Tre lungometraggi e una manciata di corti, un passato da critico cinematografico e un presente che lo pone già come una figura indispensabile, quanto difficilmente inquadrabile, sulla scena del cinema portoghese e non solo. Miguel Gomes è arrivato alla retrospettiva dedicatagli dalla sezione Onde del Torino Film Festival al termine di un anno che l’ha visto affermarsi con un capolavoro come Tabu, un film di cui si è parlato molto nel 2011, spesso accostandolo all’altro prescelto dai cinefili, Holy Motors di Léos Carax: probabilmente perché entrambi, con modi e toni molto diversi, parlano molto del cinema, della sua fragilità e della sua potenza, del peso del suo passato e della sua capacità di rinascere continuamente. Diviso tra un “Paradiso” e un “Paradiso perduto” come il film di Murnau, da cui riprende il titolo e il topos melodrammatico degli amanti dannati, Tabu inverte significativamente le due parti: il paradiso perduto appare all’inizio, un presente geriatrico, lento, sospeso, come gravato dalle vicende che scopriremo solo in seguito, risalendo ai primi anni Sessanta, in un’Africa coloniale trasfigurata da un esotismo rétro che, come la passione di Aurora e Gian Luca, sembra non poter trovare posto nella realtà, sia essa del presente o di un passato prossimo. La scelta di affidare la narrazione di questa seconda parte alla voce off del protagonista ormai vecchio, alla musica e a pochi suoni ambientali, privando dunque gli attori della parola, è il gesto essenziale in cui si accumula la tensione che lavora questo film, un pathos della distanza che non si accascia su alcuna retorica nostalgica, ma si pone come confronto problematico tra un passato irrecuperabile e un presente necessariamente proteso oltre se stesso.

Quando Gomes definisce i suoi film “commedie musicali” non sembra riferirsi soltanto alla passione per la musica leggera che li attraversa: dalla canzone pop che apre A Cara que mereces (2004), introducendo in modo straniante i personaggi e la questione di fondo di questo enigmatico esordio (la difficile accettazione dell’età adulta) allo struggimento rockabilly di “Be My Baby” che commenta a più riprese il dramma muto della seconda parte di Tabu, passando per l’elegia della musica nazional-popolare portoghese, sospesa tra ironia e fascinazione, che fa da filo conduttore alle divagazioni nella provincia profonda di Arganil in Aquele querido mês do Agosto (2008). Piuttosto, è una leggerezza musicale, un’attrazione elementare per la magia del cinema che pervade e addolcisce l’impronta intellettualistica di questi film: personaggi come Francisco di A cara que mereces o gli eterni bambini del corto Kalkitos (2002), ostentano un infantilismo quasi sfacciato, irriverente, sotto al quale si percepisce un’amarezza e un senso di perdita che tracimano nella programmatica saudade di Tabu. La tensione bipolare di questi film ha probabilmente a che fare col loro fascino lievemente nevrotico e scostante, ma è anche la cifra di una gioiosa accettazione della complessità del cinema, tanto della sua potenza di finzione quanto della sua responsabilità documentaria, la vocazione memoriale con cui esso si rende, da sempre, malinconico inventario della realtà.
Come suggerisce lui stesso nell’intervista, ogni lavoro di Gomes può essere visto come un remake di un film da lui molto amato, Il mago di Oz (1939): il suo stesso approccio al cinema sembra evocare qualcosa dell’intima scissione di quella storia, divisa tra un mondo di fiaba, di colori chiassosi e maschere eccessive, e il polveroso e monocromatico Kansas da cui tutto prende inizio, con un tornado che, sradicando ogni cosa dal proprio luogo, può essere visto insieme come apocalissi e palingenesi.
 
Con Miguel Gomes ci incontriamo a un bar accanto al Cinema Massimo di Torino: la temperatura non inviterebbe a restare ai tavolini di fuori, il tabagismo sì, e comunque il freddo si scorda in fretta tra le chiacchiere e la grappa che Miguel raccomanda subito a me e al suo amico Francisco Ferreira, critico cinematografico che s’intratterrà con noi per una parte della conversazione. 
 
 
Tommaso Isabella: A considerare la tua filmografia, da un punto di vista retrospettivo (come invita a fare questa rassegna torinese), la prima impressione che si può avere è quanto siano tra loro diversi i film che hai finora realizzato, una varietà che rivela un piacere per la trasformazione, per il rinnovamento continuo. Ma poi si nota subito un carattere strutturale piuttosto macroscopico, che accomuna almeno i tre lungometraggi: sono tutti film radicalmente scissi in due parti, due tronconi ben distinti che intrattengono una relazione complessa, decisamente non cronologica. In particolare mi sembra ci sia sempre una prima parte che deve consumarsi, esaurirsi, perché da essa possa scaturire la narrazione vera e propria.
 
Miguel Gomes: È vero, ogni mio film è diviso in due parti: c’è sempre una prima parte che ne chiama una seconda, ma quella che conta soprattutto è la terza parte, che nasce dalla giustapposizione e dall’interazione delle due, il gioco che si crea dalle connessioni che può fare lo spettatore. Il cinema propone allo spettatore un patto di credenza: devi essere disponibile a entrare nel film, trovare un modo per accedervi; ovviamente è il lavoro del regista inventare questo modo, per entrare e muoversi nel film, per esserci dentro, ma il patto si regge poi sulla disponibilità dello spettatore. Ad esempio penso che A cara que mereces, il mio primo film, sia quello che richiede di più allo spettatore: nella seconda parte compaiono questi sette personaggi, che si comportano in modo davvero strano, fanno cose che normalmente gli adulti non fanno, e lo spettatore deve avere la capacità di credere e di coinvolgersi in quello che fanno, investire molto di suo in quello che succede.
Il secondo film, Aquele querido mês do Agosto, è piuttosto lungo (dura due ore e mezza) e mette soprattutto alla prova la memoria di chi lo guarda. Funziona un po’ come quel gioco di carte, Memory: nell’ora e cinquanta della prima parte, vedi persone che compiono certe azioni in certi luoghi, l’approccio è vicino al documentario; poi, nella seconda parte, vedi le stesse persone, gli stessi luoghi, trasformati, perché presentati in un contesto di finzione. Ma la terza parte non corrisponde a nessuna delle due, dipende da cosa puoi fare tu, come spettatore, degli elementi che ti sono stati forniti, richiamando persone, azioni, luoghi presentati nella prima parte e riconnettendoli alla loro trasformazione nella seconda.
In Tabu c’è un’ellissi di cinquant’anni tra le due parti: abbiamo prima il presente e poi i primi anni Sessanta, ma è più di un semplice salto temporale. Nella prima parte l’approccio è più vicino a una descrizione del quotidiano, mentre nella seconda c’è un approccio mitologico, con quell’accumulo di cliché sull’Africa. Anche qui è lo spettatore che deve riempire un buco, ma non si tratta di immaginare cosa è successo ai personaggi in quel lasso di tempo: la terza parte del film invita a vedere i giovani che agiscono nella seconda parte sovrapposti ai vecchi visti nella prima. È lo spettatore a costruire questi personaggi che sono al tempo stesso giovani e vecchi, o addirittura vivi e morti, sospesi tra il paradiso e il paradiso perduto.
Invento strutture che prevedono una grande partecipazione da parte dello spettatore. L’idea che il pubblico debba avere un ruolo attivo e non passivo nel film, nel cinema contemporaneo, viene spesso interpretata in un modo che ritengo sbagliato: si pensa che lo spettatore attivo debba procedere come un detective, cercando di comprendere cos’è successo, scoprire l’assassino o cose del genere: lo spettatore deve risolvere enigmi. Per me non è questo il punto: lo spettatore non deve svelare misteri, deve entrare con la propria personalità, la propria esperienza, la memoria di tutto ciò che ha visto, e attraversare il film, fare il proprio montaggio.
 
Francisco Ferreira: Ogni volta che vedo un film di Miguel mi chiedo sempre “dove sono? dove siamo noi spettatori? Per esempio nel primo film è un po’ una sfida: la prima parte si intitola “Teatro” e sembra una specie di confessione, ci prepara a dire qualcosa sul protagonista, che poi come spettatore non sei preparato quando arriva la seconda che Miguel chiama “Cinema”.
 
MG: Si chiama “Morbillo” a dire il vero…
 
FF: Sì, si chiama “Morbillo”, ma come hai già detto altre volte, la malattia rappresenta il cinema.
 
TI: E infatti Francisco, che resta chiuso nella sua stanzetta col morbillo, invisibile per quasi tutta la seconda parte, in qualche modo sta realizzando il proprio film: i sette bizzarri personaggi che compaiono dal nulla all’inizio della seconda parte sono i suoi attori ed è lui a imporre le regole astruse che essi devono rispettare nella casa in cui Francisco si ricovera. Da dove è sorta l’idea di questo “cinema”?
 
MG: Già nel Teatro della prima parte viene introdotta la fiaba di Biancaneve e i sette nani, che poi si realizzerà nella seconda: Francisco addormentato è Biancaneve, mentre i sette amici sono i nani che dovrebbero accudirlo, ma che a un certo punto prendono il sopravvento. Questa parte l’avevo pensata un po’ come un reality show, l’avete anche qui in Italia, no? “Il grande fratello”: una casa, sette nani, e vediamo chi riesce ad andarsene alla fine, chi vince. Sì, i personaggi si comportano in modo infantile, certo, con tutte queste regole, ma nello show televisivo è forse diverso? Non si comportano in modo adulto, ci si aspetta che diano il peggio di sé.
 
TI: Sì, lì forse la prima regola è dare il peggio di sé.
 
FF: Si, perché nel “Grande fratello” il regista è una sorta di mostro tirannico, che dà tutte le istruzioni. Ma tornando alla struttura dei film, ora mi viene in mente Cloud Atlas, l’ultimo film dei Wachowski: racconta contemporaneamente sei storie, ma quello che ho trovato molto noioso è che queste storie ambientate in diverse epoche storiche non riescono a creare nessun vero rapporto tra di loro. Invece quando vedi i film di Miguel senti che una parte richiama l’altra, mentre stai vedendo la seconda la senti tendersi, come se desiderasse la prima, spinta da una connessione interna nella struttura. E alla fine, in un certo senso, questa tensione si risolve in un moto circolare, che gira su se stesso.
 
 
TI: Questo mi fa pensare al fatto che i primi due film li ho visti in DVD, circostanza che ho trovato in qualche modo appropriata, perché penso che tutti i rimandi tra le parti li rendano molto complessi, tanto da esigere più visioni. Soprattutto Aquele querido mês do Agosto sembra un film che chiede quasi da subito di essere riattraversato per essere apprezzato appieno, perché tutte le connessioni si attivino.
 
MG: È abbastanza normale se ci pensi: io impiego anni per fare un film, mentre a vederlo, anche se Agosto in particolare è piuttosto lungo come film, impieghi comunque due ore e mezza, che confrontate col tempo che io ho impiegato a realizzarlo, non sono poi tante. Tornando all’idea di una prima parte che ne chiama una seconda, io ho spesso in mente Il mago di Oz, dove all’inizio siamo in Kansas e vediamo Dorothy cantare di questo mondo “al di là dell’arcobaleno”, che è poi il cinema: quello che Dorothy desidera è cinema, finzione, ossia ciò che otterrà nella seconda parte arrivando a Oz. Così è anche nei miei film c’è una prima parte che attende e desidera l’arrivo della finzione. Ma già nella prima parte, ‘in Kansas’ per così dire, questo desiderio di finzione tende a trasfigurare la realtà: in A cara que mereces, prima che entrino in scena i sette nani della fiaba di Biancaneve, alla festa di carnevale della scuola ci troviamo già in un mondo di cowboy e di fate, si sente questo desiderio di personaggi fuori dal comune. In Agosto vediamo il produttore che arriva dal regista e gli dice “Ma che cazzo stai facendo? Dovresti filmare dei personaggi, una finzione, non questo!” Ma in realtà anche qui le persone che filmo appartengono già a un mondo di finzione, le canzoni che cantano, ad esempio, sono per me splendide storie di finzione. E in Tabu c’è Pilar che va al cinema, Santa che legge Robinson Crusoe. 
D’altra parte la realtà della prima parte influenza il modo in cui faremo esperienza della seconda. In Tabu è molto evidente: a un certo punto ti trovi davanti questo mondo coloniale, di fantasia, vedi giovani che se la spassano, giocano e si divertono, come fossero in un film hollywoodiano, ma hai già visto la prima parte, il che produce una specie di mutazione, perché allora sai che quelle persone sono già vecchie, li vedi così belli, sexy, mentre fanno sesso, ma senti la voce di un vecchio, sono i ricordi di uno che probabilmente non riesce più ad avere un’erezione. Così hai cose molto diverse che lavorano allo stesso tempo, l’umore triste e melancolico dell’inizio contagia la seconda parte, insomma c’è sempre questa seconda parte che trasforma la prima retrospettivamente e la prima che si carica di aspettativa per la seconda.
 
FF: I film di Miguel possiedono una specie di tensione interna: non si dispensano mai completamente della sceneggiatura, ma al tempo stesso non vi si affidano troppo. Sono film che amano giocare, con gli elementi che hanno a disposizione, con quello che trovano via via, e con lo spettatore: propongono diversi modi di vedere le cose, diverse velocità. Per questo i suoi film sono così speciali: nessuno può fare copie dei suoi film. Una volta, mentre girava, Miguel mi ha detto una cosa che non ho mai scordato: la ripresa deve dare un piacere immediato, un piacere che contagia tutto il gruppo: deve sentirsi sul set, altrimenti quello che fai non funzionerà, al montaggio ti troverai immagini con cui non puoi fare niente, da buttare.
 
TI: Quindi ti dai una struttura, delle regole, a volte rigide come quelle della casa dei sette nani, per poi trasgredirle?
 
MG: Penso che perdere il controllo sia una buona cosa. Nel cinema sembra che tutto debba essere sempre sotto controllo totale, controllo della produzione sul regista, del regista sugli attori, degli attori sulla loro performance. Io cerco di perder un po’ il controllo, lasciare spazio alla manifestazione di cose incontrollabili e poi provare a controllarle, al montaggio, ma anche durante le riprese. Non penso che sia una mia esclusiva, del resto.
 
TI: Certo questa apertura al reale comporta spesso molti problemi, un margine di rischio che le produzioni difficilmente si accollano volentieri. Del resto la forma stessa di Aquele querido mês do Agosto, col suo intreccio di documentario e finzione, è nata essa stessa da problemi molto concreti, dico bene? 
 
MG: Sì, in quel caso non avevamo altre opzioni: il produttore non aveva il denaro per farci girare quello che era previsto nella sceneggiatura. E direi che ci sono due modi per reinventare un film: normalmente, ed è quello che chiede spesso la produzione, fai la stessa storia, ma con meno soldi, il che a volte è impossibile, il fallimento è inevitabile perché se non hai i soldi certe cose non le puoi fare, ne esce una versione storpia. Ma c’è anche un altro modo: restare fedeli al desiderio che ha dato avvio al progetto, nel nostro caso la voglia di filmare la gente che nei villaggi cantava queste canzoni un po’… che non sono proprio di gran qualità, diciamo. Insomma, provare comunque a filmare questo universo musicale. Ho pensato che fosse meglio andare lì con una cinepresa e una troupe molto ridotta, cominciare a riprendere le cose che mi piacevano e poi provare a escogitare un’altra finzione, che aveva molto a che fare con quella scritta all’inizio, ma che al tempo stesso era una reazione alla prima fase di riprese, quella ‘documentaria’.
 
FF: È un modo molto sportivo di fare cinema!
 
MG: L’idea era fin dall’inizio quella di realizzare un melodramma, e questo aspetto era molto più evidente nella prima versione della sceneggiatura, la relazione tra il padre e la figlia che fanno parte della band era molto più esplicita nello sfiorare l’incesto: la figlia doveva assomigliare molto alla madre, che se ne era andata, c’era questo fattore Vertigo, di una donna che finisce per essere l’incarnazione di un’altra. Nella versione finale il melò ha meno peso, perché intanto nel film erano entrate molte altre cose che non mi aspettavo. Ho dovuto allora inventare uno spazio dove collocarle. La prima parte è una specie di collezione: ci sono villaggi, feste, canzoni, è un inventario di quella regione. Ci sono personaggi e miti locali, come Paulo “Miller”, il “ragazzo del fiume”, rituali, processioni, canzoni. Una volta mi hanno detto che la forma del film assomiglia al rapporto che ci può essere tra un fiume e i suoi affluenti: prima vedi i vari corsi d’acqua, che arrivano ognuno da un punto diverso, e alla fine ti trovi davanti il grande fiume che li raccoglie tutti.
 
 
TI: Hai detto che l’inclusione del lavoro del film nel film, in Aquele querido mês do Agosto, sorgeva anche dall’esigenza di compensare in qualche modo la vostra ‘invasione’ nella tranquilla provincia di Arganil (in questo senso sembra emblematico l’attacco del film, con una volpe che irrompe e porta scompiglio in un pollaio). Mi viene allora da chiederti come hai affrontato le riprese per la parte africana di Tabu, dove l’ambientazione coloniale sembra soprattutto presentarsi come uno sfondo fiabesco, ma finisce per giocare un ruolo importante.
 
MG: La parte africana di Tabu è ambientata all’inizio degli anni Sessanta, per cui le persone avrebbero dovuto indossare costumi, abiti di quell’epoca insomma. Però, se guardi con attenzione, vedrai che ci sono ragazzini africani con le t-shirt di Obama o del Barcellona: sul set mi chiedevano se dovevano tenerli fuori dalle inquadrature, ma io ho deciso di includerli, perché stavamo filmando una finzione, che è sempre un patto con lo spettatore: se vuole credere o meno a questa storia è una sua decisione; se s’indispone, se pensa che quelle t-shirt non dovrebbe stare nel mondo che raccontiamo,vuol dire che non ha creduto abbastanza, non ha creduto nella menzogna che è ogni finzione. Penso che al cinema sia più bello credere nelle bugie vedendo benissimo che lo sono, e al tempo stesso sapere che stai vedendo cose materiali, che esistono adesso, in un luogo preciso.
Il film è stato girato in Mozambico, che è uno dei più poveri al mondo: io non sono come Pilar nel film, non penso di poter salvare il mondo, posso magari provarci, ma non credo di poterlo davvero migliorare con la preghiera o le manifestazioni (magari un po’ più con le manifestazioni che con la preghiera, comunque). Quello che posso fare è raccontare le mie storie provando a non giudicare i personaggi, essere fedele a loro e alle loro emozioni, senza farne il simbolo di qualcosa, lasciandoli esistere per quello che sono, e quindi anche in quanto finzioni. Così nel mio film possono convivere un portoghese con baffi e capigliatura un po’ strani, fuori moda e i ragazzini con le t-shirt di Obama: è un modo di filmare le cose senza tradirle. Se elimini la voce off che racconta, molte scene del film ti appariranno subito come documentarie, torni a vedere solo le cose materiali del nostro mondo, ma è importante che la voce off ci sia e che la sua presenza trasformi quelle immagini. Come parlavamo prima delle interazioni tra le due parti del film, è importante che ci sia un’interazione tra realtà e immaginario, tra suono e immagine: a volte è una cosa piuttosto semplice, niente di così teorico. In Tabu è molto più evidente e forse per questo è stato apprezzato più degli altri.
 
TI: Si è molto parlato di nostalgia a proposito del tuo film, forse anche a sproposito: vero è che viviamo in un momento storico che sembra aver incorporato una sorta di retrovisione, un automatismo per la citazione. Ma non penso sia tanto questione di citare un determinato genere o periodo della storia del cinema. L’impressione che mi danno i tuoi film nel complesso, quindi pensando oltre all’esotismo di Tabu e al melodramma, anche agli elementi di commedia e di musical che contagiano i primi due film, è che questi salti all’indietro servano soprattutto per rilanciare nel presente l’idea di un cinema capace di affascinare e raccontare, tenendo conto di tutte le immagini e le storie che esso ha accumulato nel tempo.
 
MG: Non bisogna essere nostalgici di qualcosa che vive nella tua memoria. Io non ho una gran memoria e quindi i film che ho visto spesso mi si confondono in testa, ma in questa confusione si creano connessioni, c’è sempre qualcosa che si trasforma. Penso che un film come Holy Motors parli proprio di questo, col suo protagonista che continua a mutare: è la potenza del cinema di inventare personaggi, di ricreare, rinascere dalle proprie ceneri.
Ma questa è una qualità che appartiene già alla memoria stessa, che non è solo confusa, appannata, come la mia, è proprio falsa, una falsa memoria: condividiamo una memoria delle cose che è totalmente finta, eppure ci appartiene, e in questo senso è reale. Come l’Africa inventata dal cinema, quella di Tarzan: non è mai esistita, ma esiste dal momento in cui la viviamo, in questa falsa memoria. Quest’Africa immaginaria è quella di Tabu: per me era importante avere il vero materiale di quella terra, il paesaggio, gli animali, gli alberi, le persone, proprio perché volevo provare la capacità del cinema di fondere questa memoria finta con quella fotografica, che raccoglie luoghi e persone materiali, trovare un equilibrio tra immaginario e reale.
 
TI: Nel tuo cinema trovo ricorrente un fascino per l’infanzia che sfocia spesso nella rivendicazione di un consapevole infantilismo da parte di personaggi che sembrano soprattutto voler giocare. Tabu sembra invece collocarsi sul versante opposto, prendendosi carico del tempo in cui siamo e del suo ‘invecchiamento’. Mi chiedo allora che genere di film farai dopo questo.
 
MG Farò un film molto infantile, stiamo iniziando a scriverlo, sarà una versione delle Mille e una notte, ma lontana dal film di Pasolini: al centro ci sarà Scheherazade, che deve continuare a raccontare storie per non morire, ma le storie non saranno quelle del libro, parleranno di cose che accadono oggi in Portogallo. 
Penso che la maggior parte delle persone si comporti in modo molto infantile, senza rendersene conto, io compreso, ma dipende da quanto se ne è consapevoli. Penso che ogni film abbia una forte connessione con l’infanzia, al cinema credi in cose incredibili come quando sei bambino Non si tratta semplicemente di credere in qualcosa di cui il regista ti vuole convincere, è la consapevolezza dell’inganno che è importante: lo vedi che non è vero, ma ci credi. Bisogna avere la capacità di vedere la verità interiore delle cose, anche delle finzioni.