Vimukthi Jayasundara, regista dello Sri Lanka in questo momento nelle sale francesi con Chatrak, il suo lungometraggio più recente, fonda l'intero suo cinema sull'indeterminatezza. Indeterminatezza tra “civiltà” e mondo primordiale, natura (o giungla) e città, istinto e ragione, guerra e pacificazione, fiaba e realtà, mito e verità, racconto scritto e orale, documentario e fiction, video installazione d'arte contemporanea e cinema neorealista, simbolismo (giungla = inconscio-dedalo) e prosaicità. Su due sole cose i suoi film non sono mai indeterminati, anzi sono assolutisti: una fede, etica e umanista insieme, nell'uomo, e una fede altrettanto grande nelle possibilità multiformi del cinema. Questo cinema è un indiretto atto d'accusa contro i tristi oscurantisti come l'ex Papa Ratzinger: se nel cinema di Jayasundhara ad esempio i racconti orali (si veda il suo secondo lungometraggio, Between Two Worlds) possono avere varianti infinite e i comportamenti umani sono intrinsecamente ambigui, la vera forza dell'amore sta nell'accettazione delle contraddizioni intrinseche al mondo reale, nell'accettazione del relativismo in quanto ricchezza della vita, e accesso alla Verità. La quale non può non essere multiforme. Un esplorazione della dualità, un attraversamento di mondi (im)possibili, sempre sulla “frontiera” (tema dominante anche in Chatrak), dai toni spesso prossimi alle antiche parabole (tanto cristiane che indiane, o altro). Ma nella forma plastica del cinema di un giovane cineasta come Jayasundara, classe 1977, fratello spirituale del tailandese Apichatpong Weerasethakul, dalla regia alla fotografia si percepisce una gioia nei confronti dell'immagine e del mondo, fusi in una cosa sola. Da Between Two Worlds, presentato in concorso a Venezia nel 2009 e finora suo capolavoro, al meraviglioso corto dedicato al padre presentato a Locarno nel 2012, passando per la trasferta indiana di Chatrak (e di cui abbiamo già parlato su Filmidee al momento della sua presentazione a Cannes alla Quinzaine), filmicamente aereo, fino allo splendido esordio di The Forsaken Land (Camera d'Or a Cannes nel 2005), pervaso dalle ombre inquiete della guerra civile, a manifestarsi è sempre una sorta di spiritualità potentemente immaginifica. Come in Between Two Worlds quell'ampia panoramica su una vallata con lago e montagne sullo sfondo che rivela un senso della pittoricità nel rappresentare scenari primordiali prossimo a quello di Kurosawa: una camionetta che scende lungo quella vallata esce fuori strada e cade nell'acqua. Un anziano sorto nudo dalle acque nega al protagonista l'evento che si è appena prodotto, pur confermando che si è verificato in passato. Un perfetto micro-manifesto dell'indeterminatezza.