Non «fine», ma «Fine del cinema». Terminava così Weekend, primo ultimo film di Godard. Ne verranno altri, dopo questa allucinata, feroce, grottesca opera rovina, primo furente passo verso lo scollamento dell'autorialità da questa medesima etichetta borghese, verso la morte dell'autore per saturazione, come fosse un recettore di immagini soffocato dall'eccesso di un carnevale buffonesco e funereo, da una caricatura violenta del fin de semaine, da una festa bachtiniana di un nuovo medioevo organizzato secondo lo sguardo del Capitale.
La concretezza di questa fine provvisoria (ed è la provvisorietà la cifra di Godard, la costante domanda che s'insinua nei dogmi, la virgola che rimanda i punti finali) è data dalla partecipazione ai Ciné-tracts organizzati da Marker, strumenti del maggio '68, e, soprattutto, da Un film comme les autres, collasso della grammatica elementare del cinema, registrazione di conversazioni tra studenti e operai sul destino del movimento: un'opera rumore, contro la comunicazione e contro la comprensione, respingente nel suo confondere le traccie audio, nel suo preferire costantemente l'insignificante, nel suo cercare di ribadire il filtro di un cinema (meccanismo di ripresa ridotto all'ottusità) mentre lavora contro il significato. È qui che Godard radicalizza una tensione sotterranea nella sua precedente produzione, quel brusio e quell'interferenza sonora (vengono in mente, ad esempio, i gracchianti walkie-talkie di Pierrot le fou) che ricorrevano attentando alla comprensibilità dell'audio, come fossero una richiesta di consapevolezza circa la presenza di un divario, di una distanza e di un cambiamento nel canale tra emittente e ricevente, tra segnale d'entrata e d'uscita.
«L'inconscio è strutturato» si dice in Le gai savoir, la separazione tra realtà e immagine ne consegue. «Se vuoi conoscere il mondo, chiudi gli occhi». In nuce, in questo aggiornamento di La cinese, c'è quel che verrà da lì a poco: la domanda sul rapporto tra cinema e realtà è una domanda prima di tutto politica, che chiede al regista militante di sottrarre il linguaggio cinematografico agli automatismi dello sguardo borghese, all'idea/immagine di mondo dominante. Anche distruggendola, anche autodistruggendosi. Da sempre la storia del cinema di Godard è abbarbicata alla sua stessa critica. E pensava questo, nel 1969: «per filmare in una maniera politicamente giusta bisogna legarsi a persone di cui si pensa che sono politicamente giuste. Vale a dire coloro che sono oppressi, che subiscono la repressione e che combattono tale repressione». Sdegnato dall'idea stessa di autorialità, nozione reazionaria, Godard fonda con Jean-Pierre Gorin, giovane militante marxista conosciuto sulle ceneri del maggio 68, il Gruppo Dziga Vertov, in nome di quelle teorie «che consistono semplicemente nell'aprire gli occhi e mostrare il mondo in nome della dittatura del proletariato», contrapponendo Vertov al revisionista Ejzenstein. Avulso dai circuiti cinematografici ufficiali, il cinema maoista del gruppo è all'insegna dell'autocritica, sperimenta continuamente nuovi rapporti tra suono e immagine, tra suono e suono, immagine e immagine, rapporti di lotta continua, per giungere a una teoria di un cinema fatto politicamente.
«La borghesia crea un mondo secondo la sua immagine, ma crea anche un'immagine secondo il suo mondo. Crea l'immagine di questo mondo che si chiama riflesso del reale». Si apre così, British Sounds, èd è quella immagine che il cinema politico, citando Marx, deve ridurre a brandelli. La forma è quella del frammento, tra analisi dei rapporti di produzione all'interno della British Motoring Corporation, frasi reazionarie di ministri inglesi declamate in un eccentrico programma Tv, testimonianze orali di lotta di classe dette da un bambino, dibattiti e riscritture di canzoni pop, immagini e suoni, soprattutto, che non si certificano mai come assoluti, portatori costanti di un'ambiguità (per dialettica audio/video o per paradossale e imploso eccesso di dogmatismo) che è la tensione, ancora non espressa in maniera radicale, della ricerca del gruppo.
Dopo il suicidio premeditato e (dis)integrato di Vento dell'est, opera politica che, secondo i canoni produttivi in voga, si autodanneggia, sfilacciando in lacerti la narrazione, disinteressandosene, eludendo le gerarchie divistiche, aprendosi al dibattito politico e, ovviamente, alla propria autocritica, il gruppo giunge a Pravda, poi a Lotte in Italia, ipotesi di un cinema fatto politicamente, saggi di analisi concreta, e insieme certificazioni di fallimento, di invadenza dell'ideologia (che prende la forma di spazi neri, in Lotte in Italia, come se la pellicola fosse organizzata dalla griglia schematica ed evidente del pensiero), continue messe in scacco dei propri tentativi, riflessioni non appagate, film che sono il farsi del film e il disfarsi dei modi inaccettabili in cui filmare politicamente. Capolavori di dialettica, monchi e imperfetti per esigenza, opere di educazione radicale all'etica dell'immagine, i film del gruppo trovano il momento terminale in Vladimir et Rosa, deflagrazione caricaturale, autoparodia e dunque atto conclusivo, con postilla in Letter to Jane: an Investigation about a Still, dove chirurgicamente si seziona la celebre fotografia di Jane Fonda in Vietnam. «Si inquadra, da una parte, la vedette che sta militando, e dall’altra parte, nello stesso movimento, la militante come vedette», per amor di inevitabile paradosso. Rimane Jusq'à la victoire. Méthodes de pensée et de travail de la révoluton palestinienne, girato nel 1970 per analizzare la concretezza della situazione della Rivoluzione Palestinese.
Il Settembre Nero, l'onda terroristica conseguente, la morte della maggior parte degli attori che avevano partecipato alle riprese, portano Godard e Gorin ad abbandonare il progetto. Che ritorna quando Godard, morto e rinato per l'ennesima volta con Numéro Deux, battesimo nel territorio del video, remake irriconoscibile di A bout de souffle, rielabora il girato con Anne-Marie Miéville, sua compagna: Ici et Ailleurs, qui e altrove, è una riflessione al grado zero su quell'et, sul qui separato dall'altrove (come nell'episodio godardiano di Loin du Vietnam), sul turismo insito nel documentario e sul suo smascheramento, rivelando, nel caso ce ne fosse ancora il bisogno, i limiti e i vizi della pratica estetica del periodo Vertov, con quei parlati catturati e trasformati in suoni dispotici, nel volume eccessivo dell'ideologia che soverchiava un'altra ideologia. Il qui non è l'altrove, l'immagine video si modifica e s'interroga continuamente, si dibatte per pulirsi. (Verrà Notre musique a riprendere il discorso (non solo) palestinese, consapevole che un campo e un controcampo sono la separazione di due mondi, che la verità ha due facce, e che l'unico territorio di condivisione è il linguaggio poetico).
Comment ça va?, domanda a cui precedentemente Godard (ancora con Gorin) aveva risposto sardonicamente Tout va bien, è il punto più alto (e più abissale) di questa ricerca, di questo continuo ritorno sulle immagini prodotte, di questo costante grado esponenziale del discorso, della concretezza sfinente dell'analisi. Un film entre l'actif et le passif, ancora negli interstizi, ancora sugli et. E sui ma che confutano il raggiungimento di una rappresentazione ideale. Un film sul fare un video sul fare un giornale d'informazione, una guerra dialogica tra una lei (la Miéville stessa) e un lui (i film di Godard sono quasi sempre film su un uomo e una donna), nell'informarsi e deformarsi dell'immagine che si monta internamente, su quel rumore, ancora, che distorce le cose, il modo in cui comunichiamo e prendiamo consapevolezza di quel che comunichiamo. Un'esperienza di pragmatica, di riflessione sul contesto di produzione del senso, che diviene questione biologica: Godard, con esasperazione disperata e caricaturale (che diremmo misogina, se non lo conoscessimo, sicuramente triste e grottesca) trasforma in metafora lo sperma in input comunicativo, il corpo della donna in brusio della macchina, il figlio in risultato corrotto, informazione manipolata, copia non conforme.
Il protagonista scrive al figlio, il primo è un intellettuale, il secondo un operaio, rappresentano due momenti della produzione d'informazione e non c'è contatto tra di loro, le loro storie rimangono l'una il fuori campo, la voice over dell'altro. E le relazioni sentimentali sono relazioni di lavoro. Lei, poi, se ne va. Ed è come se il martellante insistere delle domande di Godard sulla rappresentazione, qui all'apice della densità, l'ostinarsi a ribadire che non esistono immagini giuste, il dimostrare che un'immagine è giusto un'immagine, fossero qui un vortice che si scopre autistico, separato questa volta dall'esistenza, nel ricordo malinconico di quel che necessariamente manca alla vivisezione, all'asintoto verso la totale trasparenza del senso, a questo lavoro che chiede precisa ars destruens ed è costretto a negare ciò che comunque desidera: il marchio dell'emozione, quello del sentimento.
UN FILM COMME LES AUTRES, regia di Jean-Luc Godard, Francia, 1968, 100'
LA GAIA SCIENZA (Le gai savoir), regia di Jean-Luc Godard, Francia/RFT, 1968, 94'
VENTO DELL'EST (Le vent d'est), regia di Jean-Luc Godard, Francia, 1969, 95'
BRITISH SOUNDS, regia di Jean-Luc Godard, Gran Betagna, 1969, 52'
PRAVDA, regia del “Groupe Dziga Vertov”, Francia/RFT, 1969, 52'
LOTTE IN ITALIA, regia del “Groupe Dziga Vertov”, Francia/Italia, 1969, 55'
ICI ET AILLEURS, regia di Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville, Francia, 1970-75, 55'
COMMENT ÇA VA?, regia di Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville, Francia, 1976, 75'
(Ripley's Home Video)