Chalybarium

Questo oscuro termine si potrebbe tradurre con “luogo ove si creano composti con sali di ferro”, visto che nella farmacologia settecentesca tali pozioni eran chiamate “calibeati”, termine che derivava dalla ispanica popolazione dei Calibi, famosa già ai tempi di Giulio Cesare per la lavorazione del ferro. Ma a noi la filologia non interessa: ciò che importa resta il fatto che “Chalybarium” sia stato scelto dal più frenetico e folle dei Romantici, Petrus Borel, detto il Licantropo, che nel 1833 apre con questa sinistra parolina un suo terrificante racconto, “Don Andrea Vesalius, anatomista”. Perché nel Chalybarium, fra tavoli di dissezione ed ampolle fumiganti, si ha la disdicevole abitudine di sfidare Dio. 
 
Quod Legi non potest
 
La prima a sfidare Dio è stata una donna, e più precisamente quel delizioso scricciolo preraffaellita di Mary Wollstonecraft Shelley, il marito Percy, il dottor Polidori ed il Don Giovanni degli Inferi, Lord Byron. Nel giugno del 1816 i quattro  si trovarono rinchiusi, per colpa di interminabili acquazzoni, nella villa ginevrina del Demoniaco Lord e non è che si potesse star tutto il santo giorno a bere laudano: gli amici si diedero ad una lettura collettiva di storie di fantasmi…Eccitati da tal macabro narrare decisero di comune accordo che ognuno di loro avrebbe dovuto scrivere una novella del genere. Passarono molti altri giorni prima che la più nera delle Ispirazioni baciasse in fronte la piccola Mary: la lampadina le si accese in sogno allorquando le comparve “Unpallido studente di arti sacrileghe che creava lo spaventoso fantoccio di un uomo”…Ed ecco nascere il dottor Viktor Frankenstein, l’egolatra la cui propria hubrys lo porta a sbertucciare Dio, ridando la vita alla carne che Egli già aveva deciso di recidere. Il romanzo della Shelley, come suggerisce Stephen King in Danse macabre è “involontariamente ridicolo”: la creatura forgiata con brani di cadavere rattoppati non ha la fosca possanza da incubo espressionista a cui ci ha abituati Boris Karloff: il mostro della Shelley parla un forbito inglese imparato spiando un giovanotto che impartiva lezioni alla propria amata, un’araba di nome Safie, e che poi coltiverà per proprio conto leggendosi Il Paradiso Perduto di Milton e I dolori del giovane Werther di Goethe…Ma, l’Innominabile Peccato comunque è stato commesso: e al dottor Frankenstein non resterà che una disperata morte fra i ghiacci del Polo Nord… Solo nel 1895 il papà della fantascienza, H. G. Wells, ricadrà nelle stesse turpitudini, dando vita sulla carta al Dottor Moreau, peccatore ancor più osceno di quel principiante di Frakenstein. Sì, perché se il mad doctor della Shelley voleva sostituirsi a Dio per esser in grado di rianimare tessuti defunti, Moreau si fa Dio e lo sbeffeggia, cercando di creare una nuova “razza” ove “umano” ed “animale” son usati come in una scacchiera surrealista. Ci vorrà la Nuova Babilonia, cioè Hollywood, per far di questo Demone un Idolo Pagano. Munendolo, per altro, di frusta…
 
 
Nidus Adulteratus
 
Torniamo con la fantasia al 1932, in quel Limbo temporale che divide i sardanapali orgiastici dell’epoca del Muto, dalle ghigliottine castratrici del temibili Codice Hays. La Paramount si imbarca nell’avventura di un adattamento cinematografico del romanzo di Wells (strana decisione: l’eco degli orrori teratologici dei Freaks di Tod Browning non si era ancora spento) e decide di puntare su un paffutto giovanottone inglese, notato a Broadway in un ruolo da bad guy nel grandguignolesco A man with red hair. Scelta non casuale, visto che lo stesso Cecil B. De Mille lo sceglierà per fargli indossare le tuniche di un flaccido imperatore Nerone che gode nel veder sbudellare pigmei da temibili amazzoni nel folle Sign of the Cross, altra pellicola massacrata dalla censura. La regia viene affidata ad Erle C. Kenton, un “veterano” che si era fatto le ossa alla corte di Mack Sennett e dei suoi poliziotti pasticcioni (i celeberrimi “Keystone Cops”, protagonisti, sin dal 1912, di mille “slapstick comedies” da un rullo): un solido artigiano che, proprio con questa opera dai temi così alieni al proprio modus operandi, firma il “film della vita” e scopre l’horror a cui si dedicherà, con esiti discretamente infelici anche negli anni Quaranta (La casa degli orrori, Al di là del mistero); ma il torbido fascino repulsivo di L'isola delle anime perdute è dovuto alla sinergia con Karl Struss, il direttore della fotografia: un Titano delle Ombre che già si era portato a casa un Oscar con lo stupefacente Aurora di Friedrich Wilhelm Murnau (1929). Suo il merito di un incipit convenzionale (ed ingannatore) su di una nave mercantile tra flutti minacciosi, e la progressiva trasformazione della giungla insulare in un oscuro budello uterino e limaccioso, costantemente percorso da incubi urlanti, che conduce all’abitazione del Dottor Moreau e alla culla di tutte le abiezioni: la temibile “House of pain”, il Chalybarium delle atrocità, costantemente sferzato da accecanti sciabolate date dai fari posti sopra al tavolo operatorio…La dolcissima Elsa Lanchester, nella biografia dal lei scritta sulla carriera straordinaria del marito, confessa che Laughton detestava il dottor Moreau: una lavorazione troppo laboriosa (esterni girati all’Isola di Catalina con perigliosi mari in burrasca) e poi, decisamente, troppi peli: “ogni fenomeno, ogni mostro, aveva più peli del precedente. C’erano peli dappertutto. Me li sognavo di notte. Mi pareva persino di trovarli nel cibo”, sono le parole del grande attore. Strano a dirsi, visto che il suo Dottor Moreau è atrocemente perfetto, sadicamente lussureggiante. La stessa superstar del Gotico, Bela Lugosi, si mette in un angolo nell’ipertricotico ruolo di “Uomo della Legge” e cioè dell’esperimento più riuscito dal sadico chirurgo, col compito di salmodiare le norme di sopravvivenza sull’isola agli abomini più sfortunati di lui. Già: tutta la scena è per Charles Laughton, un dandy sudaticcio, subdolo e implacabile, o per dirla con lo storico dell’Orrore David J. Skal, “un effeminato mostro-gentiluomo in abito tropicale bianco”.  E’ sorprendente come un regista cresciuto ai tempi del muto, sappia calibrare le più sottili inflessioni del mitico attore: basterebbe vedere la scena in cui il “naufrago” Parker, dinnanzi all’esercito personale di Moreau esclama: “Quelle povere cose in mezzo alla giungla”…Ma…parlano” ed il Dottor Laughton replica, con languido trasporto: “E’ stata la mia prima conquista. Un eloquio articolato controllato dal cervello. Oh, davvero una grande conquista! C’è voluto moltissimo tempo ed una pazienza infinita…”, poi, con aria lurida e confidenziale, “Uno di questi giorni creerò una donna, e sarà molto semplice…”
Il Peccato, isomma, era stato di nuovo commesso: il film fu bandito in Lettonia, Pesi Bassi, India, Germania, Olanda… Persino in Inghilterra, ove rimase invisibile per ben 25 anni, partendo dal principio che il film fosse “una sfida alle leggi della natura”. “Naturale che è contronatura. Come Topolino, del resto”, fu il commento della mitica Elsa Lanchester…
 
 
L'ISOLA DELLE ANIME PERDUTE (Island of the Lost Souls), regia di Erle C. Kenton, USA, 1932, 102' (Eureka – The Masters of Cinema)