I.
SPOOL è un progetto iniziato nel 2007 che consiste nel recupero, nell’analisi e nella ristrutturazione di archivi video di film di famiglia.
Il recupero degli archivi avviene tra amicizie e conoscenze – spesso casuali, attraverso chiacchiere e passaparola.
Una volta ottenuto un archivio, ogni singolo nastro che lo compone è interamente digitalizzato e analizzato nelle sue specifiche; successivamente, parte delle riprese di un singolo archivio viene montata all’interno di un video, chiamato “tape”.
Ogni “tape”, a cui è associato il nome della persona che ha ceduto il proprio archivio, viene numerata in ordine progressivo e aggiunta alla precedente, costituendo SPOOL come un unico corpus in continua espansione.
Ogni “tape” differisce dall’altra per durata e tipologia di intervento, mantenendo la propria autonomia: è uno sguardo dedicato ad un singolo archivio, indissociabile dal nucleo familiare in cui prende forma.
SPOOL si concentra esclusivamente sulle produzioni familiari in video analogico, nella convinzione che le specifiche tecniche del medium, dal momento in cui hanno sostituito 8mm, Super8 e gli altri formati del cinema amatoriale in pellicola, abbiano fatto esplodere il film di famiglia, dando vita ad un materiale e ad una complessità nuove all’interno del panorama delle produzioni familiari.
Videocamere di piccolo formato che è possibile muovere, spostare, strattonare, passare di mano in mano; nastri di lunga durata e dal basso costo che consentono di registrare in nuovi tempi lunghi e continuativi, senza alcuna preoccupazione di conservare il nastro per
gli istanti migliori; la possibilità di riprodurre l’immagine nello stesso momento in cui si registra e la facilità di duplicazione delle cassette, che sostituiscono la ritualità della proiezione in pellicola e la preziosità del suo essere copia unica; gli automatismi che
rendono l’immagine sensibile e introducono l’obiettivo negli ambienti più bui – come le stanze, le camerette, i bagni; microfoni invisibili che permettono, per la prima volta, la registrazione on-camera del sonoro contemporaneamente a quella delle immagini e capaci di mettere a fuoco anche il più piccolo rumore di fondo.
Il video s’introduce in una dimensione profonda dell’intimità familiare, e qui prende forma, registrando anche il movimento più minuto, anche il suono del più lontano evento fuori campo; per la prima volta, tutto quanto attorno al ritratto familiare in pellicola era soltanto immaginabile, con il video diventa visibile ed udibile.
SPOOL, su tutte queste immagini, si tende in ascolto, cavo, nell’intenzione di far risuonare ogni archivio nella propria apertura.
II.
Per presentare SPOOL attraverso un testo scritto, avremmo potuto esporre e approfondire i caratteri accennati qui sopra, il modo peculiare con cui affronta la questione dell'archivio e il campo del film di famiglia. Ma abbiamo deciso di non farlo. Abbiamo preferito condividere qualcosa che stesse al di qua e al di là del progetto stesso, riaprirlo e cercare un modo di parlarne dalla distanza che la scrittura impone rispetto al movimento delle immagini. Quanto segue è una sorta di corrispondenza, un gioco aperto all’imprevisto tra le immagini che Diego ha scelto e le parole che esse hanno suggerito a Tommaso. Corrispondere tra noi per corrispondere a SPOOL, al fascino opaco che emana il suo materiale.
Una pulsazione. L'arresto di una pulsazione. Una mano si stende, un'altra si serra in una piccola cosa informe. Il video non si arresta con la cruda nitidezza della fotografia: si sfalda senza ritegno, morbido, liquido.
Non c'è sguardo, è una questione di corpi che si toccano, oggetti che slittano, cambiano sede. Non c'è memoria, ma un presente agitato. E ora neanche più questo: solo il residuo, contratto, sfrangiato, di una pulsazione.
C'è qualcosa di cerimoniale in quel catino di plastica posato sul tavolo, un apparato domestico – presentazione al tempio, battesimo; qualcosa di rituale calato in un interno familiare. Ma al tempo stesso è palese che qui nessuna iconografia sacra può trovare posto, così come, del resto, non c'è niente di meno familiare di un interno. Se il rituale è negato o avvilito, resta però un campo aperto alle apparizioni, un dilagare di fantasmi: sarà l'effetto della plastica blu unita al giallo tenue della camicia, ma quello che vedo soprattutto è questo fumo verdastro e appiccicoso che sembra esalare dal bacile, impregnare la schiuma dello shampoo, le tende, e materializzarsi infine lì accanto, come uno spettro che osservava tutto fin dall'inizio, anche se non ce ne eravamo accorti.
L’immagine sembra così vicina, palpabile, eppure sfugge alla presa. Nella continua vibrazione i corpi si ritraggono, si ammantano in loro stessi fino a perdere i contorni: mani, pance, tessuti, galleggiano in una liquida indefinitezza. Fuori dall’acqua inizia un gioco: nascondersi e riapparire, confondere le parti, anche se non ci sono ancora parti definite; soltanto questo amoroso avvolgimento, che smargina dall’identità.
Chi si intromette in questo scambio può registrare solo falsi movimenti, il puntuale mancamento delle immagini.
Sembra che i corpi e i volti conservati su questi nastri non possano mai lasciare il piccolo schermo familiare cui erano destinati: dilatate dalla proiezione le immagini rivelano ancora più la ricchezza della trama, il turbinio delle particelle che le compongono, ma non è per via delle dimensioni che esse si emancipano dalla scatola che le ha covate. Tuttavia, esistono istanti, come questo, in cui esse perforano la superficie televisiva e tentano di assumere un’esistenza indipendente. Si appigliano allo sguardo e, senza che ce ne accorgiamo, un attimo dopo si sono calate in mezzo a noi, ce le troviamo davanti, senza più cornice. Non reclamano più un corpo: lo sono. Anche una testa tagliata può fronteggiarci in tutta la sua statura.
Solo quel lembo di camicia, stropicciato dalle ultime linee della griglia, blocca la fuga di questo volto che vuole farsi schermo, lo riassegna al quadro.
Non so se sia un gesto di abbandono o protezione quello che fa sprofondare la testa nel cuscino. Non so se quegli occhi si siano appena aperti o stiano per chiudersi, ma la dolcezza con cui mi fissano sembra l’unico punto di riferimento cui aggrapparmi: il resto è uno strano fluttuare delle proporzioni, quello che avviene sulle soglie, come tra sonno e veglia, dove facilmente diventiamo altro da ciò che siamo. Così ho l’impressione che, al di là di questo istante, il corpo continuerà a rimpicciolirsi, quasi che la piccola mano avesse il potere di sgonfiare la testa, come un palloncino. Forse le gambe spariranno sotto a quella felpa rossa, che è già troppo grande e lo diventerà ancor di più: a un certo punto resterà solo lei, penso, come una tenda dentro cui rintanarsi.
E anche se alla fine tutti quanti usciamo dalla felpa per un’altra strada, crescendo fino a smetterla, in qualche modo sarà sempre quell’involucro a restare, identico a se stesso: e noi a chiederci come esso abbia potuto un giorno accogliere il nostro corpo, a meravigliarci della costante muta cui siamo soggetti. Solo in certi momenti, in certi luoghi, possiamo rendercene conto, come tra queste rovine dell’infanzia.
Il tempo del video si espande senza limiti, lasciando che le cose si gonfino, oltre le proporzioni che assumono solitamente alla percezione, come spesso ci accorgiamo che un corpo respira solo quando lo osserviamo immerso nel sonno.
Non si tratta di contemplazione, se con questa intendiamo una sorta di nobile distillato dell’attenzione. Piuttosto, la capacità di stoccaggio dell’apparecchio dissolve ogni attrito nel gesto di archiviazione: invita allo spreco, a una curiosità scorrevole, superficiale, che assorbe tutto ciò che incontra come una spugna. Una fame indiscriminata di presenza finisce così per far lievitare come una pasta anche i vuoti, le assenze. Man mano che il time code accumula minuti è come se lo sguardo si restringesse sempre più, penetrando i pori della realtà: allora la superficialità vorace, consumatrice, cui sembra spingere il video, si rivela un semplice galleggiante, che segnala la presenza di qualcuno immerso a profondità incalcolabili: qualcuno o qualcosa che indugia in quel fondo oscuro e se ne lascia incrostare. Alla fine riemergerà trascinando con sé detriti o tesori inaspettati, come i momenti in cui non c’eravamo.
Si ha l’impressione di un senso che affiora, tendendosi nella polarità che suggerisce questa immagine, tra pettinare e spettinarsi, tra una testolina che viene pazientemente composta e una criniera sciolta, che fa macchia ed è assorbita dallo sfondo, come un cespuglio. Eppure, se resto aggrappato a questi significati, non potrò mai camminare sul filo teso e oscillante che li collega: il rischio di precipitare accompagna ogni passo, perché se rinuncio alla comoda idea che le cose si presentino secondo una struttura ben piantata, incontro un’eccedenza, che scoraggia il mio goffo tentativo, fa defluire il senso e lo disperde. Come quella ciocca riflessa nel vetro, mi viene da pensare, spostando appena lo sguardo.
E allora sono costretto a fermarmi a chiedermi di cosa sto scrivendo, a cosa mi trovo di fronte. Il fermo immagine pettina la matassa visiva, e io non so più se devo rivolgermi all’ordine compito di una treccia, o perdermi in un mare di capelli. E resto così, sospeso.
Forse è davvero un paradosso tentare di afferrare queste immagini scivolose, sorte come grumi accidentali in un flusso inesauribile. Corpi, gesti, oggetti possono apparirmi vagamente familiari, ma è un’impressione che evapora appena mi ci soffermo: solo allora arrivo a sentire tutta la resistenza della loro estraneità. A volte è l’immagine stessa a mostrare una tensione a fermarsi, a comporsi, a farsi davvero ‘immagine’. Come in questo gesto di ostensione, esplicito, frontale, che sembra voler incollare l’irrequietezza del video alla posa dell’album fotografico. Di questo sforzo percepisco la bellezza e l’insufficienza: per quanto venga sollevato, questo corpicino sembra sprofondare in se stesso, nella propria carne; il bavaglio che si stende sotto alla testa inclinata, pericolante, mi sembra una rete per funamboli. Anche questo corpo, dunque, scivola, sfugge alla presa, ma senza intenzione, come se portasse dentro sé una pesantezza non commensurabile alle proprie dimensioni.
Eppure qualcosa regge, impedisce che tutto si disgreghi: non tanto la mano, ma lo sguardo vago e dolce della madre sembra tendersi oltre questo momento di goffaggine, oltre il quadro, come a cercare l’appiglio da cui issare all’evidenza qualcosa che semplicemente non si può dire.
La videocamera si è introdotta in famiglia facendosi sempre più piccola, compatta, maneggevole: un occhio flessibile, ma di scarsa portata, piuttosto una mano che tasta le vicinanze. I continui tentennamenti della messa a fuoco, le zoomate incerte, divaganti, insistenti, rivelano quanto questa presa sui corpi sia più essenziale di ogni descrizione o racconto.
Ma quando si esce dalle mura domestiche è facile che l’intimità tattile si sfilacci, perda la presa e allora l’immagine si apre, come un paracadute difettoso, si stende, ma non lascia respiro, nessuna profondità: lo sguardo precipita e si schianta su un orizzonte piatto. Eppure, in questa distesa sgretolata, lattiginosa, si sente ancora premere tutta la consistenza di una figurina azzurra, che resiste alla tentazione di farsi macchia, si tiene insieme nell’abbraccio materno. E quello che sembra un colpo di spatola dato all’ultimo, spalmato in un angolo, inspiegabile intruso, all’improvviso mi colpisce col suo spigolo, dritto nell’occhio.
Per quanto arrestate e incorniciate, queste immagini continuano a pulsare, a dibattersi. Nonostante tutta la linfa di smorfie, gesti, voci, respiri sia stata spillata e lasciata disseccare, esse vibrano; almeno quel tanto che serve per disperdere le mie parole, che scivolano sulla loro superficie raggelata. Una resistenza comprensibile, a fronte della violenza a cui le ho sottoposte: ho bussato insistente, molesto, sul vetro dell’acquario in cui fino a un attimo prima stavano a fluttuare beate.
Mi sembra il caso di smetterla, ora, di fronte a questo vortice leggero e squilibrato. Ancora uno sguardo negato, un occhio rifugiato, mentre sventolano mani e capelli, carne e tessuti, masse che si sfiorano e si avvolgono. Un mondo capovolto, costruito in un battito di ciglia: non può durare. E tra un attimo, infatti, crollerà tutto, tra fruscii, singhiozzi, risate. La vita riprenderà a sfaldarsi, amorevolmente.
III.
L’idea di parlare di un progetto come SPOOL commentando delle still estratte dal suo corpus, può anche essere sorta da una semplice esigenza ‘tecnica’, ma è ben presto diventata un invito a riflettere sullo statuto paradossale che assumono le immagini d’archivio in un lavoro di appropriazione come quello di Diego Marcon. Una riflessione che ha finito per avvolgersi in se stessa, commentando in fieri la propria sfida, come se l’approccio a queste immagini dovesse per forza passare da un riconoscimento del gesto stesso con cui le si avvicina, gesto riflesso nella loro non trasparenza.
Le immagini selezionate, nella maggior parte dei casi, non provengono nemmeno dalle “tape” montate da Diego, ma dagli archivi cui ha attinto per comporle. Residui di un lavoro già di per sé residuale. Ma questo importa poco ormai, perché una volta prelevate, secondo un approccio che evoca eppure si distacca da quello con cui sono montate le sequenze delle “tape”, queste still assumono ormai un’esistenza autonoma. Un’esistenza in cui al primo paradosso dell’appropriazione, che estetizza un materiale apparentemente refrattario, si aggiunge quello della posa impossibile del fermo-immagine, che le sottrae alla pulsazione del video entro cui esse vivono e rivivono. E proprio nell’intreccio di questa doppia polarità, tra materiale e montaggio, tra movimento e stasi, mi è sembrato di cogliere qualcosa, di adocchiare appena il carattere sfuggente di queste immagini: cercando di afferrarle, almeno per un attimo, per un capo della loro matassa, ho provato a parlare non tanto di loro, della loro strana presenza, quanto dei loro fantasmi, di quello che non sono più o non sono mai state. Come se tradire la loro genesi fosse l’unico modo per esser loro fedele. Non si trattava di interpretare il lavoro di Diego, quanto di provare a condividere, almeno in parte, in un’altra lingua, il desiderio che lo muove.
Il prelievo di una singola still da ore e ore di registrazioni anonime e frammentarie, nel tentativo impossibile di comprimere quella massa debordante, amplifica la posizione di ascolto che il montatore assume di fronte al materiale grezzo: l’attenzione, sospesa sopra il flusso d’immagini, piomba fulminea su una frazione di secondo appena intravista, un palpito di particelle che da un momento all’altro diventa quadro. Il frame si raggela solidificando attorno a sé la propria cornice. Se la fluidità espansiva del video tende a rimuovere dalla rappresentazione familiare lo spettro della posa fotografica, nel freeze frame lo vediamo riemergere all’improvviso, ma si tratta allora di una posa ‘impensata’, strappata all’inconscio della videocamera. Una posa inquieta, che trattiene ancora in sé il movimento interrotto, il respiro tolto all’immagine. Questo, si dirà, vale per il fermo immagine in generale. Eppure qui mi sembra di trovare un supplemento di inquietudine, che si svincola dalla superficie immobilizzata per afferrare e trattenere lo sguardo: un supplemento che si produce nel conflitto tra l’intenzione estetizzante e la resistenza dell’immagine anonima.
È una vibrazione quasi impercettibile, ma penso che sia questa a mettere in moto il desiderio, a dare un ritmo alla tentazione di sfregiare la stasi e il mutismo delle immagini con delle parole. E le parole non possono che disporsi lungo le linee di una particolare tensione: da una parte l’evidenza immediata di istanti qualunque strappati a esistenze qualunque, spogliati di ogni possibile rivelazione; dall’altra l’intuizione che proprio in questa nudità le immagini trovino un velo in cui avvolgersi e accrescere la loro potenza, che è poi la loro resistenza a dire, significare, rappresentare: il loro rifiuto di farsi immagini in senso compiuto. E forse solo ora che esse sono state acquisite, ora che hanno abbandonato i nastri smagnetizzati delle loro cassette, come radici che le intrecciavano a una certa camera, a un certo numero di vite di cui io non so nulla, solo ora è possibile sentire questa potenza, che nessuno prima aveva mai chiesto loro di sfoderare: solo un altro sguardo in un altro tempo può chiedere una simile aberrazione.