Sin dal titolo, Su Re si presenta come l’adattamento in terra sarda, in lingua sarda, con attori e non-attori sardi della Passione del Cristo. Quali sono gli effetti principali di questa trasposizione?
L’aver deciso di trasporre la storia in terra sarda ha almeno due effetti: ci permette di scoprire qualche cosa di nuovo della storia che si racconta, perché la stessa vicenda, filtrata da sensibilità diverse assume un tono diverso; ci permette di apprendere e di rilevare qualche cosa del luogo, del mondo in cui viene trasferita, facendo della storia una sonda. Raccontare la Sardegna chiedendo ai sardi di confrontare la loro lingua, la loro complessa identità – che è fatta di espressioni, di modi di manifestarsi e di relazionarsi gli uni agli altri – con la storia di Gesù morto sulla croce, vuol dire fare una nuova esplorazione, scavare con rinnovato sguardo in quel mondo.
Di questi due effetti, uno riguarda l’universalità e l’altro la località. A volte, e soprattutto in Sardegna, per una qualche paura si commette l’errore di chiudersi, di escludersi a un interesse più vasto, e allo stesso tempo si minimizza il carattere locale. Invece sono proprio i caratteri di un luogo, circostanziato e dai tratti precisi, che permettono di comunicare qualche cosa di interesse generale, perché proprio quei caratteri specifici riveleranno il diverso della storia che si racconta. La morte, l’ingiustizia, il tradimento, la debolezza, la calunnia, le congiure sono cose che succedono ovunque.
In alcuni personaggi e in alcune soluzioni, il film può ricordare un altro tipo di trasposizione, quella popolare legata alle rappresentazioni rituali della Settimana Santa. I non-attori che interpretano i sacerdoti appaiono come briganti, discostando così la trasposizione dalla tradizione che li vede come dotti, intellettuali che giudicano Gesù in quanto detentori della dottrina.
Questa è una delle cose che si rende possibile grazie alla trasposizione popolare: i sacerdoti non sono dotti, è vero. Pietrina Menneas, che fa la mamma di Gesù, ha detto una cosa molto bella quando ha dichiarato, minimizzando la sua recitazione, che si è limitata a fare qualche cosa che già conosce: piangere sul corpo di un figlio morto, ucciso. Anche se a lei non sono stati uccisi dei figli, quella è un’esperienza che conosce, quella della madre che piange sul corpo del figlio ucciso ingiustamente. Lei ha pianto in modo vero, senza ricorrere a trucchi, erano lacrime vere, lei piangeva perché quella esperienza la conosce. La Menneas, giovane donna di Orgosolo, alla quale non è mai morto un figlio ma che sa che cosa significa la morte di un figlio, e che ha condiviso in altre occasioni la morte di un figlio di altre donne, che quindi è in grado di piangere in modo vero sulla morte di Gesù anche nella rappresentazione filmica. È lì che il film che dice delle cose.
Un altro elemento distintivo di questo adattamento riguarda l’assenza della parola, da una parte, e la presenza massiccia di silenzi, rumori, sguardi, pause…
Da una parte c’è un'imponente iconografia (immagini ricorrenti, il Cristo, la croce, i piedi e le mani trapassati dai chiodi…), dall’altra c’è però tanto che sembra essere ignorato. Quando le rappresentazioni tentano di ripercorrere a ritroso questo passaggio, dai fatti ai ricordi e alla struttura per poi ritornare ai fatti, se non si propongono di raccontare anche quello che probabilmente non è stato detto nella parola scritta, ma che comunque c’era, alla fine portano alle rappresentazioni devitalizzate, prive di elementi importanti, gli unici che possono far apparire veri quei fatti. È un problema che in generale riguarda i film storici. Quando gli eventi sono importanti e abbracciano archi temporali estesi, si finisce per incentrare la rappresentazione sui passaggi più essenziali, deprivandoli di qualche cosa che è imprescindibile, come gli sguardi, i rumori, le attese e i silenzi.
I fatti storici non sono stati una successione nuda cruda di accadimenti, sono stati accompagnati dai silenzi. Se vengono spogliati di tutto quello che caratterizza le vicende umane, alla fine risultano fasulli e astratti.
La mia idea era cercare di raccontare le attese, i silenzi, le incertezze… le cose marginali, come nell’“ultima cena” in cui ho cercato di mostrare quello che potrebbe essere avvenuto nell’anti-cenacolo, fuori dalla cena, le incertezze, i silenzi, le pause…
Ho cercato di evitare la centralità, perché è quella che restituisce minor verità. È come se quello che sta ai margini, proprio perché ai margini, fosse più vero. Anche nel lavoro di regia, ho avuto molte riprove di questo. Quello che precede il ciak e quello che segue lo stop rappresentano momenti di verità. Le macchine continuano a girare e gli attori restano ancora lì, nel limbo. Stranamente, proprio questa testa e questa coda, piuttosto che il cuore della scena, sono più veri, come se la verità stesse ai margini piuttosto che al centro.
Per questo motivo mi sono concentrato su questi dettagli, salvo poi approdare a quelle figure riconoscibili, a quelle immagini popolari e popolaresche che fanno parte di una certa iconografia.
Volendo proseguire nell’elencare i caratteri innovativi di Su Re, è necessario soffermarsi su quello più evidente: la scelta di Gesù, questo Cristo non bello, interpretato con grande presenza fisica da Fiorenzo Mattu. Come sei arrivato a questa soluzione e perché?
Mi sono lungamente domandato come si potesse rappresentare il Gesù, uomo e Dio, e chi mai potesse esserne l’interprete. Come avrebbe dovuto essere il suo volto, bello e fiero? Oppure quello di un filosofo o di un leader impetuoso? Quello dell’agnello mite che si lascerà “muto” condurre al macello? Avevo fatto molti provini, senza mai trovare un interprete possibile. La risposta migliore, anzi l’unica, mi sembrava riporsi in un’assenza visiva o in una rappresentazione indiretta, perché la sola possibile immagine di Gesù forse è quella che resta celata nella penombra del cuore e dell’immaginazione di ognuno di noi. C’è un passo nel Libro dell’Esodo dell’Antico Testamento che, richiamando i limiti e le possibilità umane del mostrare e del vedere, sembra anticipare un principio che governa anche il cinema. Dopo avere chiesto a Dio di perdonare il suo popolo per avere adorato un vitello d’oro, Mosè chiede di mostrargli anche la sua Gloria. Ma Dio non accoglie questa seconda preghiera perché, gli dice, "tu non potrai vedere il mio volto” e gli indica un luogo nelle cui vicinanze sarebbe passato, e passando gli avrebbe coperto gli occhi con la mano, perché, dice ancora Dio, “vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”. Ecco, anche nel fare il mio film avrei forse dovuto “coprire gli occhi” e le orecchie dello spettatore nei momenti in cui si sarebbe affacciata la presenza di Dio, nei momenti in cui accade quello che non abbiamo mai visto e che non può essere visto e mostrato altro che “di spalle” o da lontano. Avrei dovuto farlo spostando il nostro sguardo e quello del pubblico sui “piani d’ascolto” o sui “fuori campo” e se possibile in un lasso di silenzio, affinché nella cesura del visibile e dell’udibile lo spettatore possa invertire la direzione del proprio sguardo e in se stesso ritrovare la visione dell’inenarrabile. Ma, come avrei potuto fare un intero film su Gesù senza mai mostrarne il volto? Ecco allora nei miei pensieri si affacciava un’altra soluzione, opposta. Gesù, il Cristo, ha il corpo e le parvenze di un uomo qualunque. Non è “grande” per l'eccezionalità delle doti umane, è grande perché è figlio di Dio e dunque per le parole che pronuncia e per gli atti che compie, e tutto sortisce effetti meravigliosi perché è Dio che lo vuole. Ma, era difficile tradurre questi pensieri in pratica, anche se la soluzione cominciava a maturare.
Così come c’è un Cristo non bello, allo stesso tempo c’è un Giuda mite, dolce. Questo ribaltamento iconografico è significativo. Dice molto della figura di Giuda, così complessa e così umana, e anche della figura di Cristo che, nel suo essere “non bello” a tratti sembra bestiale, almeno così appare, quando lo scorgiamo morto, devastato dal dolore, con gli occhi gonfi, la bocca torta… sembra davvero il “volto” di un animale sacrificato.
Per la parte di Gesù, inizialmente, avevo scelto un giovane pastore barbaricino che mi aveva colpito per l’aspetto fiero e melanconico e, per quanto lontano dall’iconografia corrente, richiamava l’immagine del Cristo forte e mite.
Ma dopo i primi giorni di ripresa mi ero accorto che un altro interprete, quello di Giuda, scelto per la forte intensità, catalizzava l’attenzione. Allora ho messo l’attore che interpretava Giuda al posto di quello che interpretava Cristo. E per contrappunto, nella parte di Giuda ho messo un giovane dall’aspetto dolce e fragile. Una figura che richiama l’eroe che si sacrifica con infamia descritto nelle Finzioni di Borges, che a me è sempre piaciuta molto e che trova una sua conferma anche nei frammenti di quel nuovo vangelo detto “di Giuda” rinvenuto recentemente. Così l’architettura del film ha trovato un equilibrio; il nuovo Cristo era davvero colonna centrale e, inaspettatamente, richiamava un passo della profezia di Isaia, contenuta nel Vecchio Testamento, in cui si afferma: “Egli non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. Un passo che nel film è tradotto in sardo e letto da mio padre, in voce off. Quanto alla tua impressione di un Cristo prossimo al mondo animale mi viene ora in mente che nella stessa profezia di Isaia, in un passo che segue a quello citato nel film, si dice anche: "Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca".
Questo Cristo così fisico e “bestiale” può ricordare alcuni personaggi di Cipri e Maresco. Cosa ne pensi? È una suggestione sbagliata?
Più volte, anche con riferimento al mio primo film Arcipelaghi, è stata richiamata la vicinanza a Ciprì e Maresco. Ho sempre trovato questa impressione un po’ superficiale perché i miei interpreti, anche se molto connotati e spesso “non belli”, non hanno valenze grottesche o provocatorie. Una vicinanza invece c’è semmai nel proposito di traslare la storia, di raccontare i fatti mostrando qualcosa che esula dall’immaginario e che quindi può essere vissuta dallo spettatore come una storia nuova. Ancora citerei quel passo del Libro dell’Esodo sull’impossibilità di mostrare e vedere Dio, l’inenarrabile. E più in generale quell’indirizzo stilistico che nel cinema è volto più che a mostrare le cose, a stimolare l’immaginazione dello spettatore attraverso delle rappresentazioni indirette.
Da dove provengono gli altri personaggi?
Provengono tutti dal mondo dei paesi della Sardegna interna, in particolare di Ovodda e Oliena, e sono pastori o allevatori, gente che vive molto in campagna.
Oltre a questi, hai lavorato con una comunità di sofferenti psichici. In quale occasione li hai incontrati, cosa ti ha colpito di loro e come hanno elaborato la narrazione che gli hai proposto?
Ero entrato in contatto con loro casualmente quando un amico regista, Pierfranco Zappareddu, mi aveva domandato di filmare un suo spettacolo in un centro medico che ospita paralitici e sofferenti di varie patologie cerebrali e psicologiche, vicino a Cagliari. Avevo scoperto un’umanità fisicamente sofferente e profondamente triste e addolorata. Avevano certamente ogni assistenza medica e tutto quello che di pratico poteva loro occorrere, ma in un luogo separato dal mondo, quasi che alle loro infermità fisiche corrispondesse un’assenza di sensibilità e di emozioni e l’esclusivo bisogno di essere tenuti in vita. In quel luogo, i ricoverati mi erano parsi chiusi in una tenebra dolorosa da cui non fossero in grado e neppure avessero desiderio di uscire. Poi, quello stesso giorno, dopo alcune prove di recitazione con i meno sofferenti, alle quali altri assistevano stranamente senza mai sollevare lo sguardo, il regista dello spettacolo si è avvicinato a loro e li ha accarezzati, come se li conoscesse, ma non li conosceva. Come rivolgendosi al loro cuore, quasi ignorandone l’apparente assenza o le mani rattrappite, li ha affettuosamente baciati uno a uno, e in quel momento ho assistito a qualcosa che mi è parsa un miracolo, un inatteso risveglio, un qualche sorriso che ha improvvisamente illuminato di felicità i loro volti.
È stato allora che ho pensato che Gesù nella mia rappresentazione avrebbe dovuto comportarsi così con i diseredati, malati e “indemoniati” di cui si parla tanto nel Vangelo, accarezzandoli e stringendo loro le mani. E ho pensato di portare sulla scena quegli uomini e altri sofferenti per rivolgere a loro le parole meravigliose delle Beatitudini “… beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati, beati i puri di cuore, perché vedranno Dio." A queste persone devo il suggerimento di nuove preziose chiavi registiche.
Ad esempio, nella scena della crocifissione, loro non guardano i tre personaggi crocifissi, così come hanno fatto durante lo spettacolo a cui avevo assistito nel centro di cura; mantenevano lo sguardo basso o rivolto altrove, sembravano assenti, ma osservando bene i loro volti era possibile rendersi conto che quell’assenza era una maschera e che quello che accadeva di fronte ai loro occhi stava accadendo nel loro cuore. Nel film anche l’episodio delle beatitudini è venuto meno, ma ho potuto domandare loro di interpretare la scena del terremoto che sopravviene alla morte di Gesù. Un terremoto che, riprendendo un’intuizione contenuta ne I vangeli per guarire di Jodorwsky, può essere ritenuta “interiore”, che non si sa se si verifica effettivamente o solo nell’immaginazione di chi sta attorno alle croci, e che ognuno di loro recita quasi immobile, ma ognuno in modo un po’ diverso, ascoltando un rombo e un tremore che cresce dentro di loro.
Un altro elemento che rende originale e nuova questa trasposizione riguarda la struttura narrativa del film. Qual è stata l’idea originaria?
L’idea del film risale a circa quindici anni fa, un giorno in cui mi trovavo a Roma nella chiesa di Santa Maria in via Lata dove era stata allestita una mostra sulla Sacra Sindone. Allora fui colpito da una grande tavola che riportava su quattro colonne i brani dei quattro Vangeli che descrivono i patimenti inflitti a Gesù. Quelle descrizioni mi fecero pensare a diversi testimoni che avessero visto e poi raccontato lo stesso fatto come in base alla propria soggettiva percezione e alla propria sensibilità. Lo stile apparentemente impersonale dei singoli testi, per effetto del loro affiancamento, sembrava trasformarsi e rinviare ai raccontatori e rivelare il tono incerto ma ancora più verosimile e coinvolgente di un ricordo. Fu allora che pensai a un film che raccontasse i “passi paralleli” del Vangelo, reiterando e intrecciandone le scene, quasi come nel Rashomon di Kurosawa, in cui quattro testimoni ricordano e raccontano lo stesso delitto ogni volta in modo diverso.
Come sei passato dall’idea di una lettura sinottica a quella di un’azione “sognata”, posta in una sequenza non lineare, fatta di flashback e salti temporali?
Lungo il cammino della realizzazione ha prevalso un motivo più profondo e per me più vero di interesse per le diverse versioni dei Vangeli, qualcosa che più delle divergenze, che non sono mai sostanziali, riguarda la forma della narrazione. Piccole differenze che si rivelano nell’affiancamento dei quattro Vangeli e che riguardano il linguaggio, talvolta solo l’ordine delle parole, attestando soprattutto la soggettività di ogni possibile racconto e il riporsi di ogni racconto nella sfera della memoria e del sogno. Proprio come accade anche di fronte al medesimo fatto di cui noi stessi siamo stati testimoni.
Mi viene in mente un saggio di quel meraviglioso maestro della psicoanalisi che fu e che resta Cesare Musatti. Nei suoi Elementi di psicologia della testimonianza, Musatti afferma che “non esistono testimonianze di cui si possa dire che sono integralmente vere, perché ogni fatto di cui si viene a conoscenza è visto da ciascuno attraverso la sua specifica persona”. Dunque, mi è parso affascinante fare emergere, anche in una storia così nota e conclamata e nelle stesse testimonianze degli evangelisti, alle quali la Chiesa ha conferito statuto di verità, questa umana soggettività e anche qualcosa che nel racconto cinematografico avrebbe favorito l’immedesimazione e forse restituito al racconto una nuova veridicità.
Ho citato il Rashomoon di Kurosawa, forse avrei dovuto citare tra i miei autori di riferimento anche Robbe Grillet e il suo modo di raccontare e ricordare in modo incerto parole e dettagli di fatti accaduti, in una ricerca che è soprattutto ricerca della verità della percezione. Anche in Su Re il ripetersi ogni volta in modo un po’ diverso delle stesse scene rimanda alla verità che si testimonia nelle incerte e dolorose tracce del ricordo, nelle emozioni e nei sogni dei protagonisti. E poiché tutto è accaduto e tutto permane nella memoria e tutto, nella missione di Gesù, era previsto prima che accadesse, il montaggio è in una sequenza non lineare e la scelta di raccontare tutto come un sogno è divenuta la chiave per immaginarla e mostrarla vera.
Inoltre mi è sembrato che la soluzione dei ricordi e dei sogni che si avvicendano, piuttosto che dei “passi paralleli” esplicitamente legati ai quattro Vangeli, sia più rispondente al desiderio di un racconto che mantenga sommessi i propri significati, nelle poche parole, nei silenzi e nell'assenza di musica. Una soluzione che può trovare riscontro anche in altri aspetti. Ne cito alcuni: il mio proposito di distrarre gli attori da un’eccessiva consapevolezza di sé, adoperandomi per un verso affinché fossero partecipi, catturati dalla vicenda narrata e al tempo stesso un po’ impreparati o spiazzati al momento della rappresentazione, così come nel proposito di rifuggire dalla mia stessa consapevolezza; oppure nell’introduzione di una seconda unità di ripresa, affidata a Uliano Lucas, col suo altro, libero e indipendente punto di vista, che io non dovevo conoscere anticipatamente affinché le sue immagini divergessero dalle dinamiche da me pensate e volute. E infine nella mia disposizione a ritrovare in me stesso i sogni attribuiti ai personaggi della storia, senza domandarmi quali fossero i significati, sui quali certo ho riflettuto, ma poi li ho voluti dimenticare. E alla fine credo che quei significati permangono nel film, anche se non resi espliciti e rinviati alla riflessione dello spettatore.
Perché hai pensato fosse importante proporre una nuova trasposizione cinematografica della Passione?
Nonostante le innumerevoli rappresentazioni, questa storia secondo me è ancora da raccontare. Premesso questo, c’è da dire anche che non ci si è mai posti questo problema quando alla rappresentazione di Cimabue seguiva, ad esempio, quella di Raffaello perché era evidente che quello che contava è il modo in cui veniva rappresentato l’evento. Nel mio film il modo è rilevante, perché si discosta notevolmente dalle precedenti rappresentazioni cinematografiche, soprattutto nella trasposizione.
La scelta del momento della Passione, tra i diversi periodi della vita di Cristo, conferisce al film un tono cupo, talvolta accusatorio, altre volte fortemente interrogativo. Da cosa deriva questa scelta?
Avrei voluto raccontare qualcosa anche delle predicazioni e dei miracoli di Gesù. Mi sarebbe piaciuto molto. Nella sceneggiatura c’erano diversi episodi che riguardavano le guarigioni miracolose, gli insegnamenti agli apostoli e soprattutto le meravigliose Beatitudini. Ma, alla fine, ho dovuto stare sulla Passione, per ragioni produttive e anche perché l’interprete di Gesù si è rivelato capace soprattutto nel rappresentare la sofferenza. Comunque il centro del progetto è sempre stato la Passione.
Mi chiedi il perché? Ora me lo domando anch’io. Mi sorprende che quello che ho raccontato possa essere colto dagli spettatori come un atto di accusa nei loro confronti. Certo è vero che tutto quello che accade non è da attribuire solo ai cattivi o a un potere che avverte il cambiamento come un’insidia e perseguita chi mette in discussione i valori o la dottrina e come Gesù, con la sua azione, suscita pericolosamente il consenso e l’amore delle folle. Tutti concorrono alla tragedia, perfino gli apostoli che non capiscono, che hanno paura, temono essi stessi di essere traditori, perché avvertono che un potenziale traditore è in ognuno di loro, durante l'Ultima cena, quando Gesù annuncia il tradimento e tutti domandano "Sono forse io?", e di li a poco, quando il Maestro viene arrestato nell'Orto degli Ulivi, fuggono, lo rinnegano. Ma questo oltre che il vangelo è la rappresentazione della società umana e degli esseri umani, o della “natura duplice” che è anche degli esseri umani, costantemente divisi tra il male e il bene, tra la debolezza e il coraggio, tra l’attaccamento a quanto è terreno e la disposizione alle cause più nobili e ideali. Dicevo che mi sorprende l’impressione di cui riferisci perché il racconto della Passione per me è stato al contrario un motivo di commozione e di conforto. E mi sembra che possa esserlo per tutti coloro che sono stati anche solo sfiorati dall’ingiustizia e dalla persecuzione. Quanto alla speranza e a un riscatto possibile, ora che quest’opera comincia ad allontanarsi da me e anch’io comincio ad avere uno sguardo un po’ più distaccato, anche se non proprio come quello degli spettatori, direi che nel film c’è ed è rintracciabile in molte scene, anche se chiede di essere elaborata e capisco che sulle prime prevalgano le impressioni cupe di violenza e di crudeltà. Una speranza, espressa attraverso la parola, è nell’Ultimo Comandamento che Gesù affida agli apostoli durante la Cena. Ancora una speranza è dichiarata esplicitamente alla fine, nella profezia di Isaia e nell'immagine dei tre bambini che risalgono il colle, pietroso e inondato di luce, che allude al proseguo difficoltoso ma inarrestabile della vita. Un motivo di speranza per me è in quell'uomo che si presenta a Pilato per domandargli di seppellire il corpo di Gesù e, pur in un mondo dominato dalle temibili ragioni del potere, si definisce con l’appellativo più antico e profondo che qualifica un legame: come “un amico”. Solo allora quel Pilato che, precedentemente, compare in uno spazio interiore e metafisico, lui prigioniero della ragione, condannato al confronto con la parte emotiva e femminile di sé, rappresentata dalla moglie, solo allora, di fronte a quel coraggioso amico di Gesù, scopre, o si può immaginare che scopra, la risposta che solo il cuore, e non la ragione, può dargli. Parteggiare, e operare, rispondendo ai sentimenti e ai valori morali, piuttosto che alle ragioni della logica e dell’opportunità. La speranza è anche nel coraggio e nell'orgoglio di Maria che di fronte a Pilato e alla folla che invoca la morte di Gesù dichiara l’innocenza del figlio e implicitamente afferma un inesorabile principio di giustizia. E ancora credo che una ragione di speranza possa essere colta nei volti silenziosi dei poveri e dei malati che condividono le sofferenze di Gesù.
Per un film come Su Re, la questione dello sguardo dell’autore, il sapere se sia quello di un credente o meno, ha una certa rilevanza. Durante l’incontro con il pubblico al Festival di Torino, hai rimproverato uno spettatore ti ha chiesto se sei credente o meno.
Nell’incontro con il pubblico mi sono arroccato in una posizione teoricamente giusta, ma in pratica sbagliata che coincide con l’affermazione che il film debba parlare. È vero, in teoria, ma se c’è un autore, questi deve dire di sé e dell’opera, deve accompagnarla con delle riflessioni che fanno parte del film. La domanda di quello spettatore, invece, era legittima e mi offriva una bellissima opportunità.
Se dovessi rispondere ora a quella domanda, cosa diresti?
La questione, dunque, è sapere quanto il sentimento religioso dell’autore possa influire sulla rappresentazione. È un problema che vorrei io stesso cercare di capire. Per un verso sarei portato a pensare che questo aspetto non sia così importante, che contino altre sensibilità. Ma il punto è anche un altro.
Anche se non mi piace la definizione che si dà oggi di “credente”, io mi sento credente. Riconosco, cioè, un qualcosa che lega un individuo con gli altri individui, e con tutto quello che li circonda (quel che si dice altrimenti il creato). Tutto questo, poi, è connesso a un tempo indefinito che li precede e li seguirà, a quello che è considerato l’al di là. Un al di là che è vivo, che si affianca all’al di qua, sorta di transito breve nel quale ci troviamo. Noi dialoghiamo con l’al di là, io lo faccio e credo che lo facciano tutti quanti, sia i credenti che gli atei, perché i nostri cari continuano a parlarci anche dopo che sono morti.
Per rispondere alla domanda, posso dire che io mi relaziono con questa dimensione misteriosa, riscoprendo, ad esempio, l’importanza della preghiera. Pregare per me è una cosa importante. Rileggendo il Vangelo scopro che Gesù non solo prega, ma invita alla preghiera, fa miracoli e insegna a fare miracoli.
A volte si rimprovera alla religione cristiana di porre gli esseri umani in una condizione di subalternità, per cui devono chiedere e attendere, ecco io credo che questa sia una deformazione. Gesù nel Vangelo dice che chiunque può spostare una montagna, basta che abbia fede e preghi, ovvero che liberi una forza che c’è nell’individuo e permette di fare cose che altrimenti si considerano impossibili. Questo, in sostanza, è il miracolo: operare con un proposito che non si ferma di fronte a tutto quello che è razionale.
Devo dire, tra l’altro, che se sono riuscito a fare questo film, nonostante tutto, è grazie a un proposito non razionale. Se io avessi dovuto assecondare delle considerazioni razionali, avrei probabilmente desistito. Invece il mio proposito era irriducibile, ed è per questo che ho superato molte difficoltà, perché era un credere, e volere.
Pur trattando della Passione, con tutto il carico ideologico che questa “narrazione” porta con sé, il film si concentra principalmente sugli accadimenti e non indugia mai sui corollari religiosi. In quanto sequenza di accadimenti, tra l’altro non cronologica, il film parte dalla crocefissione, che si assume come perno narrativo a cui tutte la azioni tornano. La crocifissione, però, è vissuta come un evento in sé, come messa a morte, nuda e cruda. Nel film, ad esempio, la preghiera non è centrale.
È vero, il film mostra dei fatti, una sequenza di accadimenti. Penso che l’interrogarsi sull’esistenza o sulla rappresentazione di una dimensione trascendentale che alluda a Dio, può trovare in questo caso soltanto delle risposte indirette. Nel film, Dio non viene quasi nominato, non si prega, non ci sono miracoli. Però ci sono sguardi, silenzi, suoni e rumori di pietre e di vento, ci sono ansimi e gemiti. C’è la natura, c’è la trascendenza e forse anche la speranza.
Gesù durante l’ultima cena predica e lascia il famoso ultimo comandamento, trasmette attraverso questo la ragione del suo essere in questo transito di cui si parlava prima: l’amore, l’amore tra gli individui, tra gli esseri umani, e tra gli esseri umani e la natura. È la via, in una prospettiva molto ampia, per la salvezza degli esseri umani.
A Gesù si riconosce natura duplice, ma ogni uomo ha una natura duplice perché ognuno di noi ha un lato debole attaccato alle cose più banali, meschine o cattive, e ha anche un alto che gli renderebbe possibile opere di generosità, di altruismo, di eroismo. Questa varietà e complessità di sentimenti è sempre presente nell’animo di ogni individuo, in cui prevalere l’uno o l’altro. Ogni individuo è duplice. Anche Gesù ha delle debolezze. C’è un momento in cui domanda a Dio, a quel Dio che ancora una volta possiamo immaginate trascendentale oppure soltanto in lui, di essere sollevato da questa impresa perché sa che quella missione lo porterà a morire in modo atroce.
Non occorre avere una grande immaginazione per capir cosa succede a un dissidente, perché Gesù è un dissidente, viene mandato a morte non dai romani, secondo il Vangelo, ma dai rappresentanti della Chiesa, della sua stessa Chiesa. Gesù dissente, propone dei cambiamenti che in realtà sono un rovesciamento di molti valori: laddove c’è una legge vendicativa propone un principio volto all’amore e al perdono, e in questo suo rovesciare i valori fondamentali, acquisisce anche un’altra gravissima colpa che è quella di avere un successo immenso. Piace alle folle. Il potere della Chiesa viene fortemente minacciato. Ecco allora la congiura.
Le storie riproducono sempre gli stessi meccanismi narrativi: i nemici più pericolosi sono sempre quelli interni, e anche a Gesù succede proprio questo.
Vorrei ora soffermarmi sul alcuni aspetti formali e tecnici di un film che riesce ad essere innovativo anche da questo punto di vista. Mi sembra che più che al cinema tu abbia guardato alla pittura per immaginare l’estetica della tua messa in scena.
Comincio col dirti che tra i miei pittori prediletti c’è un fiammingo, Bruegel “Il Vecchio”, che con la sua Salita al Calvario, ambientata in un vasto paesaggio dominato da una rupe su cui campeggia inequivocabile un mulino a vento, ha dato conforto alla mia trasposizione ingiustamente accusata di localismo. C'è Memling, con un’altra Passione ambientata in una Gerusalemme immaginaria e fantastica, rappresentata in una visione quasi assonometrica che ricorda i disegni di Esher, in cui è possibile scorgere, in una molteplicità di scene che si affiancano sincronicamente, in modo quasi cinematografico, tutti i momenti che vanno dall'Ultima Cena alla crocifissione. Di Memling mi colpisce, e mi è stata di stimolo, la sua rappresentazione fortemente astratta e metafisica. Rispetto ad altre rappresentazioni pittoriche, in cui la folla è rappresentata più o meno realisticamente, nella sua Passione la folla è del tutto simbolica, composta da poche e isolate figure. Direi che una visione simile a quella di Memling può essere ritrovata nella rappresentazione del Calvario che c'è all'inizio di Su Re. Tutto si riduce a un uomo semi nudo e disteso per terra che attende di essere inchiodato su una croce. Un altro uomo è in piedi con un martello. Fuori campo un ordine: “Inchiodalo”. Poi il campo si allarga e compaiono man mano altre figure. E c’è senza dubbio Grunewald, mio Maestro e grande predecessore nell’avere immaginato un Cristo doloroso, espressivo e non bello.
L’unico rapporto che possiamo intessere tra Su Re e le altre più note trasposizioni cinematografiche è, forse, con il Vangelo di Pasolini. Cosa ha significato per te quell’opera? In che modo l’hai tenuta presente?
Avevo deliberatamente evitato di rivedere Il Vangelo secondo Matteo, come avevo evitato di leggere la sceneggiatura del vangelo (mai realizzato) secondo Dreyer, che è in assoluto il regista che più amo. Sentivo di dover seguire il filo della mia immaginazione senza essere influenzato e senza neppure sentirmi obbligato a fare scelte del tutto diverse dagli autori a cui mi sento più vicino.
Arrivò così il giorno del primo ciak, cominciammo a girare la congiura e il processo a Gesù nella basilica quattrocentesca di San Giovanni di Sinis a Cabras. Ci eravamo dotati di mezzi piuttosto sofisticati ma pesanti, che era possibile muovere solo su binari e che non lasciavano spazio all’improvvisazione. Questo aveva comportato un effetto di irrigidimento nello stile e nelle dinamiche della messa in scena che mi aveva portato a realizzare immagini terribilmente somiglianti a quelle di uno sceneggiato televisivo. Quando me ne resi conto trascorsi qualche notte insonne. Fu allora che venni meno al proposito di ignorare Pasolini e cominciai a leggere una sua biografia. Scoprii allora che anche Pasolini girando Il Vangelo secondo Matteo era incorso in una circostanza simile. In un suo diario racconta che dopo i primi giorni di ripresa fu sul punto di rinunciare, perché le prime immagini erano a suo dire “orribili”. Immagini girate con uno stile “sacrale” che risultavano inaccettabili in una storia per se stessa sacrale. Lo stile doveva essere per contrasto quello informale del cinéma verité. Fu un momento di svolta. Per fortuna, a causa di finanziamenti non pervenuti, le lavorazioni erano state interrotte dopo pochi giorni e quando ricominciammo, dopo circa un anno, ritrovai lo spirito e lo stile con cui avevo girato i provini. Solo macchine a mano, niente luci artificiali, location completamente diverse e il cambio, di cui ho già detto, dell’interprete principale. I punti di contatto tra Su Re e l’opera di Pasolini sono comunque consistenti. Innanzitutto la trasposizione in uno scenario diverso da quello storico, anche se la Matera di Pasolini forse allude ancora a Gerusalemme, mentre gli scenari di Su Re sono e rappresentano dichiaratamente la Sardegna. Inoltre, il ricorso ai non attori e il rilevante proposito di raccontare le vicende evangeliche filtrandole attraverso lo spirito e l’identità di un diverso e altro universo popolare. "Il vangelo è ovunque" è la grande intuizione di Pasolini che vale per il vangelo e per ogni altra storia. Un’intuizione di cui si dà un precedente solo nelle opere dei pittori del Rinascimento europeo. Quanto alle differenze tra Su Re e Il Vangelo secondo Matteo direi che sarebbe sbagliato ridurle a fattori circoscritti e del tutto ponderabili. La struttura narrativa delle due opere è molto diversa. In un caso domina la parola e nell’altro prevalgono i silenzi.
Il film sembra lavorare su due assi: la superfice dell’immagine digitale (raccontata splendidamente, ad esempio, dalle immagini sospese del sonno degli apostoli) e l’immersione della visione che scava tra le persone, i corpi, le rocce rimandando a una sensazione di estrema immanenza. Come hai lavorato tra queste due tensioni?
Ho lavorato su due registri. Quello espressionista, con inquadrature molto ravvicinate e dal basso, con un obiettivo 35 e in qualche caso col 25, per dare enfasi ai primi piani, e con piccoli aggiustamenti progressivi dell’inquadratura che precedono gli spostamenti dei personaggi, per dare la sensazione che fossero come guidati dalla macchina da presa, ovvero dallo sguardo di un essere invisibile o da qualcosa di misterioso e oscuro che stava in loro. Quell’essere invisibile naturalmente ero io, che stavo di fronte a loro tenendo la cinepresa, e suggerivo, bisbigliando, quello che avrebbero dovuto fare, aspettandoli a volte quasi fuori campo o ai margini dell’inquadratura. In certi casi i miei suggerimenti diventavano ordini bruschi e contraddittori per creare nell’interprete uno stato di incertezza e di tensione. Chiamavo la battuta, ma ordinavo che la battuta venisse pronunciata in silenzio, senza parole. Una cosa senza senso. E in virtù della mia autorità insistevo, quasi con violenza, ma un attimo prima che l’interprete pronunciasse la battuta convenuta, o che io gli avevo chiesto, un momento prima con macchine da presa già in azione, sempre con voce perentoria, aggiungevo che la pronunciasse "senza parole". E solo quando la tensione giungeva al massimo e l’interprete non sapeva più cosa fare, una volta che si era dimenticato di essere un interprete e si era davvero arreso a quello che accadeva sia pure nella finzione, lasciavo che la battuta affiorasse libera da ogni predeterminazione.
Poi ho lavorato sul registro quasi documentaristico, usando anche obiettivi più stretti, perché anche questo mi è sembrato importante e bello in un film che pur con tutte le sue trasposizioni resta in certa misura di genere storico. Dico per inciso che non ho mai amato nei film di genere storico il fatto che tutto sia sottomesso alla regia, alle luci di scena, al copione e ai movimenti preordinati. Ecco dunque la necessità di riproporre anche i tempi non cinematografici della realtà, le azioni non del tutto convenute e perfettamente visibili, le sfocature, le immagini traballanti. Sulle immagini instabili, che tremano e oscillano anche nei campi lunghi, devo dire che il motivo non è solo estetico. È vero che c'è la reazione alla grammatica del giusto e del dovuto che tante volte si sovrappone a quanto è più vero e intenso, che condivido sentitamente, e che va ascritta al Dogville di Lars von Trier. Ma c'è anche una ragione di contenuto che trova rispondenza nella storia del Cristo che con la sua parola e con la sua azione scuote le coscienze e il mondo. È il terremoto, il crollo dei vecchi valori, il cambiamento profondo e immenso. Per questo tutto trema, anche le immagini.
Il film ricorre molto alla macchina a mano, e tu sei anche l’operatore. Perché hai scelto di stare in macchina?
Avrei volentieri demandato, solo che improvvisando sarebbe successo che l’operatore avrebbe fatto dei movimenti eccessivi, mentre a me in certi casi piace che il personaggio esca fuori campo, perché io so quando farlo rientrare, ed è bello che la macchina non segua l’attore, la macchina deve muoversi per conto proprio, in certi casi può precedere, ma mai seguire, deve avere un suo comportamento.
C’è anche una convenzionalità della macchina a mano, ma non si può dire che questa macchina a mano sia convenzionale. È, invece, molto soggettiva e personale.
Non è solo un discorso tecnico, perché ha a che fare con lo sguardo, il racconto, è un discorso che riguarda la centralità e marginalità, di cui parlavamo prima… Ad esempio, è interessante analizzare la sequenza dell’“ultima cena”: la macchina si muove e spesso si sofferma sullo spazio vuoto tra gli apostoli e Gesù.
Nelle convenzioni del cinema è scritto che lo spazio che intercorre tra due figure è uno spazio imbarazzante, non sostenibile, di puro intralcio. Altra regola micidiale: la macchina da presa non deve traballare, e neanche deve avere movimenti troppo bruschi… da qui nascono queste riprese innaturali, lente, controllate. Invece lo spazio in mezzo a due personaggi può essere bellissimo e pieno di significato. Questo film è giocato sull’assenza, sul vuoto, in primo luogo di Gesù, come nella scena della Cena. Gesù non si vede, è molto a margine, tutto quanto viene fatto immaginare piuttosto che essere mostrato… è chiaro che anche la tecnica di ripresa ne risente e diventa un problema estetico ed espressivo. Per questo sono in macchina perché non posso spiegare all’operatore cosa deve fare, o lo trova in sé oppure niente.
Prima ti citavo il passo dell’Antico Testamento relativo all’invisibilità di Dio. Questo io l’ho accolto come un precetto cinematografico e narrativo. Dio, ovvero il mistero, non può essere mostrato, afferrato, visto in faccia, può essere solo immaginato, e quindi visto di spalle e a distanza. Ovvero, fuori campo o attraverso i piani di ascolto, perché è solo dentro di noi che lo possiamo trovare. Mi è sembrata interessante questa formulazione perché torna con un certo tipo di cinema, rispetto alle due correnti: quella che tende a stringere, mostrare, sottolineare, musicare, rispetto a quella che tende ad allontanarsi e generare dei vuoti, degli spazi di silenzio o lavorare sul fuori campo, sui piani d’ascolto nei momenti drammaturgicamente più acuti. È chiaro che io abbracciando questa seconda linea, anche nella ripresa ho adottato questo modulo.
Una delle sequenze che mi ha colpito di più è quella che alterna l’Ultima Cena al sonno degli apostoli nell’Orto degli Ulivi. Il risultato è che l’Ultima Cena sembra un incubo, un sogno….
Il Vangelo racconta l’ultima cena come se fosse un incubo. Tutti si domandano chi è il traditore; Gesù prima non risponde, e poi dà una risposta ellittica che gli apostoli non capiscono, lasciandoli così nella tragedia. Ecco è verosimile, con un po’ di libertà che loro se la sognano… La sequenza del sonno degli apostoli mi ha creato diverse domande. Mi chiedevo, ad esempio, come dormissero gli apostoli quella sera nell’orto.
Loro erano vittime di un incantesimo, perché Gesù gli dice di stare svegli mentre lui sarebbe andato a pregare, ma allo stesso tempo li fa piombare in un sonno profondo. Gesù, che è duplice, parla e agisce su due livelli: da una parte il Gesù uomo chiede conforto, chiede di pregare, ma dall’altra il Gesù più elevato non può che prendere la decisione se vivere o morire se non da solo, senza il conforto di nessuno. Per questo motivo, il Gesù più elevato addormenta gli apostoli. Gli chiede di stare svegli e di pregare per lui, ma in realtà li addormenta perché questi precipitano in un sonno che è quasi stregato. E per questo mi sono a lungo chiesto come poter rappresentare questo sonno stregato. Li avrei dovuti fare tutti che dormivano con gli occhi aperti, che dormivano con gli occhi aperti… questa era la chiave, ma l’ho capito solo dopo.
(l'intervista è stata pubblicata parzialmente su "Lo Straniero" n. 152)