Vuole la leggenda che Jean-Pierre Melville abbia dovuto faticare non poco per convincere Vercors, l'autore di Le silence de la mer, della possibilità di trarne un soggetto cinematografico: “Vercors […] giudicava orribile l'idea di trarre un film da un racconto che durante la guerra era stato per tanta gente un livre de chevet, una specie di bibbia commovente e ammirevole” (1). Oltre sessant'anni dopo, altrettanta fatica deve fare il critico cinematografico che debba confrontarsi con il primo lungometraggio di Melville, a sua volta divenuto un testo “sacro” per diverse generazioni di cinefili e registi. Non è difficile comprenderne il motivo. Gli ingredienti per il Mito, in fondo, ci sono tutti: la lavorazione travagliata e a basso costo; l'ostruzionismo dell'establishment (cinematografico e non); la spregiudicatezza stilistica, nella quale lo sperimentalismo delle trovate visive si combina con il rigore della messa in scena; l'inaspettato successo di pubblico (2). A dare il tocco finale ci hanno pensato poi i “giovani turchi” dei Cahiers, che proprio grazie a questo film, insieme al successivo Bob il giocatore (1955), fecero di Melville uno dei propri registi-feticcio (3).