Potrebbe essere ambientato in qualsiasi luogo del mondo il nuovo film di Martina Parenti e Massimo D'Anolfi: quasi una sfida andare a girare in una delle terre più caratterizzate d'Italia, la Sardegna, e uscirne con un film universale e avveniristico, che trova il suo fulcro in una profonda riflessione sul cinema e sul potere dello sguardo.
Dopo due viaggi nei meandri della società italiana (I promossi sposi e Grandi speranze), il cinema della coppia di documentaristi si sta spostando verso l'indagine di un luogo non più geografico ma simbolico, una mappatura di spazi significanti dell'immaginario contemporaneo, dall'aeroporto de Il castello alla base militare di Materia oscura, che nel dispiegare il loro funzionamento rivelano i meccanismi odierni del controllo e della distruzione. Se già la fortezza-Malpensa aveva offerto un'interessante allegoria della prigione della società (o, ancora, dell'inesorabile scorrere del tempo?) sull'esistenza umana, in Materia oscura la fortezza, in quanto Poligono militare di Quirra, è inespugnabile, visibile solo attraverso le tracce che ha lasciato. E proprio questi segni, impronte di fenomeni poco tangibili, sono ricercati dallo sguardo attento e lucido di D'Anolfi e Parenti, che scelgono di lasciare da parte gli artefici e le cause, per seguirne gli effetti su una natura selvaggia e irredenta, che soffre e si rivolta in masse di terra brulla, che si ritira tra le macerie di ordigni e macchinari abbandonati per poi risollevarsi sotto la luce rigenerante del sole, che continua incurante la sua vita atavica fino ad essere spezzata da un male innominabile e inspiegabile, capace di indebolire un vitello prima che possa diventare adulto.
Ecco che la presenza ingombrante della base militare ha a che fare con la vita e la morte: non con le strategie o le alleanze, non con la tecnologia e la scienza, solo con la continuazione dell'esistenza o con la sua fine. Ed è per questo che il filtro attraverso cui poter espugnare la fortezza è il cinema: arte che ha profondamente a che fare con la “materia oscura” che offre il titolo all'opera. I filmati militari, accatastati in pile di bobine sviluppate e conservate, sono l'impronta di una teoria di sperimentazioni che dal 1956 a oggi hanno avuto Quirra come indifeso scenario. Sono le tracce di un paesaggio brutalmente cambiato, di un cielo attraversato da continue scie cancerogene, ma anche testimonianza di uno sguardo affascinato dai congegni militari: svelati da portelloni meccanici, esaltati nelle loro forme slanciate e dinamiche, rappresentati nel tripudio di prestazioni perfette e terribili. Certo all'innocente propaganda dei primi filmati (in cui compaiono contadini ancora in costume stupiti dalla grandezza delle forze armate e bambini con palloncini rossi che rimandano alla simulazione – ludica? – della guerra operata dagli adulti), si sostituisce la volontà di documentazione, capace per un attimo di sotterrare gli entusiasmi per poi farli riaffiorare in voci fuori campo che commentano un test, pericolosamente associabile al dispositivo del videogioco. L'immagine ha ingoiato il reale, ponendosi non più come riflesso, deviato o esaltato, della prova della guerra, ma bensì sostituendosi alle buche lasciate dai missili nella somma di indici e traguardi ben focalizzati dall'adeguato punto di vista.
Ma per D'Anolfi e Parenti la portata dell'immagine documentaria ha tutta un'altra valenza, lontana dalla forza totalizzatrice del simulacro: di fronte alla superficie di un quadro che imprigiona zone morte e zone resistenti, lo sguardo si libera nel restituire la giusta dignità a chi in maniera semplice si trova a combattere per la vita del proprio bestiame. Il vecchio contadino che tiene fra le braccia il suo vitello morente, ripreso in un lungo piano fisso, ci accompagna verso un trapasso che libera il tempo dell'immagine, trasformandolo in cinema.