Il quesito solitamente posto dalla visione di un film di Wong Kar-wai è ricorrente: inseguire le deviazioni di una narrazione spesso frammentaria e randomica o curare solo la ricerca del Bello in ogni sua forma? Uccidere i generi per elevare la poetica dell'autore e il suo microcosmo personale esteso a macrocosmo universale oppure concentrarsi sul significato recondito di frasi esistenziali e gesti epici? La realtà dell'osservazione e del giudizio si scontra sempre più duramente con la realtà di Wong Kar-wai, quella osservata attraverso la lente deformante dell'Autore. Avviene qualcosa di simile con Lynch, specie con quello di Inland Empire, ma a rendere ancor più criptico l'enigma, in Wong, contribuisce la sua incompiutezza; voluta, insistentemente cercata, come cifra stilistica in una narrazione che pare seguire le volute di fumo da troppi oppiacei, ma allo stesso tempo causata dalle circostanze, da deadline mai rispettate, da progetti protratti così a lungo da smarrire l'intento iniziale e disperderlo in mille rivoli affascinanti, all'insegna del “come sarebbe stato se”. The Grandmaster inganna già dal titolo, che fu The Grandmasters prima di smarrire l'accezione plurale nell'etichetta e di ingigantirla nella sostanza, svuotando di significato l'oggetto di una falsa biografia (tra la voice over dell'introduzione e il silenzio che domina l'epilogo c'è tutta la differenza tra quanto atteso e quanto concluso, tra posticcio biopic e annullamento del medesimo in fieri), il maestro Ip Man, in favore di una costellazione di altri “maestri” e di altrettante sfaccettature dell'arte marziale come via privilegiata all'interpretazione dell'esistenza.