A Vlado Škafar interessano i sentimenti più basilari, quelli che sorreggono la vita di tutti i giorni ai quali di solito non facciamo nemmeno più attenzione. L'amore, l'amicizia, la paura della morte, il passare del tempo, sono svelati nei film di Škafar, come fossero poggiati delicatamente su un prato, la mattina presto in una delle tante primavere che lentamente si succedono. E proprio la lentezza è una delle caratteristiche del cinema di Škafar. Una lentezza che tende a privilegiare il tempo del sentimento, della riflessione più che quello abituale dell'azione. Uno scolpire il tempo, nel quale la sua cinepresa è sempre volontariamente in ritardo, è ciò gli permette di indugiare sulle lievi sfumature del volto, del vibrare della luce, dopo che è passata la tempesta di un'azione. Un approccio apparentemente anticinematografico, più da attento romanziere che non si cura della “volgarità” dell'azione ma si concentra sui riverberi che questa smuove nell'anima degli eroi e della natura. Nonostante ciò, il tutto risulta estremamente vivo, immediato. Ciò gli riesce per la peculiarità del suo cinema, a metà, tra spontaneità della documentazione e accurata messa in scena, nella quale tende a sfruttare tutte le possibilità affabulatorie del cinema. Nel corso del tempo i suoi film sono passati dalla forma di romanzo di formazione, quando ha seguito per un anno il campione sloveno di salto in lungo Peterka in Leto odlocitve, a Otroci (Bambini), dove le voci tenere degli adolescenti si mischiano con quelle dure degli adulti e con quelle atone degli anziani in una progressione che si fa carosello: terribile e delicato come la vita. Con Oča (Padre) e sopratutto con L'albero e la fanciulla il suo modo di narrare si fa più libero e si accosta al modello della novella breve, dove digressioni, spazi di lirismo frammentano il procedere compassato di una storia che fluisce liberamente, apparentemente senza un preciso canovaccio.