A Vlado Škafar interessano i sentimenti più basilari, quelli che sorreggono la vita di tutti i giorni ai quali di solito non facciamo nemmeno più attenzione. L'amore, l'amicizia, la paura della morte, il passare del tempo, sono svelati nei film di Škafar, come fossero poggiati delicatamente su un prato, la mattina presto in una delle tante primavere che lentamente si succedono. E proprio la lentezza è una delle caratteristiche del cinema di Škafar. Una lentezza che tende a privilegiare il tempo del sentimento, della riflessione più che quello abituale dell'azione. Uno scolpire il tempo, nel quale la sua cinepresa è sempre volontariamente in ritardo, è ciò gli permette di indugiare sulle lievi sfumature del volto, del vibrare della luce, dopo che è passata la tempesta di un'azione. Un approccio apparentemente anticinematografico, più da attento romanziere che non si cura della “volgarità” dell'azione ma si concentra sui riverberi che questa smuove nell'anima degli eroi e della natura. Nonostante ciò, il tutto risulta estremamente vivo, immediato. Ciò gli riesce per la peculiarità del suo cinema, a metà, tra spontaneità della documentazione e accurata messa in scena, nella quale tende a sfruttare tutte le possibilità affabulatorie del cinema. Nel corso del tempo i suoi film sono passati dalla forma di romanzo di formazione, quando ha seguito per un anno il campione sloveno di salto in lungo Peterka in Leto odlocitve, a Otroci (Bambini), dove le voci tenere degli adolescenti si mischiano con quelle dure degli adulti e con quelle atone degli anziani in una progressione che si fa carosello: terribile e delicato come la vita. Con Oča (Padre) e sopratutto con L'albero e la fanciulla il suo modo di narrare si fa più libero e si accosta al modello della novella breve, dove digressioni, spazi di lirismo frammentano il procedere compassato di una storia che fluisce liberamente, apparentemente senza un preciso canovaccio. 

L'albero e la fanciulla è innanzitutto un atto d'amore verso due grandi attrici del teatro e del cinema sloveno Štefka Drolc e Ivanka Mežan. Le due attrici si confessano, conversano liberamente, sul incapacità di vivere, divise tra la cura dei figli, degli amori, e la passione che gli trascinava sul palcoscenico. Si vive nella contraddizione, tra vita e palcoscenico, tra intimità e società. È una ferita non marginabile che le due attrici guardano da prospettive opposte (pessimista l'una, più propositiva e ironica l'altra). Entrambe però felici che ci sia qualcun altro con il quale condividere questo dolore, che così, fa meno paura, assume connotati più umani, quasi civili. In sottofondo però si annida sempre il tema della morte, l'orrore della fine, la fragilità di esseri che si dissolveranno come in una delle tante dissolvenze cinematografiche che caratterizza lo stile del regista sloveno: ognuna lascia spazio al vero attore del film, la natura e il tempo che con i suoi mutamenti assurge a vera costante della Storia. Una storia raccontata attraverso i colori della natura, colti nella luminosità e nelle sfumature del pastello.
 
La poetica di Škafar denota una forza, che è quella di un respiro. I suoi protagonisti sono sì persone consapevoli, che riflettono, ma sono anche esseri che riescono ancora a meravigliarsi di esserci, che riescono ancora a riconoscere la bellezza della natura, che riescono ancora a gustare il momento (e qui è centrale l'afflato documentario che restituisce un'innata freschezza a scene che altrimenti apparirebbero  saturate dalla ripetizione, del senso del già visto). Come in un film di Bergman, i suoi protagonisti sono spesso collocati fuori dalle maglie della civiltà. Quello che vivono, per la durata del film, è un intervallo della vita, che in controluce coglie le sfumature del mondo di qui, ma che tenta sopratutto di mettere in scena ciò che di umano e sincero è rimasto.
 
Škafer è lontano da qualsiasi moda. Non partecipa al festival dello sfacelo, che si compiace della disintegrazione dell'uomo, con il pretesto di analizzare. Škafer è vicino, partecipa al destino crudele di tutti i suoi eroi. In un'epoca iper-connessa, Vlado focalizza la sua attenzione sull'intimità che nasce solo dalla distanza, solo dalla lentezza che permette di percepire il suono lieve di un respiro, una poetica dello sguardo che vuole farsi umano. Sembra quasi una contraddizione, ma oggi è uno sforzo riacquistare uno sguardo veramente umano, che riesce a disinnescare il dispositivo tecnologico, o quello ancora peggiore dell'informazione attraverso il quale sorvoliamo sul reale. Attraverso i piccoli gesti della quotidianità, come in Ozu (regista molto amato da Škafer), si entra in un mondo che sembra ormai alieno, ed è quello umano. Impregnato di consapevolezza, sentimento ma anche di autoironia. Fatto di creature piccole fragili e passeggere, che lasciano comunque un segno anche minuscolo come un fiocco sul ramo di un albero, che prolungherà il loro ricordo almeno per qualche inverno ed estate in più. In lontananza il rumore della neve, il biancore del nulla. 
 
L'albero e la fanciulla di Vlado Škafar (Deklica in drevo), Slovenia 2012, 83min.