Sono riuscito a girare 80 film in 20 anni perché è quello che mi piace fare. Il sistema è che faccio quasi tutto io. Sono arrivato a scrivere la storia, interpretarla, dirigerla, decidere le luci e montarla. Se scorri la mia filmografia, vedrai che la prima volta che faccio film uno dopo l’altro è con i nordamericani [ndr: Harry Alan Towers], ma ciò è dovuto al fatto che loro non interrompono mai il processo produttivo. In Spagna ho l’impressione – soprattutto da quando ho lavorato fuori – che si produca malissimo per una forma di inerzia e per problemi di fondo. Il cinema spagnolo dovrà cambiare in modo drastico per uscire dal vicolo cieco nel quale si è infilato. Queste troupe spagnole di 30 persone non si vedono da nessuna parte nel mondo. Io le chiamo le troupe dell’eco. Il regista dice: «È arrivata Manuela?» e una serie di voci ripetono la frase: «È arrivata Manuela?», finché la domanda si perde in lontananza. E poi vedi un bambino che corre come un disperato a cercare Manuela. Io voglio avere il bambino – quelli in mezzo non mi servono – e che corra venti metri di più. Ho girato in Germania, Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Brasile, Venezuela, Turchia, Grecia, Bulgaria, Svizzera, Cecoslovacchia, e nel Nord Africa, e la troupe normale è composta da 10 persone. Cerco sempre di lavorare con la stessa troupe perché in questo modo devo dare meno spiegazioni. Quando lavoro con un fotografo che non ha mai lavorato con me e comincia a illuminare la testa degli attori come se fossero l’arcangelo Gabriele con l’aureola dorata, come si continua a fare in Spagna, soffro molto. Quando ho diretto la seconda unità del Falstaff c’erano momenti in cui avevo più gente di Orson Welles perché giravamo piani con 200 persone a cavallo con lancie e stendardi e per riuscire a fare più di tre piani al giorno avremmo avuto bisogno di molta più gente; ma quando giri uno di quei film che si fanno normalmente, non in Spagna, ma in Europa, perché vuoi trenta persone?