In un articolo scritto per il New York Times in occasione del centenario dell’invenzione del cinema, Susan Sontag lamentava la morte della cinefilia per come lei e altri intellettuali della sua generazione l’avevano conosciuta. “Ogni arte sviluppa i suoi fanatici – diceva la Sontag – ma l’amore che ispirava il cinema era speciale”, un tipo di mistica religiosa che portava i suoi “apostoli” a studiare in profondità certi film e a sostenere per essi vere e proprie “crociate”. Qualunque sia stato il suo destino nei quasi vent’anni che separano l’articolo della Sontag dal film di Rodney Ascher, Room 237, la cinefilia potrà anche essere morta, ma di certo non lo sono i suoi fanatici. Ovunque ci abbiano portato l’era dei blogger e di YouTube, l’atomizzazione dei saperi e lo sdoganamento di ogni tipo di piacere più o meno colpevole, la venerazione maniacale per certi capolavori del passato è rimasta pratica bizzarra, anacronistica e orgogliosamente snob, ma non si è certamente estinta. Anzi.

 
Room 237 racconta essenzialmente questa “alba dei morti viventi” della cinefilia, questo eterno ritorno dell’interpretazione appassionata e morbosa dei film a partire da Shining, forse il più oscuro ed ermetico dei film di uno dei registi più oscuri ed ermetici della storia del cinema. Forse perfino più di 2001, che nel suo sconfinato progetto di ricerca filosofica e filogenetica sembra tutto sommato lasciare meno margini di ambiguità. A partire da una serie di interviste con sei studiosi folgorati dal film di Kubrick, Room 237 ripercorre e asseconda tutte le letture (im)possibili di Shining. Nell’ordine: una grande metafora dell’eccidio dei nativi americani; un racconto abitato dagli spettri dell’Olocausto e della soluzione finale hitleriana; un’espiazione di Kubrick per il fatto di aver partecipato alla messa in scena dell’allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969; infine una straordinaria opera di videoarte capace di generare nuovi significati arcani sovrapponendo fotogrammi che procedono in avanti a fotogrammi che corrono all’indietro a partire dai titoli di coda.
 
Non è la solidità delle ipotesi a costruire il film, ovviamente, quanto la loro stessa condizione di possibilità. Fin dal principio, cercando di scorgere immagini subliminali fra le nuvole del Colorado o nelle tappezzerie dell’Overlook Hotel, si prova una certa frustrazione a meno di avere una certa attitudine per le teorie cospirative. E tuttavia, passo dopo passo, si resta completamente assorbiti dall’indagine di Ascher, man mano che questa si rivela essere sempre meno inchiesta e sempre più come un rituale per resuscitare i demoni della cinefilia.
 
Il fatto che questo rituale si consumi all’interno di un dedalo di suggestioni e riferimenti enigmatici come Shining, non fa che aumentare il suo effetto perturbante. In contrasto con un’altra nota visione della Sontag, Room 237 sembra suggerire continuamente che le interpretazioni ossessive e paranoiche dei suoi intervistati costituiscono tanto un’ermeneutica, un esercizio intellettuale e analitico, quanto un’erotica dell’arte, un’affezione mistica e sensuale per i film. Quest’ultima in particolare si costruisce attraverso il modo in cui Ascher intesse l’immaginario kubrickiano con quello dei b-movies degli anni Ottanta e dell’età d’oro del VHS. Se la fissazione di Kubrick per l’immagine sonora viene sviscerata e perfino riverberata dal fatto che i sei intervistati non sono presenti se non come voci registrate, anche le teorie di questi eccentrici analisti trovano a loro volta un accurato contrappunto visivo. È la capacità di dominare il flusso del film, di interromperlo, rallentarlo e riavvolgerlo introdotta dalla diffusione domestica dei videoregistratori a dettare l’esistenza e le condizioni di visibilità delle varie interpretazioni. Altrove, l’idea di commutarlo con altri film di Kubrick (le locandine di Shining e di Elephant Man insertate all’interno di un’inquadratura di Eyes Wide Shut) o con altri horror meno “nobili” dello stesso decennio come Creepshow di Romero o Dèmoni di Lamberto Bava, non fa che giocare con questa idea di palingenesi della cinefilia, adattandola alla cultura della rete che permette di leggere, studiare e approfondire significati e riferimenti di un film fino a renderli magnifica ossessione.
 
Fra le letture più interessanti proposte dal film, c’è quella che vede Shining come un monito verso il passato: un racconto di fantasmi che insegna come sia impossibile liberarsi dal peso della storia. In questo senso, quello che sembra dirci Room 237 è che ognuno dei processi ermeneutici è a propria volta una storia di fantasmi: la ricostruzione delle tracce meno evidenti che il passato (quello delle immagini dei grandi film) ha lasciato e che la leggenda ha contribuito a tenere in vita, a vagare per le stanze della nostra memoria dei film. Fino a resuscitare la cinefilia come cinefollia.
 
 
Room 237, regia di Rodney Ascher, USA 2012, 102'.