Uno sconosciuto, Shinji Soomai non lo è di certo. Dimenticato, nemmeno. Vale tuttavia la pena, oggi che la Cinémathèque Française, il festival di Edimburgo e altri gli dedicano omaggi e retrospettive, soffermarsi ancora su questa figura tutto sommato poco considerata. Molte storie del cinema nipponico (come quelle di Tadao Sato o Donald Richie) lo menzionano spesso piuttosto velocemente, e tutt'altro che a torto: si tratta di un cineasta innegabilmente, assolutamente discontinuo. Che cos'è allora che fa dire a un Kiyoshi Kurosawa (nel corso dell'edizione 2012 del festival di Deauville) che Soomai è “l'ultimo grande maestro del cinema giapponese” (1)? Affermazione in linea di principio contestabile, certo, ma che contiene senza dubbio (almeno) un grano di verità, che forse va cercato più dalle parti dell'aggettivo “ultimo” che da quelle del sostantivo “maestro”: dalle parti, cioè, della collocazione storica che egli si trovò ad occupare.