Mai come oggi – bisogna fare i conti con Béla Tarr. Il suo itinerario sofferto, dall'esordio alla fine degli anni Settanta fino al definitivo Il cavallo di Torino (À Torinoi Lo, 2011), si presenta compatto come una delle prove più possenti, cristalline e radicali che la storia del cinema abbia conosciuto. Lontano dai favori del pubblico, strozzato dalle leggi mercantiliste dell'industria e costretto a occupare le oasi di una cinefilia oltranzista, negli ultimi anni Tarr è divenuto oggetto di un'attenzione nuova, meno sporadica e forse più cultuale di quella finora riservatagli, i cui frutti si riscontrano persino in una certa popolarità, come testimonia il fiorire di retrospettive, interventi e saggi anche in Italia. La benemerita iniziativa della Eye Division di proporre al pubblico l'edizione in DVD di alcuni dei suoi film, ben dentro questo processo di riconoscimento, diventa allora un'occasione utile per una introduzione ed alcune considerazioni critiche che obbediscono all'esigenza di fare i conti con Béla Tarr.

Pur portando incise sulla pelle le marche di un autorialismo tra i più radicali, l'opera di Tarr, in particolare da  Dannazione (Kárhozat, 1989) in avanti, è l'esito di una convergenza di pratiche e di prospettive che coinvolgono la compagna e montatrice Àgnes Hranitzky, il musicista Mihaly Vig, i direttori della fotografia Gabor Medvigy e Fred Kelemen e soprattutto lo sceneggiatore Laszló Krasznahorkai. È il peso del contributo di quest'ultimo, risalente appunto a Dannazione, che ha spesso ingenerato l'equivoco critico di considerare una nuova fase – la terza, si dice, dopo le prime opere cosiddette cassavettessiane e la transizione «metafisica» e stilistica rappresentata da Macbeth (1982) e Almanacco d'autunno (Öszi Almanac, 1984) – ciò che è soltanto il logico proseguimento di un pensiero per immagini il cui incedere è palpabile, lineare, estremamente coerente. Tarr stesso confessa: «Spesso ho la sensazione che stiamo facendo sempre lo stesso film, di volta in volta un po' migliore» – e, si può glossare, in tonalità sempre più gravi.
 
Sulla dilatazione e sulla rarefazione, a mio avviso, va posto l'accento per comprendere la linearità dell'itinerario.
Dilatazione significa, a livello stilistico, il ricorso a piani sequenza di ampio respiro, una average shot lenght notevolissima, la predilezione bipolare per primi piani e campi lunghi, il montaggio votato verso la monotonia. Ma significa pure, in maniera più densa, un progressivo ampliamento dello sguardo da una critica sociale minuziosamente connotata che ha per bersaglio l'istituzione (nelle concrezioni della famiglia e dello Stato) a una riflessione, nelle parole di Tarr, «cosmica», impregnata nel pensiero nietzschiano e nelle esalazioni dell'ontologia. La rarefazione, invece, è quella propria del minimalismo modernista, di cui Tarr costituirebbe una radicalizzazione terminale: una sorta di ascetismo del linguaggio cinematografico raggiunto attraverso la contemplazione, il recupero della dimensione della durata per mezzo dei tempi morti (a dispetto della grammatica canonica che si fonda sull'ellissi, ovvero sulla torchiatura del tempo storico), l'impalpabilità delle strutture drammaturgiche e la relativa contestazione dell'economia narrativa, la riduzione al minimo dell'inquinamento spettacolare.
 
 
A partire da questi presupposti viene facile scacciare delle interpretazioni, tanto superficiali quanto tenaci, che sono state avanzate, e non sempre da commentatori sprovveduti. Mi sembra addirittura ingiustificabile la posizione di chi si ostina in una lettura socio-politica che vede nel microcosmo messo in scena da Tarr un'allegoria dell'era post-comunista, delle promesse mancate del socialismo, delle conseguenze dell'occidentalizzazione e così via. Seppure suggestiva, anche una lettura allegorica, tutta concentrata su contenuti religiosi – pure dichiarati nei film, sia esplicitamente (le frequenti citazioni bibliche) che implicitamente (i temi messianici, apocalittici etc.) –, aggiunge piuttosto poco, rimanendo arroccata nella dicotomia salvezza/dannazione dalla quale si fatica a venir fuori. Se ci fosse davvero una qualche forma di religiosità, ci si troverebbe in terra di blasfemia, così smarrendo tutto il nucleo di una riflessione di ben più ampia portata. Per cui anche i frequenti richiami a Tarkovskij, persino nella formula «de-spiritualized» di Rosenbaum, appaiono piuttosto fuori luogo, se non forse per alcune preoccupazioni teoriche e pochi stilemi condivisi che hanno comunque un rapporto di discendenza non diretto. In essenza, a un cinema che si fonda sul vuoto, o meglio sull'osservazione del vuoto, affatto conscio delle implicazioni filosofiche che questo sguardo convoca, non è possibile postulare un oltre, mondano o non.
 
Ci si può spiegare con maggior precisione tramite due figure ricorrenti che puntellano le opere più recenti di Tarr.
La prima è quella del personaggio che osserva, immobile, alla finestra. Con l'eccezione di L'uomo di Londra (À London férfi, 2007), film che ne tematizza la tensione metacomunicativa (tra osservatore e osservato, tra autore e spettatore), lo sguardo non è portatore di conoscenza, non introduce né postula alcuna azione. «Sono decenni che resto lì seduto – confessa Karrer all'amante in Dannazione – Non sono legato a niente, ma tutto è legato a me. E chiede che io guardi, vuole che veda la disperazione delle cose». La seconda è quella del personaggio che cammina, tampinato da un carrello a seguire o a precedere. Sarah Ohana ha recentemente osservato che Tarr «impiega questo movimento ordinario per esibire un gesto sottratto al suo scopo», «un 'mezzo-puro' […] che esiste semplicemente per se stesso». Incarnazioni di modalità di visione – il piano fisso e il piano sequenza –, le due figure ribadiscono il processo di appropriazione dello spazio e della durata, paradossalmente grazie alla messa tra parentesi dello spazio-tempo diegetico. Altrimenti detto, l'atto in sé non è significante, tuttavia lo diventa a condizione di istituire una distanza, se non una estraneità reciproca, tra il personaggio e l'ambiente circostante. Questa distanza è il vuoto.
 
Nell'universo angariato dalla disgregazione, l'uomo è un elemento del paesaggio, come gli animali, come la pioggia e il fango, come le architetture fatiscenti – tutti sottoposti alla medesima legge del decadimento. Qui l'afflato cosmico. Cosmologico, anzi, dato che ad essere scrutata in maniera impietosa è proprio la legge di quel cosmo che è precisamente un complesso di armonia. La posizione di Tarr è illustrata nella parabola del professor Eszter, il musicologo in lotta contro Werckmeister per il ritorno a un sistema tonale basato non più sull'inganno e sul compromesso del buon temperamento: alla fine il pianoforte accordato naturalmente verrà di nuovo trasformato in un pianoforte qualunque, «in cui ci si può suonare ogni cosa [e] ricavarci dei soldi con più facilità». Dunque, è soltanto apparente il conflitto tra caos e ordine che innerva Le armonie di Werckmeister (Werckmeister Harmóniák, 2000), poiché anch'esso è chiamato a rispondere alla nerissima visione cosmologica di Tarr e Krasznahorkai in cui non esiste via di scampo per nessuno, men che meno per gli innocenti come Janos Valuska o la piccola Estike di Satantango (1994).
 
 
Si può vedere, allo stesso modo, come funzionano Dannazione e L'uomo di Londra, due noir che si rifanno per più di un verso rispettivamente alla stagione americana e a quella francese. Come da norma di economia narrativa – la contestazione che si è sopra accennata, come tante altre, è un rodere dall'interno le consuetudini – il protagonista è mosso da una pulsione, più correttamente da un desiderio illecito (il sesso, il denaro), il cui soddisfacimento è realizzato attraverso un disegno criminoso che conduce a una discesa morale dal quale egli non riesce a rialzarsi. Dalla giustizia istituzionale, la stessa che nella penultima sequenza di Satantango non fa altro che addolcire le scurrilità di un rendiconto viscerale, non c'è da attendersi nulla: che scopra il crimine o che lo avalli, essa resta comunque inerme e tutto sommato disinteressata poiché la condanna è già stata attribuita da un'altra giustizia ben più crudele. Dalla certezza della pena, anche in assenza di colpa, non v'è modo di sfuggire: ancora in Satantango, tutto il villaggio sa dell'arrivo di Irimias e Petrina, che qualcuno ha voluto vedere come emissari dell'apocalisse, e concorde lo teme, ne avverte le conseguenze nefaste, i raggiri evidenti, i piani perfidi – eppure tutto il villaggio si lascia truffare, quasi fosse già espiazione.
 
Tonalità sempre più cupe, si è detto, ma oltre Il cavallo di Torino non è possibile spingersi; lì dilatazione e rarefazione – e disperazione, perché no? – raggiungono la soglia oltrepassata la quale si naufraga nello schermo nero. La risposta alla domanda da cui si sono prese le mosse, «Où va Béla Tarr?», trova risposta nel sesto e ultimo giorno di questa «anti-genesi» (così Marco Grosoli): inquadratura fissa, al centro il tavolo con tre piatti, all'estremità il padre e la figlia – il primo intento a sbucciare una patata, la seconda a fissare il vuoto –, «Mangia», dice lui, «Dobbiamo mangiare», entrambi immobili, silenzio, dissolvenza in nero, titoli di coda. Béla Tarr è arrivato.
 
 
BELA TARR COLLECTION (Eye Division – Cecchi Gori Home Video)
NIDO FAMILIARE (Családi tűzfészek), regia di Béla Tarr, Ungheria, 1977, 108' 
PERDIZIONE (Kárhozat), regia di Béla Tarr, Ungheria, 1988, 116' 
SATANTANGO (Sátántángó), regia di Béla Tarr, Ungheria/Germania/Svizzera, 1994, 435'
LE ARMONIE DI WERCKMEISTER (Werckmeister hármoniák), regia di Béla Tarr, Ungheria/Italia/Germania/Francia, 2000, 145' 
L'UOMO DI LONDRA (A londoni férfi), regia di Béla Tarr, Ungheria/Francia/Germania, 2007, 139'
IL CAVALLO DI TORINO (A torinói ló), regia di Béla Tarr, Ungheria, 2011, 146'