Sontuoso e semplice, pudico e caloroso, intimo e corale, Fill the Void dell'israeliana Rama Burshtein, è una delle poche rivelazioni della 69esima edizione veneziana, l'unica del Concorso, dove non sono mancate opere di pregio, tutte, però, confezionate da registi affermati.
Il cinema israeliano, malgrado l'esilio parigino di Amos Gitai, è tutt'altro che privo di nuovi talenti e opere di qualità. Viene in mente Eyes Wide Open (Eynaym Pkuhot) di Haim Tabakman, presentato a Cannes nel 2009, nella sezione Un Certain Regard. Era la storia d'amore pudica, fine, di un amore gay tra rabbini. Iniziava con sguardi delicati che si trasformavano in passione, ma senza magniloquenza. Dava ulteriore autenticità alla vicenda narrata il fatto che almeno uno dei due rabbini, quello più grande d'età che viene sedotto, non fosse proprio bellissimo; l'altro, invece, lo era, perché i suoi lineamenti erano espressione di modi, posture, e – soprattutto – di una nobiltà d'animo d'altri tempi.
In Fill the Void ritornano questi elementi ma all'interno di sentimenti eterosessuali che non riescono a saldarsi. Sono vettori sfasati, proprio come la comunità rabbinica ortodossa qui filmata è sfasata rispetto all'odierna temporalità. Se Eyes Wide Open faceva esplodere le convenzioni attraverso l'azione dei sentimenti verso posizioni coraggiose, propositive per il futuro, in Fill the Void le convenzioni sono una dolce ragnatela dove i personaggi restano invischiati e dove le donne (mature) divorano le aspirazioni, gli aneliti amorosi, di altre donne (giovani). All'apparenza un film remissivo, mentre invece è un film problematico. Un film spietato che registra i meccanismi di questa spietatezza delle convenzioni e i sentimenti di profonda sofferenza che provoca, ma con grande dolcezza.
Fill the Void è in realtà un grande film sulla purezza. Ma su quella perduta. Rama Burshtein penetra nella comunità degli ebrei ortodossi d'Israele, cosa assolutamente inusitata che può fare solo perché vi appartiene, e ci regala un film rispettoso, amoroso quasi, ma anche problematico, per raccontarci qualcosa che si sta perdendo, irrimediabilmente. Un vero e doppio exploit realizzato come opera prima da un'ebrea newyorchese di nascita, autrice e produttrice di film sulla comunità ortodossa, che ha sempre vissuto e studiato, compreso il cinema, all'interno di quel mondo. E in particolare a Gerusalemme. Amandolo, senza alcun dubbio.
L'intera dinamica psicologica e sociale narrata, riflette le concezioni, le tradizioni, i modi di fare, di parlare, perfino di sentire il mondo… un mondo che non c'è più. Poiché quello di Fill the Void è un mondo di ieri, per citare Stefan Zweig, scomparso, perduto. Anche se c'è ancora. In realtà, siamo in una bolla spazio-temporale. Una sorta di congelamento, dalla quale il resto di Tel Aviv – metropoli estremamente occidentale – è esclusa. Una bolla, un mondo ovattato, un magnifico limbo. Sarà per questo che nella fotografia domina il biancore di una luce diurna che ha qualcosa del limbo appunto, ma anche di quel chiarore indefinito, di quella luce, se non propria al paradiso, quantomeno propria a quel che si favoleggia esistere nel passaggio tra la vita e la morte, o nei stati di delirio psichico prossimi allo stato comatoso. Il bianco: colore della purezza, non dimentichiamolo.
In questa bolla, il nero degli abiti dei rabbini si staglia sul bianco delle loro camicie. Opposizioni simboliche basiche. Ed eleganza antica, paradigma dell'immutabilità delle tradizioni, del peso di una memoria accuratamente conservata, nel bene e nel male. Fill the Void è una macchina del tempo. Pare di essere tornati indietro, in altri momenti storici: come minimo, prima della Seconda Guerra Mondiale e del grande orrore dell'Olocausto. Un'immersione nel mondo giudaico-religioso tedesco o mitteleuropeo, con i suoi rabbini barbuti dalle treccine nere, muniti per copricapo di colbacchi o di feltri dalle larghe tese. A tratti, il sapore è addirittura antico: giovani uomini con la barba, tale è la nobiltà che traspare dai loro visi, paiono antichi principi di chissà quale dinastia. Le giovani donne, principesse. I canti – onnipresenti, titoli di coda compresi – meravigliosi e avvolgenti. Canti e musiche solenni come se fossimo di fronte alla cerimonia d'investitura di un nuovo monarca.
L'immersione nelle musiche e nei canti, cioè di una coralità musicale (a cominciare dalla festa del Purim, così importante nel film, gioiosa e un po' pazza, una festa dei bambini fatta di maschere e d'identità scambiate a cui aderiscono anche gli adulti), è però preceduta da una breve sequenza, dove, dalla finestra, giungono i suoni pulsanti di musica elettronica moderna, freddi, ripetitivi e anonimi, probabilmente provenienti da una qualche incontro mondano della laica Tel Aviv, destinato a restare ovviamente fuori campo. La finestra è infatti presto chiusa e questa seccante intrusione del nuovo mondo nel vecchio mondo estromessa.
Qui si pensa a due film: all'iraniano I Gatti Persiani di Bahman Ghobadi, che si concludeva tragicamente in una festa all'occidentale dominata da una musica pulsante obnubilante ed anonima; e a Three Times di Hou Hsiao-hsien, uno dei massimi maestri del cinema contemporaneo, penultimo film e finora ultimo suo capolavoro. Là, nel terzo episodio ambientato nel 2005, anno di produzione del film, la musica elettronica seppur miscelata a fratture jazz – rivisitata in modo raffinato, però, da un musicista come Lim Giong che già aveva lavorato col regista, e in seguito collaboratore di Jia Zhang-ke –, era sostanzialmente sinonimo d'infelicità totale, d'incapacità di comunicare, dietro a un'apparente libertà. Nell'episodio muto del 1911, la musica classica, il pianoforte, era foriera di una disperata solitudine, tipica della condizione femminile in quel periodo, ma pregnante per sentimenti delicati e sinonimo di una ricca vita interiore. L'episodio degli anni sessanta, l'unico pervaso in buona parte da un sentimento di felicità, era invece espressione di una libertà miscelata al pudore e alla delicatezza, dove dominano classici caldi del rock occidentale di quegli anni e musiche tipiche taiwanesi.
L'unico difetto che si potrebbe obiettare a Fill the Void è forse una certa estetica un po' patinata, ma in realtà è uno dei suoi pregi fondanti, seguendo il desiderio di restituire la sontuosità di cui sopra. Se si può concordare sulla necessità espressiva di questa luce bianca, diafana, a tratti, però, ci si chiede cosa avrebbero fatto altri direttori della fotografia suscitatori di grandi atmosfere, dorate, calde, come un Carlo Di Palma.
In piena festa del Purim, una donna muore di parto – Esther – e sebbene sia riuscita a procreare, il vuoto – nel bel marito-rabbino promesso, nella madre di lei, in tutta la famiglia – non si colma. Yochai, il giovane rabbino, rifugge dall'unione di seconda mano con una vedova che gli viene prospettata. Il profilarsi di una sorta di fuga all'estero di Yochai suscita nella suocera vera disperazione, perché vorrebbe dire anche la partenza dell'unico nipote. La suocera, madre senza pace, spinge allora perché sia sua figlia Shira, la sorella di Esther appena ventenne, a darsi in matrimonio a Yochai. Fino all'evento traumatico della morte della sorella, la piccola, bellissima Shira, era una bambolina che aspettava con gioiosa impazienza il proprio matrimonio con un giovane della stessa età. Una bollicina nella bolla.
Dilaniata tra doveri famigliari e sentimenti personali, compresi quelli sulla propria libertà, è Shira, ora, ad essere senza pace. Ed è una lunga e tormentata indecisione quella che si prospetta anche per il bel cognato rimasto solo, diviso tra una solitudine sempre più opprimente e la sensazione di compiere forse una scelta affrettata, ingiusta. Ma certo non dilaniante come per Shira, la cui bolla dell'infanzia-adolescenza scoppia con violenza. È la crudeltà delle tradizioni, della memoria. Riempire il vuoto, per rifarsi al titolo del film, non riesce davvero a nessuno. Il vuoto non è solo una morte tragica e improvvisa, ha a che fare anche con la morte delle aspirazioni e dei sentimenti più normali, della vita non biologica. E questo ci viene chiaramente mostrato, rendendoci partecipi del punto di vista della madre di Shira e Esther, suocera di Yochai. Se le madri nella tradizione ebraica sono coloro che perpetuano oralmente la tradizione e la stessa appartenenza giudaica presso i figli, qui appaiono anche come le migliori carnefici dello loro figlie, dunque di loro stesse. Eppure si percepisce tanto amore tra i componenti della famiglia e più in generale della comunità ortodossa chassidica, malgrado le eccessive rigidità. Lo sguardo umano e partecipe del film rende ancora più forte la constatazione dell'inumanità di certe convenzioni (a cominciare dai matrimoni combinati).
Di questa circolazione triste, senza speranza dell'amore, è esemplificativa una scena, la più bella del film e tra le più belle viste al festival di Venezia quest'anno. In piena festa del Purim, circondata da una miriade di bimbi, Shira suona la fisarmonica. Ben presto ci si accorge del sentimento di dolce tristezza, di solitudine che pervade la musica, quanto e forse più del viso della giovane. La musica, per via di uno strumento solitario, deve qui trasmettere un sentimento intimo, privato, di dolore: più ancora dei canti maestosi, è l'esatta antitesi della musica elettronica moderna sentita nella parte iniziale. Controcampo sui bambini, che improvvisamente interrompono i loro giochi e fissano Shira. Chi è più ricettivo di un bambino, proprio perché chiuso/aperto nella sua bolla dell'infanzia? Una sequenza, ed è detto tutto.
Fill the Void (Lemale Et Ha'Chalal), regia di Rama Burshtein, Israele 2012, 90'.