Abbiamo incontrato Apichatpong Weerasethakul al Festival di Locarno, dove ha ricoperto il ruolo di presidente della giuria, per un breve scambio riguardo la sua produzione recente.

In Mekong Hotel gli effetti speciali sono messi in luce in maniera naturalistica, senza lavoro ulteriore su di essi, un po’ come in Mysterious Object at Noon, in cui c’è un gioco di svelamento del gioco di prestigio nei confronti dello spettatore.

Per me ha molto a che fare con il processo di filmmaking che amo e che amo svelare, spogliare. Mi piace rendere lo spettatore consapevole del fatto che si tratta di un illusione, di un artificio. In qualche modo, ritengo che questo gioco di svelamento sia alla base del cinema stesso…

Possiamo dire, dunque, che lo stesso progetto Primitive sia stato concepito come un modo di espandere questo gioco di svelamento dell’illusione?

È il piacere di interagire con ogni cosa per mezzo della macchina da presa. Il video mi permette di essere più libero nella strutturazione del film e persino nel modo stesso in cui giro, mentre la pellicola e la troupe necessarie ai film in pellicola implicano meno mobilità. Mi piace lavorare in un posto dove posso svegliarmi e mettermi a girare, come è accaduto con Mekong Hotel. È stato molto rilassante e mi piacerebbe poter “importare” questo modello anche nei film in pellicola, sempre che si continui a usarla…

Mekong Hotel è un lavoro in divenire o si tratta di un’esperienza conclusa?

Ho appena finito altri 10 minuti di un film per il Walker Art Center di Minneapolis, incentrato sull’attrice del film e il suo rapporto con il fiume. Non si tratta tanto di un progetto quanto di un diario, però.

Pensando a Primitive, è partito da un’idea di partenza da sviluppare secondo diversi punti di vista o si è trattato di una sorta di progetto auto-generante con i singoli pezzi che si componevano lungo il percorso?

La seconda opzione è quella giusta: si è trattato di un lavoro molto organico, spontaneo, un pezzo dopo l’altro, senza grande pianificazione. Come ho detto: cerco di emulare la libertà che concede il video anche su un piano di approccio al medium, porto avanti l’idea di una libertà “casuale” che favorisce la concezione del film. A fornire spunti per il mio lavoro sono spesso la vita stessa e le persone che incontro.

primitive

In un’intervista riteneva Bonmee una tappa di passaggio verso una nuova fase della sua carriera. Ad esempio, tutti i suoi film precedenti erano divisi in due parti, a cominciare da Blissfully Yours. Possiamo dire dunque che Bonmee funge da spartiacque all’interno della sua produzione?

Non lo so, ma potrebbe darsi. Nel cinema di oggi la scrittura è molto evidente, si vedono immagini ma emerge con forza la struttura della sceneggiatura che le sorregge. Per me il film dovrebbe distaccarsi da questo tipo di forma. È così che lavora la mia mente, in una maniera più aperta, in associazione con la memoria: mi piace avere uno script ma non così solido e rigoroso. Per quanto riguarda la suddivisione in due parti, non saprei… Quando stavamo lavorando a Syndrome of a Century non era concepito così ma poi è stato come se il film stesso esigesse di prendere una nuova forma. Spesso si tratta di ascoltare il film mentre lo stai facendo, ma anche l’ambiente e tutto quello che lo circonda.

Crede che il cinema, o quantomeno il suo, avrà sempre più a che fare con la memoria, personale e collettiva, e con quella del cinema stesso?

Mi piace lavorare su una memoria molto vicina al tempo in cui si realizza il film. La memoria ha a che fare con qualcosa che è passato, che non c’è più, ma può essere anche la memoria di qualcosa che è appena accaduto, di un “adesso”, una memoria che si crea nel presente.

Il progetto realizzato per MUBI, Ashes, ha un approccio visuale molto sperimentale e ci ha richiamato alla mente i lavori di Mekas e Frampton…

Sì, certamente. In un certo senso non ha niente di nuovo, porta con sé l’idea di simulare un film per mezzo di un approccio personale, come si faceva con il super 8. La Lomokino (la macchina utilizzata per girarlo, ndr) permette di fare proprio questo, spalanca porte verso il passato e ti permette di non dover pensare, basta semplicemente guardare e raccogliere, un processo quasi vertoviano, per certi versi. È molto in sintonia con la mia idea di meditazione, di creare consapevolezza intorno alla singolarità dell’istante… Quanto allo stile non l’ho propriamente scelto, è la macchina che funziona così! Avevo un prototipo di questa macchina e non ho avuto l’occasione di fare delle prove, così quando ho visto il materiale ho pensato che fosse quasi inutilizzabile… ma anche questa è sperimentazione!

Una domanda sulla situazione politica nel suo Paese: è vero che sta pensando di implicarsi personalmente nella politica locale?

No, potrei farlo solo attraverso le immagini. Quando penso alla Thailandia mi rendo conto che ci sono molte cose che non possiamo fare. Un film come When Night Falls (il film di Liang Ying premiato a Locarno, nda) sarebbe impensabile nel mio Paese. La chiamiamo una democrazia ma è lungi dall’esserlo, tanto da spingerti a chiederti se vuoi rimanere a vivere e lavorare lì, con il rischio di finire in galera o allontanato. Mi piace molto l’idea di un cinema allegorico, come quello dell’est Europa sotto il regime comunista, la capacità di dire cose importanti sotto la superficie. Anche se pure quella modalità può spesso risultare noiosa…

Locarno, Agosto 2012