Da qualche anno a questa parte, almeno da quando il sistema dei festival ha cominciato a mutare, con Toronto infilatasi nella triade europea Cannes-Venezia-Berlino, con la crisi che ha ridefinito tempi di realizzazione e strategie distributive dei film e soprattutto con le major che hanno smesso di considerare i festival rampe di lancio per i loro prodotti, preferendo anteprime mirate o manifestazioni minori ma meglio collocate (vedi festival di New York o Londra, piccoli piccoli ma impreziositi da qualche titolo da prima pagina), da qualche anno a questa parte, si diceva, la Berlinale non è più quella di una volta. Non è più il festival che può contare sulle anteprime mondiali dei film più attesi dell’anno, che può vantare divi e tappeti rossi imballati di fotografi, che si guadagna ogni sera il passaggio al tg delle otto. Nell’era della globalizzazione, non riuscendo a tenere testa a chi nel resto del mondo arrivava prima, o meglio, Berlino per sopravvivere ha dovuto paradossalmente localizzarsi: accettare, cioè, di non occupare un posto di primissimo piano nel sistema dei festival e proseguire senza troppi patemi sulla propria strada. Che per la precisione significa un festival che presenta centinaia di film soprattutto al proprio pubblico metropolitano – giovane, colto, benestante, interessato e medio – e, almeno questa è la sensazione, solo in un secondo momento a giornalisti, professionisti del settore e cinefili accreditati.