può incontrare è una miniera o un insediamento industriale. Se pensiamo a quanto il cinema degli ultimi anni, anche quello radicale e “controcorrente”, abbia invece flirtato con l’illusione di scovare un visivo che prescindesse dalle contraddizioni della modernità (pensiamo a Malick, Frammartino, ma anche le ultime cose del politicissimo Straub o un film viceversa estremamente interessante come Su Re di Columbu) riusciamo a misurare fino in fondo la radicalità politica di un cinema, come quello di Jia Zhangke, che semplicemente considera la discontinuità del capitalismo come qualcosa che ha irreversibilmente cambiato il nostro modo di guardare alle cose. La Cina – quella che alcuni chiamano la “fabbrica del mondo” – ha allora questo da insegnare al “nostro” mondo: che non è più possibile guardare un oggetto come se fosse solo un oggetto; o una vallata come se fosse solo un paesaggio; o una storia di un giovane operaio tessile come se fosse solo una storia umana particolare. Il capitalismo ha fatto sì che non ci sia più niente di naturale: ogni cosa, ogni immagine, ogni storia umana, non vive mai in se stessa, ma è la manifestazione dissimulata di una serie di rapporti sociali.
C’è però un elemento di assoluta novità in A Touch of Sin che lo separa da tutti i film precedenti. Il modo con cui questa contraddizione si manifesta è assolutamente inedito. Jia non si limita a creare un’immagine del non-rapporto tra individuo e sfondo universale come negli altri suoi film, dove entrambi permangono nella loro sintesi impossibile: in A Touch of Sin questo non-rapporto prende la forma di un violento passaggio all’atto. In psicoanalisi si definisce passaggio all’atto un’azione che non nasce da un intento risolutivo, ma che si manifesta proprio come conseguenza di un’impasse irrisolvibile. È una figura dell’impossibilità di un cambiamento. L’incapacità di trovare una via d’uscita si trasforma in una frustrazione che esplode violentemente. Tutte le quattro storie di questo film, che terminano tutte con un passaggio all’atto violento verso gli altri o se stessi, nascono da un’impossibilità di uscire da una situazione di blocco. Il rapporto tra l’individuo e le proprie condizioni sociali pare chiusa in un cul-de-sac (emblematicamente rappresentata da Zhao Tao schiaffeggiata ripetutamente con una mezzetta di banconote). C’è un incombente senso di stasi in A Touch of Sin (magnificamente espresso nella prima storia interpretata da Jiang Wu che sembra quasi il contraltare fiction di Petition di Zhao Liang) che va a cozzare con l’idea tutta ideologica della Cina come paese attraversato unicamente da vorticosi cambiamenti. Il tempo del capitalismo a volte è un tempo segnato della ripetizione e dell’impossibilità della mobilità sociale. La scelta di un wuxiapian (A Touch of Sin è un tributo al capolavoro wuxiapian di King Hu A Touch of Zen) non è allora soltanto legata al forte legame con la tradizione artistica cinese ma è anche legata alla specificità di questa congiuntura storica: Jia Zhangke lo dice quando interpreta la tradizione wuxia come un topos narrativo della “lotta dell’individuo contro l’oppressione in un contesto sociale ostile”. In A Touch of Sin infatti manca completamente una dimensione collettiva di contestazione della propria condizione sociale. L’unica universalità che tiene insieme tutte le storie, le culture, le provenienze geografiche è quella del Capitale che orchestra questa enorme molteplicità di particolarità in una rete causale d’insieme. Per il resto di fronte all’immensità dei campi lunghi di paesaggi industriali e di spazi urbani a perdita d’occhio c’è solo l’isolamento individuale che può esplodere in una rabbia che è indifferentemente contro se stessi o contro l’altro, perché non è in grado di individuare – ovvero di guardare, di far emergere nel visibile – il vero nemico. A Touch of Sin allora mostra negativamente e indirettamente attraverso la figura dell’impasse e del passaggio all’atto il problema fondamentale del cinema politico oggi: quello di incarnare, costruendola, un’immagine della generalità dei rapporti sociali dal punto di vista del loro cambiamento. Un’immagine che sappia tenere insieme il particolare dell’individuo e l’universale del capitalismo. L’alternativa è la fuga nella natura estetizzata o nel feticcio della comunità, oppure la violenza distruttiva contro se stessi.