Impossibile resistere alla potenza di Leviathan, dalla forza di immagini che investono lo spettatore e lo risucchiano dentro uno scolo fognario per catapultarlo in un contesto materico instabile e pericolante, fatto di squame e frattaglie, schegge e liquami. Ecco il vero film in 3D dell'anno passato: un'opera che non finge la tridimensionalità ma la trova nella frenesia vorticante delle riprese, solo apparentemente lasciate in balia delle forze naturali. Si finisce gettati tra i marosi, investiti da correnti di stelle marine, scaricati sul ponte da reti colme di pesci, a ondeggiare in cambusa con occhi radenti al suolo, dietro le zampe di un gabbiano a caccia di cibo. Si perde la propria voce nel frastuono degli scrosci marini e del cigolare metallico dei tiranti, privi di ormeggio ed equilibrio, distanti da ogni riferimento terrestre.
Dall'agosto del 2012 il film di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor ha fatto il giro del mondo, transitando di recente anche da Berlino, dove i due registi ne hanno proposto una versione installativa, "expanded", dopo aver scoperto che tra i fotogrammi del film si annidavano "fantasmi, ombre di cose non viste". Nella conversazione che segue, intrapresa inizialmente a Locarno e proseguita poi via mail, abbiamo indagato motivazioni e modalità realizzative di un'opera che rappresenta senza ombra di dubbio una pietra miliare del documentario contemporaneo, un film che sfugge qualunque categorizzazione e reca sotto l'apparente formalismo una visione del mondo (e del cinema) lucida e complessa. Una prova di resistenza, di sopravvivenza, che coinvolge il corpo tanto quanto lo sguardo, demistificando la vita in mare una volta per tutte: stritolati dal sistema, gli individui perdono la loro consistenza umana e finiscono inghiottiti in un universo lovecraftiano dove è persa ogni possibilità di dominio, e in cui qualcosa di molto più grande, più forte, li governa.
Com'è nato il progetto? L'idea di partenza era distante dal risultato finale?
Lucien Castaing-Taylor: Abbiamo entrambi famiglie che hanno in qualche modo a che fare con la pesca, il mare e la navigazione, e volevamo fare un film che ci toccasse da vicino ma anche che ci stringesse ad allontanarci da casa nostra, a Boston. Era necessario che presupponesse un'osservazione e una ricerca etnografica partecipativa intensa e di lunga durata, così abbiamo scelto il porto di New Bedford, a poco più di un'ora da Boston, la mitica città di Moby Dick, un tempo capitale mondiale della pesca alla balena e tuttora il più grande porto per la pesca negli Stati Uniti, nonostante abbia attraversato e stia attraversando periodi molto difficili, a causa del declino dell'industria peschiera e tessile. Abbiamo effettuato riprese per sei mesi, dentro e fuori dal porto, ma appena abbiamo cominciato a uscire sui pescherecci fino alla George's Bank, a circa duecento miglia dalla costa, in spedizioni che potevano durare anche due o tre settimane, abbiamo subito capito che la vita in mare ci interessava molto più di quella a terra. Si trattava di qualcosa con la quale avevamo molta meno familiarità, ecco perché abbiamo deciso che il film avrebbe riguardato solo la parte marina e che non si sarebbe mai dovuta vedere la terra, e anche che dovesse essere scuro, così che gli spettatori perdessero il loro orientamento quotidiano, allo stesso modo dei pescatori a bordo.
Ma quando avete capito che non vi interessava nemmeno mostrare i diversi punti di vista dei pescatori? Da un tema come questo ci si sarebbe potuti aspettare che il film riguardasse quello che essi fanno a bordo, il ché naturalmente sarebbe stata la cosa più semplice da fare…
Véréna Paravel: Così come abbiamo deciso di non mostrare mai la terra, per concentrarci allo stesso tempo sul microcosmo della barca e sul macrocosmo di tutto ciò che la circondava, abbiamo anche deciso di relativizzare e metamorfosizzare il ruolo rivestito dai singoli attori umani e situarli in una più ampia ecologia cosmica in cui prendono il proprio, umile posto in mezzo a tutti gli altri elementi. Credo che la pesca sia l'attività più filmata e "romanticizzata" dall'invenzione della fotografia in avanti. E questo ha fatto sì che si producesse una rappresentazione molto limitata e distorta del coinvolgimento umano in mare, rappresentazione contro la quale abbiamo opposto una forte resistenza. Il mare, l'aria, i pesci, i crostacei, le macchine e la barca sono costituenti importanti di quest'ecosfera allo stesso modo dell'umanità, e abbiamo lottato perché il film riflettesse questa coesistenza.
LCC: In generale, comunque, preferiamo intraprendere un lavoro senza avere una chiara idea in mente di quello che faremo o di ciò che troveremo. Non ci portiamo dietro soggetti o sceneggiature, ci bastano le idee ma quelle che alla fine funzionano sono in frutto della nostra esperienza del mondo, o di ciò che vediamo attraverso la macchina da presa. Anche perché non ci interessa fare film per "dire qualcosa", preferiamo lasciare un margine di incertezza, uno spazio aperto al caso, all'accidente anche brutale, qualcosa che fugga il nostro controllo e le nostre intenzioni, imposizioni.
E per quanto riguarda le modalità di ripresa: siete partiti fin dall'inizio decisi ad utilizzare le GoPro?
LCC: No, in principio avevamo molte macchine diverse a disposizione, comprese quelle più grandi e convenzionali (le EX1 e EX3). Ma durante il viaggio ci sono finite in mare, così siamo passati a quelle più piccole.
VP: A parte le macchine non abbiamo perso granché, ad ogni modo, perché riguardavano riprese della terraferma, che non avremmo comunque utilizzato.
LCC: La vera differenza tra le macchine HD e le GoPro non ha tanto a che fare con la qualità, perché ritengo l'estrema risoluzione delle HD estremamente irreale, e anche se la profondità di campo è maggiore questa non esclude una sorta di piattezza, mentre le GoPro possiedono una specificità cinematica superiore, l'immagine che producono è più vicina a quella della pellicola che a quella del video: il rumore, l'astrazione e la figuratività che (producono) ricorda la grana della pellicola, il caratteristico realismo astratto della macchina da presa.
VP: In ogni caso ci teniamo a sconfessare la prospettiva tecnologica secondo la quale non ci sia stata alcuna direzione registica nelle riprese, come se queste fossero frutto di un atto puramente meccanicistico e bastasse posizionare le videocamere da qualche parte e lasciare che facciano il lavoro al posto tuo. Delle 130 inquadrature che compongono il film solo 4 sono realizzate senza che fossero legate o tenute al nostro corpo o a quello dei pescatori. Le riprese a filo d'acqua sono state realizzate con le GoPro attaccate a dei bastoni tenuti da noi. In quel caso, evidentemente, non avevamo un viewfinder attraverso il quale guardare ciò che veniva ripreso, ma lo immaginavamo, e rispondevamo fisicamente allo stimolo esterno reggendo il bastone.
Nel caso delle riprese effettuate dai pescatori, avete dato loro informazioni o direttive nella loro veste di "operatori"?
LCC: No. Volevamo che ad emergere fosse la loro visione del mondo – così come in altri momenti ci interessava ricercare quella del pesce. Non volevamo né farli diventare operatori né intendevamo fosse necessario o lecito condividere con loro l'autorialità del lavoro.
VP: Bisogna pensare che la loro preoccupazione primaria è sempre e comunque quella di sopravvivere al viaggio: in ogni occasione potrebbero venire scaraventati giù dalla barca e ritrovarsi in mare aperto, tra le onde. Non hanno avuto modo di pensare a quello che filmavano, e ciò corrispondeva esattamente a una nostra intenzione, perché rappresenta la vera forza delle immagini, il loro carattere più viscerale.
LCC: Leviathan è un gesto, una reazione fisica ed emotiva a una precisa condizione ed esperienza, potremo dire la traduzione estetica di una crisi epilettica.
Possiamo dire che il luogo in cui avete effettuato le riprese abbia determinato radicalmente la forma del film?
VP: Assolutamente. Eravamo più interessati nel flusso e nella fluidità che nella fissità e nella stasi, che sono invariabilmente delle illusioni. Forse non ci si fa subito caso ma le inquadrature sono poche e molto lunghe: la mobilità estrema dell'immagine fa sì che la percezione sia quella di un'illusione di montaggio.
Come avete lavorato al sonoro?
VP: Come nel caso dell'immagine anche per il suono è successo qualcosa di simile: inizialmente abbiamo registrato ore e ore con una strumentazione più professionale, ma quando siamo passati alle GoPro il risultato era molto più intenso, quasi disturbante, specialmente quando erano all'interno dei rivestimenti di plastica. Probabilmente, molti avrebbero scartato un audio di quel tipo, ma è come in Film socialisme di Godard: le scene sulla barca sono rumorose ma c'è anche qualcosa di estremamente sensuale in quel tipo di sonoro.
Nel film c'è una sostanziale assenza di dialoghi. Si ha l'impressione che a bordo nessuno parli mai.
VP: In realtà a bordo si crea una forma di intimità molto forte, non solo tra gli uomini ma anche con la natura, il mare e tutti gli altri elementi. Ma si tratta di un'intimità, di una relazione che non viene espressa a parole – credo che in ogni caso l'intimità non venga mai espressa attraverso il linguaggio. Dall'intimità che stabiliscono i componenti dell'equipaggio a bordo dipende anche la loro sopravvivenza, perché se non lavorano collettivamente come una squadra mettono a repentaglio la propria vita e quella degli altri. Si tratta di mansioni ripetitive ma ognuno conosce quelle degli altri e in qualche modo le anticipa. Il lavoro che fanno è molto pericoloso ed è necessaria una grande fiducia reciproca.
LCC: Anche se si parlano poco, gli incidenti capitano proprio a causa di una scarsa comunicazione, una comunicazione che passa attraverso un continuo scambio di sguardi.
Sia Leviathan che Foreign Parts sono co-diretti. Non è una cosa che in molti cineasti scelgono di fare: come avete organizzato il lavoro a bordo? In che modo avete suddiviso le competenze?
VP: Più che altro abbiamo suddiviso le nostre incompetenze… in maniera organica, casuale e non pianificata. Ci siamo buttati nella mischia insieme, vomitando, rompendoci la schiena, precipitando in acqua, cucinando per l'equipaggio, infradiciandoci, riprendendo, arrampicandoci sull'albero maestro, guardando quello che avevamo ripreso e facendo cento brainstorming per decidere cosa riprendere, sbatacchiando di qua e di là con i pesci sul ponte…
Roger Odin dice che il cinema si sta muovendo in direzione di una massiva immersione dello spettatore nell'immagine in movimento. Il cinema di finzione sta facendo fatica ad accettarlo, ma non si può dire lo stesso del documentario, e in particolare del vostro film.
LCC: Non avevamo in mente particolari elaborazioni teoriche da sostenere, né dettami cinematografici. Abbiamo improvvisato e sperimentato nel corso del viaggio, per trovare uno stile e una forma adeguati al soggetto. Naturalmente il soggetto in questione include lo spettatore all'interno di un più ampio mondo/vita/immagine ed eravamo certamente alla ricerca di un'esperienza immersiva simile a quella cui fai riferimento citando Odin.
Parlateci del Sensory Ethnography Lab di Harvard in cui entrambi lavorate.
LCC: È un piccolo laboratorio sperimentale, ma non propriamente scientifico. Non conduciamo esperimenti su variabili controllate: è sperimentale perché non sappiamo quello che facciamo. Lavoriamo con i media audiovisivi – fotografia, suono, pellicola e video, per realizzare cose che normalmente non vengono fatte in ambito antropologico o filmico, in particolare nel campo documentario. In quanto atropologhi siamo interessati alla varietà delle esperienze e delle culture che ci circondano, ma non ci interessa ridurle a semplici proposizioni in grado di riassumerle in maniera tale che possano essere riprodotte del linguaggio o dalla parola scritta. Non ci interessa il documentario di stampo giornalistico, con primi piani di persone che discutono: ci interessa l'esperienza. In questo senso credo che il nostro lavoro, per quanto anti-narrativo, abbia più a che fare con il cinema in senso lato che con il documentario vero e proprio.