Viviamo tempi difficili. Meno di altri trascorsi in passato ma comunque difficili, in qualunque campo professionale ci si impegni, che sia il cinema o la ristorazione, l'edilizia o la manifattura. Ogni categoria lamenta lo stato di decadenza in cui versa il proprio ambito lavorativo e manifesta segnali di sconforto. Qualcuno si sforza di far sentire la propria voce, sottolineando le storture del sistema, in pochi si impegnano a proporre alternative. Molti si sono arresi, cedendo ai sacrifici imposti da un meccanismo che chiede tanto in cambio di poco, non assicura stabilità e non lascia intravedere certezze. Ci si può arrendere in due modi: sottraendosi ad esso oppure assecondandolo. Chi scrive ha tentato entrambe le vie, per poi rinunciare a perseguirle, prima una e poi l'altra, e ora si interroga sull'esistenza di una terza possibilità.

Quando abbiamo pubblicato il primo numero di questa rivista, quasi due anni fa, una considerazione fatta all'interno del testo intitolato "Tutto ciò che è solido si dissolve" aveva attirato critiche e rimproveri da parte di lettori illustri: all'interno di uno speciale proditoriamente intitolato "Il futuro è online" si dichiarava:
 
1) che un certo tipo di critica non ha più necessità di esistere perché è venuto a mancare il ruolo di mediazione richiesto tra una parte della produzione cinematografica e una parte di pubblico;
2) che la carta stampata non è più il luogo d'elezione per la circolazione delle idee e della riflessione critica intorno al cinema ed è stata soppiantata da nuove forme di comunicazione e diffusione proprie del web;
3) che tuttavia esiste un luogo in cui è lecito e più che mai necessario esercitare la critica cinematografica e che esiste tuttora un oggetto filmico che chiama in causa la critica cinematografica e i suoi strumenti.
 
Poco più avanti, si riportava un passo di Deleuze, tratto da una lettera indirizzata a Serge Daney ("C'è un cinema che non ha alcun bisogno della critica per riempire, non soltanto le sale, ma l'insieme delle sue funzioni sociali"), e riflessioni a più voci riguardanti l'esautorazione sociale della figura del critico e la perdita della sua capacità di incidere sull'esito commerciale di un film. L'idea di fondo era che, stando il palese stato comatoso in cui versano buona parte degli strumenti di diffusione culturale del passato (più o meno recente), la rete fosse sì una delle responsabili del tracollo (non certo l'unica) ma offrisse anche altri e nuovi territori di confronto, e forse di riscatto, offrendo potenzialità dagli enormi margini di miglioramento.
 
 
Il discorso è ancora aperto, la causa combattuta (in Italia molto meno di quanto sarebbe lecito), gli scontri sull'argomento rari ma puntuali. Non è il caso di tornare su quanto scritto allora, dato che nel frattempo non è accaduto niente che vada contro le tendenze evidenziate (disinteresse da parte del pubblico nei confronti della critica cinematografica, difficoltà, smarrimento e decadenza delle principali riviste cartacee, progressiva esclusione della critica dalle pagine dei quotidiani, a favore della semplice informazione, quando non del puro pettegolezzo), ma la pubblicazione di un breve saggio firmato da Luca Malavasi sulle pagine di Cineforum (n. 517), impone una risposta, anche perché in maniera sottile ma evidente chiama in causa chi, come noi, si è lanciato in un progetto di critica sul Web. Il testo, dal bel titolo "La vita analogica del critico digitale" esplicita dalle prime righe l'incertezza dell'autore riguardo il destino della critica "ai tempi del post-cinema, del Web e della rivoluzione digitale". Ma l'incertezza è solo apparente, perché nemmeno dieci righe dopo si conclude (ma seguirà dimostrazione, e quella ci interessa prendere in esame) che "non vi sia (almeno per ora) alcuna vera novità nella cultura cinematografica 'nell'epoca del Web'" e che gli entusiasmi vadano smorzati perché in rete non si fa che riproporre "logiche e pratiche ispirate alla 'tradizione' cartacea" (e già qui non si vede che male ci sarebbe, dato che quella tradizione sta andando perduta proprio sulle pagine delle riviste che dovrebbero portarla avanti). La pratica di scrittura caratterizzante la critica online viene definita "privata e ombelicale, lanciata a un lettore anonimo, indeterminato, fondamentalmente ininteressante", con manifesto sprezzo non solo di chi scrive ma anche di chi legge, e si lamenta (in maniera poco sincera, direi) la sconfitta di un approccio che non è in grado di servirsi adeguatamente degli strumenti a disposizione né di sfruttare le potenzialità delle nuove piattaforme. Malavasi invoca giustamente "un discorso critico non più fondato sulla forzata verbalizzazione e linearizzazione di immagini, movimenti e suoni, ma più vicino – in termini anche solo evocativi – alla natura dei materiali su cui si esercita il discorso critico", ma dimostra così di ignorare il fenomeno del video-saggio ampiamente esplorato sul numero precedente di filmidee, certamente ancora in una fase embrionale di sviluppo ma pienamente rivolto nella direzione indicata; stabilisce dunque che la critica online non sia che un maldestro e inadeguato tentativo di riproporre pratiche proprie della carta stampata, finendo in tal modo "per alimentar[ne] il prestigio [e] riconfermarne tutta la necessità".  Devo ammettere che mi sfugge il nesso logico, la concatenazione causa/effetto tra le due proposizioni, non fosse che poco prima si è erroneamente sostenuto il dominio assoluto e incontrastato del modello recensione all'interno di "siti dedicati, blog, riviste specializzate, eccetera" e altrove (poco dopo) un punto interrogativo mette in discussione l'afferenza semantica di qualcosa che non è cartaceo al termine rivista ("rivista?").
 
Ci sarebbe già di cui discutere a sufficienza ma si tratterebbe principalmente di confutare il mancato approfondimento del materiale a disposizione, l'analisi superficiale del campo esaminato, il pressapochismo generalizzante che liquida in poche righe ambiti differenti per esiti e intenti. Ma quel punto interrogativo appena citato ne sostiene e non nasconde uno ancora più ingombrante, rivolto proprio a testate (mettiamola così, se "rivista" non è gradita) "incollocabili ma sofisticatissime", dalla "periodicità vaghissima" e "nate con la presunzione di salvare la cinefilia (quale cinefilia?) e poi trasformatesi immediatamente nel progetto di un'oasi già vecchia come la Utopia di Mary McCarthy". Parlo per me e per filmidee, che l'accusa è vaga quanto a destinatari: mi sento di concedere accordo a Malavasi sull'accusa di presunzione, ma su tutto il resto no. Non c'è alcunché di utopico in quello che si fa su queste pagine (pagine?) ma si hanno le idee molto chiare sulla linea editoriale (editoriale?) che vi sta dietro: l'idea che non si possa più parlare di cinema senza affrontare le trasformazioni in atto che lo investono sotto molteplici fronti (non solo quello critico, dunque, ma anche a livello di fruizione, produzione, distribuzione, etc). Linea editoriale che faccio molta fatica a riconoscere in altre pubblicazioni (senza punto interrogativo) e sulla quale mi piacerebbe essere edotto (a cominciare dalla rivista di lunga data su cui l'articolo è pubblicato), così come mi piacerebbe che quando si parla di filmidee se ne facesse il nome, visto che una schermata della homepage campeggia bellamente al principio dell'articolo (seconda pagina dello stesso, per l'esattezza), e visto che le altre pubblicazioni che vedono Malavasi tra gli autori sono citate per esteso, inclusa la prematuramente defunta edizione italiana di Total Film. Insomma: si parteggia per l'arrivo sul mercato italiano di un nuovo mensile di cinema mainstream (senza punto interrogativo), potenziale competitore di Ciak, Bestmovie e Empire ma si relegano all'anonimato, La Furia Umana, Uzak, Rapporto Confidenziale, Mediacritica, pubblicazioni (?) tra loro ben più distinte di quanto non lo siano le summenzionate riviste. 
 
Ma andiamo avanti. In "Tutto ciò che è solido si dissolve" avevamo evidenziato i problemi legati alla sciattezza della scrittura critica che domina blog e forum di discussione, e Malavasi pone la questione nuovamente al centro, accusando il Web di averle "tolto peso e consistenza", dimenticando però che la malattia degenerativa di cui parla ha da tempo contagiato anche la carta stampata e persino la letteratura, e facendo finta di non sapere che ben diversa è la scrittura utilizzata da un "movie geek" sul suo blog personale rispetto a quella di cui si serve una qualsiasi della firme presenti su questa testata (il cui lavoro è sottoposto – ebbene sì – anche a uno scrutinio redazionale). E sarebbe bene che si accettasse una volta per tutte che c'è chi non piange (o ha smesso di piangere) l'esilio tipografico: il mio testo compare qui per scelta e non perché non trova spazio altrove. La critica online non è l'ultima spiaggia, Malavasi: la critica online è un'imbarcazione in balia delle onde, questo sì, ma non sprovvista di timonieri. 
 
 
I miei appunti al testo pubblicato su Cineforum irriteranno alcuni (o forse molti), allo stesso modo in cui mi irrita il disfattismo imperante e il cinismo, a volte solo provocatorio, di coloro che, forse affaticati o stanchi, hanno abdicato a uno dei ruoli preminenti della critica: indagare le nuove trasformazioni dell'arte cinematografica, che se anche ha perso, o sta perdendo (ma ne siamo sicuri?) la sua centralità all'interno dell'immaginario collettivo, non ha perso la propria istanza rigeneratrice, la capacità di rinnovare se stessa attraverso le mutazioni tecnologiche cui è costantemente sottoposta. Come una fenice, il cinema (è Storia) risorge sempre dalle proprie ceneri: a chi ne scrive la scelta se occuparsi delle ceneri o del risorto. Guardare indietro produce un confortevole senso di sicurezza, persino quando si indaga territori inesplorati; scrutare avanti implica un'incertezza, un accettazione di rischio che necessità di un pizzico di temerarietà. C'è differenza tra essere uno storico del cinema e fare il critico: i primi non vanno ai festival, ad esempio. Con buona pace di Arthur Penn e Filippo Sacchi (per stare ai nomi citati da Malavasi) la battaglia del critico di oggi si gioca su altri nomi, e prendersela con i più giovani che non li conoscono (o li conoscono poco) è bullismo da liceali. Sarebbe meglio piuttosto mettere in discussione l'istruzione e la maniera in cui il cinema viene insegnato nelle scuole, perché coloro contro i quali si scaglia l'accusa ne sono le vittime. 
 
Un'ultima cosa: capita spesso di leggere, in testi come quello scritto da Malavasi, dei cosiddetti "entusiasti del digitale". Sono coloro che sposano con baldanza le possibilità offerte dalla rete, godono del fatto di potervi recuperare film introvabili (una delle poche qualità riconosciute al Web nell'articolo di Cineforum), gioiscono della disponibilità e dello scambio di idee con colleghi di ogni parte del mondo, non disdegnano di vedere i loro scritti comparire sullo schermo di un computer. Quelli che non si vogliono tagliare le vene perché non esistono più Cinema Nuovo o Cinema & Film, insomma. Ma "entusiasti", nell'accezione di chi si serve di questo appellativo, possiede sempre una peculiare connotazione negativa, come se l'accusatore fissasse i presunti colpevoli con occhio cereo, per dire "cosa ca##o avete da ridere?". 
Colpevoli di entusiasmo. Ebbene sì, lo siamo, perché se non fossimo entusiasti di fare quello che facciamo come lo facciamo faremmo altro.
Consiglio di aggiustare meglio il tiro, la prossima volta, e di cercare alibi altrove se si intende denunciare una disfatta. 
 
Qui il cinema non è morto.