In attesa del suo prossimo Adieu au langage (in produzione), Jean-Luc Godard esprime tutta la sua diffidenza nei confronti delle tre dimensioni al cinema. Lo fa in 3X3D, omnibus sponsorizzato dalla città di Guimarães, capitale europea della cultura 2012. Il suo contributo (affiancato a quelli di Peter Greenaway e Edgar Pera), lascia trasparire la sua sostanziale perplessità già dal titolo: 3 désastres. Tre, infatti, sono i capitoli che si avvicendano in questi 17 minuti di montaggio che affastella, al solito, aforismi visuali, frammenti di voce over, citazioni e quant'altro (alla Histoire(s) du cinéma, per capirci). Di 3D, prevedibilmente, nulla o poco.
È possibile, forse, identificare all'interno di 3 désastres un vero e proprio punto di fuga, attorno al quale si organizza l'intero campo visivo, l'intero forsennato mosaico. Questo punto di fuga, è la prospettiva centrale stessa. Godard, infatti, torna a citare André Malraux (Esquisse d'une psychologie du cinéma, 1940), da sempre uno dei suoi punti di riferimento principali: la prospettiva centrale è strumento di conquista dello spazio, del tutto funzionale alla brama di conquista dell'Occidente. Godard, in seguito, biasimerà violentemente il Malraux ministro folgorato da De Gaulle, rimproverandogli di esser stato il primo a non aver tenuto fede ai propri principi, a questi principi. A fare invece tesoro di quanto sostiene Esquisse è invece un altro, imprescindibile punto di riferimento del Godard di ogni epoca e fase: André Bazin. Dobbiamo al suo celebre Ontologie de l'image photographique la dimostrazione che il cinema redime e supera la prospettiva centrale. Molto prima dell'ingombrante macchina dell'immagine in movimento, era già la prospettiva centrale ad essere una tecnica del vedere: un potente strumento in cui la riproduzione delle apparenze del reale per come le percepirebbe un dato punto di vista, è tuttuno con la subordinazione del reale a uno sguardo umano quanto mai sovrano. Il paradosso del cinema consiste dunque per Bazin nello spezzare questa tecnicità proprio grazie a un armamentario ancor più vistosamente tecnologico. Col cinema, infatti, è definitivamente chiaro come, prima ancora di qualsiasi tecnica del vedere, sia il nostro stesso sguardo ad essere un automatismo che non ci appartiene, perché a non appartenerci è innanzitutto il modo stesso in cui le cose "sembrano a noi". Rispetto alla rivoluzione prospettica in pittura, insomma, il cinema ci fa fare un passo indietro: non più uno strumento di conquista e controllo della realtà, ma la conferma che è la stessa "impressione di realtà" ad essere costitutivamente al di fuori del nostro controllo.
Ecco perché tutto il primo capitolo della ricognizione godardiana suggerisce che il cinema, lungi dal potersi pensare in qualsivoglia relazione alle dimensioni empiriche della realtà (siano esse una, due, tre, quattro…), sia invece una sorta di numero negativo. Un non-numero, un non-nombre. Anzi, n-ombre è la denominazione più adatta al cinema, secondo Godard, perché ombra a "n" dimensioni. Lontano dalle illusioni, del tutto funzionali alla fregola "imperialista" dell'occhio, che la realtà possa avere una, due, tre, quattro dimensioni, il cinema ci ricorda che tutto ció che vediamo è ombra. E ce lo ricorda rimandandoci indietro il nostro stesso sguardo. Mettendo due proiettori (quelli che servono per ottenere l'immagine tridimensionale) davanti a uno specchio, Godard sembra chiederci: quante dimensioni potrà mai avere l'immagine che lo specchio ci restituisce?
A confronto con il 3d, pertanto, il cineasta svizzero ritiene, giustamente, di continuare a fare quello che ha sempre fatto, indisturbato. Il 3d garantisce un maggiore spessore volumetrico? Ma il semplicissimo procedimento della sovrimpressione creava questo spessore senza alcun bisogno del nuovo supporto. Per cui, se Godard dalla sua fase-video in poi ha fatto frequentissimo uso delle sovrimpressioni, ora che ha a disposizione questo nuovo mezzo non ha che da proseguire sulla strada su cui era già, e utilizzarle ancora. La sua concezione del cinema è ancora quella che Bazin innestava su Malraux: un'esasperazione tecnologica della prospettiva centrale che rompe, finalmente, con quella "tecnica del vedere" che essa è, e ci ricorda che, poiché il nostro stesso sguardo non ci appartiene, ogni vedere è anche una forma di cecità (Bazin: l'inquadratura è un cache e non un cadre). Quindi, semmai, per Godard il 3D è un'ulteriore esasperazione tecnologica che ha senso solo se mina alle basi la tecnicità del vedere e restituisce alla cecità dello sguardo quanto gli è dovuto. Per questo paga puntualmente il suo omaggio al Cave of Forgotten Dreams 3D di Werner Herzog, che retrodata il 3D alle primitive pitture rupestri. Per questo, a un certo punto dis-allinea le immagini sparate dai due proiettori dicendoci "chiudete un occhio": cosí facendo, infatti, vediamo l'immagine correttamente allineata.
3 désastres include altresí svariati spezzoni di cinema contemporaneo (Resident Evil, I tre moschettieri…) che illustrerebbero l'"imperialismo" del 3D, il suo essere aggressivo strumento di conquista dello spazio. L'esempio perfetto, tuttavia, non è all'interno del cortometraggio, ma a fianco. Si tratta, infatti, del breve film di Peter Greenaway, strenuamente abbarbicato ora e sempre a un approccio pittorico che non vuole saperne di riconoscersi superato dal cinema. Alla centralità dello sguardo dell'osservatore, perno della prospettiva centrale, il regista britannico rimane attaccatissimo. Organizza, pertanto, una "visita turistica" di Guimarães tutta in un unico piano sequenza; il punto di vista rimane sempre lo stesso, quello di un visitatore immaginario che attraversa vari luoghi all'interno della cittadina. Un continuo, indefesso movimento in avanti le cui velleità di conquista dello spazio saltano davvero agli occhi.
Ogni luogo (chiese, piazze, monumenti…) è caratterizzato da una fitta selva di segni (lettere, redivivi personaggi del passato, oggetti, scritte informative…) che il digitale materializza e lascia fluttuare a mezz'aria, letteralmente. Ogni luogo, insomma, si vede composto da una forte stratificazione di reperti di epoche diverse. Il 3D e la sua volumetria sono appunto direttamente funzionali a questa stratificazione visiva. Sta qui, innanzitutto, l'invalicabile differenza tra questo cinema e quello godardiano. In Greenaway, lo spazio ha senso solo come smisurato contenitore di segni: manca cioè lo scarto qualitativo tra lo spazio e i segni di cui si compone. Il rapporto con questi ultimi è solo quantitativo, anche quando viene elaborato con grande perizia grafica: una perizia pittorica che, in questo senso, funziona più da foglia di fico che altro. Consiste, cioè, nel mascherare il decorativo da qualitativo per nascondere la vera egemonia, che è quella del quantitativo. Mancando lo scarto qualitativo tra lo spazio e i segni che contiene, lo spazio si configura come nulla più di, letteralmente, un bottino di conquista. Il montaggio infinito di Godard, invece, sconfessa il rischio dello spazio-come-contenitore dandosi come pura relazione, esaurendo l'intera dimensione spaziale nella tessitura dei frammenti l'uno con l'altro. Greenaway nasconde la tela dipingendoci sopra, come si faceva una volta; Godard si ferma dove deve fermarsi, al tessersi della tela. Facendo scomparire il tessuto dietro la tessitura, Godard raggiunge un tessersi acefalo, per cui la sintesi che ricomporrà l'ammasso pseudo-informe di pennellate in un'immagine unitaria non è né la sua né quella dello spettatore, ma un'attività sintetica impersonale, di ogni momento e di nessun agente.
Questa medesima disparità di approccio spiega altresí il diverso modo, in un autore e nell'altro, di giocare con l'illeggibilità dei frammenti. I testi che Greenaway visualizza sullo schermo tramite scritte, cosí come quelli pronunciati dalla voce over, sono schegge: ne viene cioè offerta allo spettatore solo una identificabilità molto parziale, intenzionalmente fuggevole e incompleta. Godard, invece, non ha nessun bisogno di mutilare i propri frammenti. Di ogni frammento (o quasi) è conservata l'interezza (l'intellegibilità è un altro paio di maniche, ed è condizionata, per esempio, dal sovrapporsi spesso intricato di suoni e immagini): ci penserà l'attività sintetica di ciascuno a oscurare alcuni elementi e privilegiarne altri. Nel film dell'inglese, la stessa frammentarietà delle schegge presuppone una qualche loro interezza in sé, giacente al di fuori dell'accesso dello spettatore (il solito trucchetto dello sguardo "imperialista" che presuppone una realtà al di fuori della propria presa solo per poterla afferrare meglio). Il francese/svizzero, invece, non tronca alcunché perché sa che a rendere tutto parziale ci pensa già la sintesi – che non è di nessuno. Cache e non cadre.
Guardiamo dunque il contributo di Greenaway con il giusto atteggiamento: la compassione. La compassione per chi, magari sotto le fattezze falsamente innocue del turista, ancora si illude che "ci sia" qualcosa da conquistare.