Cloud Atlas è un film ambizioso, non c’è dubbio; tuttavia l’ambizione non conduce necessariamente a risultati che coincidono con le aspettative, o con i progetti intrapresi per il proprio (ambizioso) fine. Senza bisogno di fare nostre le considerazioni distruttive sulla brama eccessiva, avanzate da quella pellaccia stoica dell’imperatore Marco Aurelio e rimanendo ancorati alla materia cinematografica, resta da rilevare come l’ambizione possa portare a mete stilisticamente e filosoficamente degne di considerazione, oppure condurre al ridicolo. Nel caso del film dei fratelli Wachowski e di Tom Tykwer, ha semplicemente portato a un guazzabuglio, talvolta divertente e talaltra interessante, ma nel complesso noioso, predicatorio e, come esito diretto della troppa ambizione, vanaglorioso. Il film si articola in sei segmenti, ambientati su differenti piani temporali, abilmente alternati e intrecciati dai tre registi, i quali si “sfiorano” o si compenetrano grazie a piccoli gesti, o a mere casualità. In se, il gioco non è stupido: le diverse vicende sono caratterizzate da uno stile e da un genere che rendono a loro modo godibili i rimandi cinematografici sia interni, sia esterni. Il modello, come hanno segnalato in molti, è un caposaldo della storia del cinema come Intolerance (1916), ma, come ha affermato la statunitense Eleanor Ringel Cater, se l’opera di Griffith è un capolavoro, il film del terzetto, «ahimè, non lo è». Tutto in Cloud Atlas, pare troppo artificiale, il buon compito a casa per una scuola di scrittura creativa. Sembra oltretutto, di assistere ad una lezione di diritto amministrativo: questi sono gli enti, questi sono gli organi che li costituiscono, i quali possono avere rapporti intraorganici, ma anche interorganici, perché, ebbene sì, esiste perfino il resto del mondo. Come dire, "concentratevi sul testo, ma anche un po’ sul contesto", perché c’è pure la storia del cinema (o della letteratura, o di quello che volete).