Un esordio potente, questo della ventinovenne Maja Milos. L'aggettivo “potente” non va necessariamente inteso come “provocatorio”: in tempi di Spring Breakers e Bling Rings, un film serbo presentato (per ora) solo a festival (tra cui quello di Rotterdam e quello di Trieste) che si occupa di adolescenti dai comportamenti a rischio potrebbe piuttosto fare sbadigliare. Parte della forza del film sta nelle scelte esplicite adottate in alcune scene (la sequenza dell'attrice quattordicenne Isidora Simijonovic seminuda a quattro zampe che si atteggia a cagnetta è sicuramente disturbante e difficilmente dimenticabile), e la regista riesce a non scadere nella gratuità, evitando di trasformare il film in un banale pamphlet sul disagio e il degrado giovanile. Al di là della porta che la protagonista Jasna chiude dietro di sé per ballare, provare la biancheria sexy comprata dai cinesi e fotografarsi mentre si masturba, ci sono una madre disperata, un padre malato terminale e tutti gli altri parenti che sembrano lontanissimi da lei. Dietro l'apparente insensibilità della protagonista, Milos ne rivela anche la fragilità, mostrando il suo oscillare tipicamente adolescenziale tra capricci infantili e consapevolezza adulta. Ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il sesso e la droga rientrano tra i primi, mentre la maturità è evidenziata nei rari momenti in cui, come all'orfanotrofio e in ospedale, la ragazza si lascia finalmente andare a momenti di disperata tenerezza. 

 
La scelta di cosa mostrare va vista allora alla luce di questa empatia con il personaggio. Come Srđan Spasojević, il regista di A serbian film (inevitabile termine di paragone), ha affermato, il pubblico “deve sentire la violenza per capirla”. E anche qui, non si possono mostrare le vite di questi ragazzini con pruderie e falsi moralismi: si deve fare come fanno loro. O come farebbero loro se avessero una macchina da presa. E infatti, in un certo senso, ce l'hanno: è il cellulare. Così, il materiale girato con il telefonino che puntella fin da principio la narrazione è tutt'altro che un espediente stilistico o un divertissement. Si tratta invece dell'aspetto più interessante del film: l'uso del cellulare amplifica la solitudine dei ragazzi, palesa la loro volontà di omologarsi a quello che vedono in tv o in rete. E i loro video vanno a ingrossare le fila di episodi di bullismo, festini alcolici in casa e ragazzine che si spogliano in webcam che si trovano su Youtube, di cui Clip diventa una sorta di “dietro le quinte”. Un lungo making of che svela i retroscena, un backstage paradossalmente ben più nitido e a fuoco dei video, che ne sono lo sporco e sgranato prodotto finale. Il film si rivela dunque una riflessione sulla fuga dalla realtà in una realtà simulata, o, meglio, emulata: una realtà (o un reality-show) ancora più squallida, triste e deprimente di quella vera, dove invece sembra permanere ancora un po' di calore umano (l'empatia con gli orfani, il dolore per la malattia del padre, il bisogno di condividere le paure della protagonista con il ragazzo di cui è innamorata).
 
Le ragazze imitano pose porno con una convinzione tutta infantile, mentre il modello dei ragazzi è la violenza, forse quella dell'illustre assente del film, vale a dire la guerra, appena accennata in  slogan nazionalisti gridati a caso dai ragazzi e tra le macerie per strada. Sono questi gli unici elementi che permettono di collocare il film in coordinate spazio-temporali precise, molto di più dei  completini white trash sui corpi acerbi e del turbo-folk su cui si contorcono, e forse è un bene, visto che sostituendo a quest'ultimo del neomelodico napoletano o del reggaeton si ottiene un ritratto universale del degrado delle periferie di tutto l'occidente. Soprattutto quello delle giovani generazioni, accomunate da Facebook e dal cellulare tanto quanto i borgatari imborghesiti che osservava con orrore Pasolini lo erano dalla televisione e dal conseguente “sogno americano”. Ma con una sostanziale differenza: qui non c'è più nessuna responsabilità esterna da additare, nessuna cultura “imposta dall'alto”: qui i ragazzi diventano artefici del proprio immaginario, che perpetuano amplificandolo, sfidandosi reciprocamente a fare di peggio, da perfetti prosumers, veicolo inconsapevole di messaggi che hanno perso ormai un'origine univoca.
 
E non c'è moralismo, al massimo un invito a riappropriarsi davvero del medium, qualunque sia: a introdurre il finale c'è una rapida scena ripresa col telefonino in cui Jasna piange disperata, mostrando finalmente ciò che per tutto il film ha tentato di nascondere. Mentre le ultimissime inquadrature, a camera fissa, sembrano ricalcare la trama di un feuilletton scadente, in una riconciliazione che non ha nulla di spontaneo e sembra attestare che la metamorfosi nei modelli peggiori è ormai completa. 
 
 
Clip, regia di Maja Milos, Serbia 2012, 100'.