Tre lungometraggi e una manciata di corti, un passato da critico cinematografico e un presente che lo pone già come una figura indispensabile, quanto difficilmente inquadrabile, sulla scena del cinema portoghese e non solo. Miguel Gomes è arrivato alla retrospettiva dedicatagli dalla sezione Onde del Torino Film Festival al termine di un anno che l’ha visto affermarsi con un capolavoro come Tabu, un film di cui si è parlato molto nel 2011, spesso accostandolo all’altro prescelto dai cinefili, Holy Motors di Léos Carax: probabilmente perché entrambi, con modi e toni molto diversi, parlano molto del cinema, della sua fragilità e della sua potenza, del peso del suo passato e della sua capacità di rinascere continuamente. Diviso tra un “Paradiso” e un “Paradiso perduto” come il film di Murnau, da cui riprende il titolo e il topos melodrammatico degli amanti dannati, Tabu inverte significativamente le due parti: il paradiso perduto appare all’inizio, un presente geriatrico, lento, sospeso, come gravato dalle vicende che scopriremo solo in seguito, risalendo ai primi anni Sessanta, in un’Africa coloniale trasfigurata da un esotismo rétro che, come la passione di Aurora e Gian Luca, sembra non poter trovare posto nella realtà, sia essa del presente o di un passato prossimo. La scelta di affidare la narrazione di questa seconda parte alla voce off del protagonista ormai vecchio, alla musica e a pochi suoni ambientali, privando dunque gli attori della parola, è il gesto essenziale in cui si accumula la tensione che lavora questo film, un pathos della distanza che non si accascia su alcuna retorica nostalgica, ma si pone come confronto problematico tra un passato irrecuperabile e un presente necessariamente proteso oltre se stesso.