Ho visto il mio primo videosaggio nell'estate del 2009. Non si trattava tuttavia del mio primo incontro con la forma saggistica al cinema. Film-saggio (1) come La Jetée (1962, Chris Marker), Die Macht der Gefühle (1983, Alexander Kluge) o Histoire(s) du Cinéma (1998, Jean-Luc Godard) avevano già catturato il mio interesse da diversi anni. Se da un lato l'estetica cinematografica di queste opere è fortemente non convenzionale, esse esibiscono nondimeno elementi stilistici che avrei visto riemergere nel lavoro dei video-saggisti contemporanei: i diversi impieghi della voce off, la deliberata (a)sincronia tra suono e immagine, la sapiente commistione di inserti filmici, tipi di pellicola, formati, etc. Il film saggio rappresenta l'antenato del videosaggio attuale, il quale a sua volta è emerso come una forma contemporanea di critica e ricerca sul film. (2)

Circa tre anni fa sono incappato per caso in un videosaggio, o più precisamente in una serie di videosaggi intitolata The Substance of Style (2009), prodotti dal critico televisivo e cinematografico Matt Zoller Seitz. Era già da qualche tempo che seguivo gli scritti di quell'autore, e la sua presenza in diversi luoghi della Rete mi aveva condotto al sito web del Museum of the Moving Image or Moving Image Source. Come appassionato di Wes Anderson, animato (o affetto) da un ipertrofico senso di cinefilia, ho immancabilmente provato una sensazione di malsana superiorità nei confronti del critico e del suo lavoro. Snobisticamente, ho dato quindi per scontato che il saggio fosse un semplice 'mash-up', un'esibizione promozionale a mo' di trailer, un'appropriazione semplicistica delle inquadrature più amate, delle composizioni e degli interludi musicali assemblata a partire dal canone distintivo del cineasta. Di certo non mi aspettavo che il saggio affrontasse questi aspetti a testa bassa e disperdesse completamente il mio scetticismo di partenza. Mentre guardavo, mi rendevo conto che il saggio non mirava affatto a un compiacimento superficiale. Esso si proponeva piuttosto di sviluppare meticolosamente una tesi – ampia, e dichiarata a chiare lettere – sintetizzando le parole del critico con i segmenti filmici più adatti, o, come ho compreso più tardi, ri-presentando i film da un nuovo e soggettivo punto di vista, in un gesto creativo, perfino performativo. Quello a cui assistevo non era l'esposizione di una tesi fatta e finita, ma la creazione della tesi nel suo farsi, nel suo abbracciare, impossessarsi e rinegoziare il linguaggio filmico, il tutto in relazione alla parola scritta (e, qui, anche parlata) (3). Si trattava sì di un 'mash-up', ma di uno che aveva saputo trascendere l'ironia postmoderna e la meta-referenzialità più estrema per sondare gli abissi del materiale filmico a disposizione, in una maniera che aggiungeva – invece che sottrarre – qualcosa al suo valore. Matt Zoller Seitz, come molti altri video-saggisti, non si limitava semplicemente a sfruttare la riconoscibilità di una marca autoriale. A questa marca egli aggiungeva infatti la propria firma, in maniera tale da arricchire, e non deformare o falsificare, l'oggetto della sua analisi.
 
E il risultato era sbalorditivo. Avevo visto altri mash-up prima di allora. Alcuni di loro mi erano sembrati ben fatti e divertenti, ma per la più parte avevo l'impressione che mancasse loro una certa unicità, un'impronta riconoscibile che potessi attribuire all'autore dell'opera. Per lo più si limitavano a riciclare ciò che avevo già visto, senza aggiungere niente di nuovo. Il videosaggio su Wes Anderson, invece, riutilizza scene del film per mostrarmi quanto non avevo già visto: qualcosa di inerente al tessuto del film, e tuttavia non esibito a bella posta dal regista, per lo meno apertamente (si potrebbe senz'altro obiettare che le cose non stiano così, considerando il cinema iper-formalista di Wes Anderson, ma credo che il videosaggio vada oltre la semplice identificazione delle costanti personali nella messa in quadro, per rivelare piuttosto le fonti storiche e creative del film). Il saggio presentava insomma il film in una maniera diversa, permettendo nel contempo a me di vederlo sotto un'altra luce. Per citare Vivian Sobchack, mi metteva in contatto con l'oggetto filmico (4). Potevo vedere, sentire i film di Anderson, e contemporaneamente imparare qualcosa su di essi. Anzi, forse 'imparare' non è la parola esatta. Il saggio non mirava necessariamente a insegnarmi qualcosa. Il suo obiettivo era quello di coinvolgere me e il film in un dialogo critico, di fare in modo che io ri-esaminassi il film attraverso una nuova esperienza filmica, in una sorta di corto-circuito reciproco indotto dall'autore del videosaggio. In parole povere, il saggio ottiene quello che la migliore delle lezioni dovrebbe proporsi: spingere lo studente a riflettere su quanto discusso per i minuti, le ore e i giorni a seguire. 
 
Ad ogni modo, ciò che mi colpiva così profondamente a proposito del saggio era la sua abilità di condensare lo stile peculiare di Wes Anderson, non in maniera riduttiva o banalmente mimetica, ma in un modo analitico e poetico. Rimescolando sequenze prelevate dalla filmografia dell'autore, aggiungendo materiale visivo proveniente da altri film, incorporando musica rock e pop, tavole a fumetti, interviste, materiali d'archivio, scomponendo il quadro in schermi multipli sui quali l'autore parla e scrive, il videosaggio rivitalizza la critica come medium e la reinventa come performance. Attraverso il commento in voce-off, il montaggio, il sound design, gli inserti testuali, in una parola attraverso un complesso bricolage cinematografico Matt Zoller Seitz presenta l'opera di Wes Anderson come se fosse nuova, fresca, piacevolmente famigliare eppure, allo stesso tempo, meravigliosamente diversa, appropriandosi e ri-mediando il fascino stilistico del film e la forma cinematica del medium. Il formato del videosaggio incarna una forma di autorialità complessa, unendo la sensibilità del critico e quella del regista in una maniera che non ha precedenti. Il lavoro del cineasta appare radicalmente 'riscritto', eppure questo gesto –  che rappresenta una forma di iconoclastia aggressiva, per quanto rispettosa – non risulta distruttivo. L'approccio di Seitz è anzi apertamente produttivo, incoraggia il ri-esame della figura artistica di Anderson in virtù del proprio stesso linguaggio. 
 
 
La parola chiave qui è 'discorso', ovvero il coinvolgimento con quanto sullo schermo trascende l'ambito di una ricezione puramente visiva. Il videosaggio di Seitz re-inquadra il canone dell'autore: da un lato, esso offre al fan di Wes Anderson la possibilità di de-familiarizzarsi da esso, dall'altro dà al non iniziato l'opportunità di disporre di un'esperienza di visione personale. In questo modo, il saggio invita entrambi – i cultori e gli spettatori occasionali –  a partecipare a un discorso che fa del film uno schermo per molteplici impressioni soggettive. A mio modo di vedere, insomma, il video-saggista è un ibrido tra un Michel de Montaigne in versione letterato nuovo-mediale e il DNA cinefilo di un Quentin Tarantino o un Jean-Luc Godard, equipaggiato con la interfaccia tecnologica al passo coi tempi, modellata sulla caméra-stylo di Alexander Astruc. La critica del videosaggio diventa l'espressione soggettiva di un processo di significazione, un processo che – da ultimo – risulta per  lo spettatore/lettore non solo comprensibile, ma logico, completamente tangibile nei suoi aspetti costitutivi. Il videosaggio è in grado di tradurre nel linguaggio concreto del XXI secolo, quello digitale, il sentimento del film. Alcuni critici tradizionali, dotati di un'eccezionale comprensione del linguaggio, sono in grado di convogliare la forza di un film ai loro lettori – e non c'è niente di più gratificante, per un cinefilo, del rivivere un film nella propria mente, guidato dalla ricca prosa di un critico competente, e ritrovarsi di nuovo a provare la stessa esperienza fenomenologica. 
 
Per quanto indiscutibilmente poetico ed efficace, tuttavia, questo approccio sconta una certa vaghezza, l'assenza di un confronto esplicito con l'oggetto. Sequenze, scene, momenti: tutti questi elementi sono filtrati dalla memoria dell'osservatore, dall'elaborazione a posteriori di una macchina fotografica (penso agli eventuali fotogrammi che possono corredare la recensione), e dall'astrazione del linguaggio. L'immagine in movimento è resuscitata, ricostruita, e, di conseguenza, riconfigurata, rimossa dalla propria cornice formale, non necessariamente neutralizzata, ma senz'altro trasformata, distaccata dalla sua immediatezza, attualizzata in quanto frammento (di ricordo).  Il videosaggio, d'altra parte, conserva il movimento del film, la sua esistenza nel tempo; esso non si limita a riprodurre o raccontare il film, lo cita esplicitamente, e se ne serve per costruire la propria tesi. Di conseguenza, la forma filmica e la sua capacità d'impatto sono preservate, per quanto in un contesto diverso. Guardare un videosaggio, dal mio punto di vista, equivale a tornare al cinema per vedere il film di nuovo, forti di un surplus di informazioni aggiuntive. Queste informazioni – che costituiscono in effetti una vera propria diga testuale – sono studiate per essere messe in conversazione con quanto appare sullo schermo. Questo dialogo tra il film, i suoi potenziali intertesti cinematografici, l'autore, il destinatario e numerosi altri paratesti forma una complessa griglia ermeneutica, in cui diverse sfere di informazione si si organizzano coerentemente intorno al testo di origine. Il risultato non è una lettura definitiva, ma piuttosto una moltitudine di cornici interpretative. 
 
La serie di videosaggi di Matt Zoller Seitz su Wes Anderson cristallizza, a mio modo di vedere, i tratti caratteristici di una forma emergente di videosaggio intesa come critica performativa, una forma che si rivolge al registro della glossa più che a quello poetico, senza che quest'ultimo sia trascurato del tutto. Io stesso mi sono ritrovato a guardare e riguardare questi saggi, assieme ai film di Anderson. Il videosaggio restituisce il processo di analisi del 'lavoro della cinefilia, dell'amore per il cinema' (5), tanto per il critico quanto per lo spettatore.  
 
 
Al fine di soddisfare i miei desideri cinefili, ho battuto la Rete in cerca di altri videosaggi. A seguito di un esame più approfondito, il sito del Moving Image Source si è rivelato una fonte formidabile (6). Ma la mia fascinazione per questa nuova forma mi ha condotto a cercare oltre nell'intricata struttura del web. Ricordo distintamente il mio entusiasmo estatico quando mi sono imbattuto in Shooting Down Pictures, l'ineguagliata raccolta di scritti critici di Kevin B. Lee. Dico 'scritti', ma la collezione include testi sia in forma scritta che audiovisiva, e sono soprattutto questi ultimi a essere memorabili: penso in particolare alla sequenza di apertura del capolavoro di Matthieu Kassovitz, L'odio (1995), più un commento che un saggio, ma così meticolosamente calibrato sui tempi, e così ben congegnato negli argomenti, da riuscire a riconfigurare l'impressione che mi ero fatto quando avevo visto il film per la prima volta. Altri saggi notevoli sono per esempio la sua dissezione del estetica horror in La casa 2 (1987, Sam Raimi) e la collaborazione invisibile con Matt Zoller Seitz sull'opus magnum di Clint Eastwood, Il texano dagli occhi di ghiaccio (1975), che Seitz avrebbe poi sviluppato in un magnifico saggio in due parti circa il motivo della vendetta nel cinema di Eastwood, dal titolo "Kingdom of the Blind" (2009). 
 
Guidato dal sito del SDP e dai molti collegamenti che esso contiene, mi sono imbarcato in un viaggio di esplorazione, meraviglia e ispirazione. Quanti più videosaggi incontravo lungo il mio cammino – dal sorprendente riepilogo di fine anno di Jim Emerson al suo intervento sull'immagine del cappello in Crocevia della morte (1990) dei fratelli Coen, dai fantasiosi trailer fittizi di Steven Boone alle tesi magistralmente montate di Steven Santos, tanto per elencarne alcuni – tanto più mi rendevo conto che il punto forte del formato, in definitiva, sta nella sua capacità di educare lo sguardo, promuovere l'alfabetizzazione cinematigrafica e la tangibilità dell'oggetto film, un tratto – quest'ultimo – reso soprattutto evidente nella bellissima e stimolante riflessione di Catherine Grant dal titolo "Touching the Film Object?" (2011) e dal suo corrispettivo poetico "imPersona" (2012). Questo saggio in particolare riesce anche a colmare lo iato tradizionale tra critica accademica e generalista, incorporando importanti riferimenti bibliografici a sostegno della propria impalcatura argomentativa. Altri esempi paradigmatici dal punto di vista della critica accademica comprendono la formidabile analisi offerta da Benjamin Sampson sul progetto di Steven Spielberg/Stanley Kubrick A.I. Artificial Intelligence (2001), nonché l'elegante studio di Brian Hu sulla musica pop nei film di Wong Kar-wai e altre opere notevoli prodotte durante i seminari sui saggi in DVD condotti alla UCLA dal professor Janet Bergstrom, in seguito pubblicati sulla rivista cinematografica e mediale dell'università, Mediascape. Questi saggi studenteschi esibivano una logica, un respiro accademico e una raffinatezza tecnica che non ricordavo di aver incontrato in precedenza. Da laureato tedesco, ricordo di essere rimasto fortemente colpito dalla pura e semplice quantità di informazioni bibliografiche e archivistiche messe in mostra da questi saggi. In passato, mi era capitato di incontrare materiali simili soltanto tra i contenuti aggiuntivi dei cofanetti editi dalla Criterion, nei quali figurano spesso opere saggistiche firmate da accademici e critici, tra le quali va segnalato soprattutto il dettagliatissimo resoconto di Janet Bergstrom sulla storia del film I bassifondi di Chicago (1927) di Josef von Sternberg,  la prospettiva critica offerta da Tag Gallagher a proposito di Ombre rosse (1939) di John Ford, e il lavoro di Casper Tybjerg sul Vampyr di Carl Theodor Dryer (1932). 
 
Tutti questi saggi audiovisivi compongono un ricco arazzo nel quale la critica e la ricerca accademica si intrecciano creativamente. E sebbene siano sparpagliati per l'intero spazio virtuale della Rete e nelle nicchie del mercato DVD, è nondimeno possibile individuare dei luoghi specifici in cui il lavoro saggistico in forma cinematografica è coltivato e promosso. L'esempio più macroscopico è il blog PressPlay pubblicato all'interno della rivista indiewire, i succitati seminari sui materiali DVD condotti da Janet Bergstrom alla UCLA, i corsi di Christian Keathley sui videosaggi al Middlebury College, il sito Mediascape e, più di recente, il progetto Motion Studies dell'università Bauhaus di Weimar, organizzato da Kevin B. Lee e Volker Pantenburg. Va menzionato anche il laboratorio di video-saggistica svoltosi a Boston nell'ambito dell'edizione 2012 della Society for Film and Media Studies, capitanato da Christian Keathley e Catherine Grant (e reso pubblico sull'eccellente blog di quest'ultima, Film Studies for Free, sul quale si possono peraltro rinvenire una moltitudine di rimandi ragionati sull'argomento, oltre all'indirizzo della sua pagina Vimeo di Audiovisualcy. Per parte mia, non posso che far mia l'opinione prevalente in tutti questi luoghi, e cioé che il saggio audiovisivo costituisce la forma futura – e forse quella più propriamente contemporanea – della critica e della ricerca sui media. 
 
 
Non ci è voluto molto perché cedessi al desiderio crescente di passare dalla fruizione di videosaggi alla loro effettiva realizzazione. Per quanto sia vero che i software di montaggio digitale, i programmi di estrapolazione, e semplici dispositivi di registrazione audio abbiano subito un processo di democratizzazione dell'accesso, e siano oggi a facilmente a disposizione, nonché, nella maggior parte dei casi, facilmente utilizzabili, rimane anche vero che padroneggiare la tecnologia e più in generale la sostituzione del codice linguistico con i segni del linguaggio cinematografico è pur sempre una sfida. Un videosaggio non corrisponde semplicemente al processo di sovrapporre una traccia audio a delle immagini video. Occorre che il critico non soltanto rifletta sull'estetica del film, ma impari a servirsi del linguaggio che la produce. I miei primi tentativi furono difficili, con tagli di montaggio che risultavano sfasati di tre o quattro fotogrammi, una voce off che suonava spenta e debole, nonché decisamente troppo articolata e prolissa. Ma ho continuato a giocare con il formato, assegnandomi degli esercizi semplici e di breve durata per prendere dimestichezza con le potenzialità – apparentemente infinite – della moderna tecnologia informatica. Mi sembrava di essere in fisioterapia, come se stessi imparando a camminare di nuovo, per piccoli passi. All'epoca stavo scrivendo la mia tesi, un'analisi sul ruolo del cinema nell'insegnamento dell'inglese come lingua straniera in Germania. Nell'arco di circa un anno, produssi un video di due ore, formato da circa settanta brevi segmenti, in cui davo una panoramica del linguaggio cinematografico. Era un tentativo di completare il mio lavoro scritto, integrandolo con veri spezzoni cinematografici, e allo stesso tempo offrire un mio commento personale. Un altro progetto derivò dal mio lavoro di tesi, e si trattò in questo caso di uno studio sulla possibilità di applicare il concetto di competenza comunicativa interculturale, coniato da Michael Byram, al film Ogni cosa è illuminata (2005), e sulle modalità con cui questa applicazione potesse essere sfruttata in un contesto di insegnamento (7). Mi sono reso conto che i mie tentativi riuscivano meglio in presenza di un oggetto d'indagine ben definito, di una tesi a monte a cui fare riferimento di continuo, per svilupparla e riaffermarla man mano che le immagini in movimento apparivano sullo schermo. La motivazione didattica che stava dietro il mio lavoro dettava peraltro il suo impianto generale, spingendolo (per lo più) verso un approccio descrittivo-ermeneutico che non verso quello poetico.
 
È stato poco dopo la conclusione della mia tesi e dei miei studi che ho concepito l'idea di Chaos Cinema. Avevo sempre desiderato studiare cinema negli Stadi Uniti, per un insieme di ragioni, tra le quali contavano soprattutto la mia passione per l'inglese, per gli studi cinematografici americani, per la critica e, naturalmente, per la storia cinematografica di quel Paese. Diviso com'ero da migliaia di chilometri da quei discorsi e da quella cultura, mi affidai a Internet come a uno spazio trans-culturale, in cui affrontare, farmi coinvolgere e imparare da cinefili più o meno professionali oltreoceano. Tra gli altri, leggevo  ampiamente il  blog di David Bordwell Observations on Film Art e quello di Jim Emerson, Scanners, con l'obiettivo di tenermi aggiornato su ciò che si muoveva nel dibattito cinematografico contemporaneo. La diatriba sull'estetica traballante della camera a mano, sulle inquadrature irrequiete, e il generale (dis)interesse per l'ipercinetismo che improntava entrambi questi blog, nonché molti altri siti dopo l'uscita di The Bourne Ultimatum (2007) non mi lasciò indifferente, e, in qualità di appassionato di film d'azione, sviluppai un interesse ossessivo per l'argomento. Dopo aver speso molto tempo a divorare tutta la letteratura disponibile online, mi resi conto che sebbene il dibattito avesse prodotto numerosi ottimi resoconti sugli eccessi di questo stile, non era emerso altrettanto bene ciò che quest'ultimo avrebbe potuto (e dovuto) essere. Né un linguaggio colorito né l'impiego di fotogrammi poteva rendere a sufficienza l'impatto combinato di un Michael Bay, di un Tony Scott o di un Neveldine/Taylor (anche se l'articolo di Matt Zoller Seitz a proposito di Michael Bay su Salon potrebbe smentirmi!). Il vortice sensoriale di quei film poteva solo parzialmente essere espresso a parole. Un videosaggio avrebbe potuto dimostrare meglio la ferocia del materiale in questione, ed esemplificare la differenza tra un'analisi a posteriori, vale a dire dopo l'uscita dalla sala, e quello che succede durante la visione del film, come parte integrante dell'esperienza filmica. 
 
 
Allora, naturalmente, non mi era mai passata per la testa l'idea che dovessi essere io a realizzare quel videosaggio. Mi limitavo a sperare che un vero esperto – meglio se di quel circolo di video-saggisti con cui avevo dimestichezza e di cui apprezzavo il lavoro – si cimentasse con l'argomento. La mia speranza, in effetti, era che Matt Zoller Seitz affrontasse la questione. Mi sembrava che si confacesse al suo stile, alla sua prosa fantasiosa e al suo montaggio creativo. Se non ricordo male, fu proprio questa speranza che mi spinse a mettere insieme un video-civetta, con l'intenzione di allettarlo e indurlo a considerare l'argomento. Andò a finire che il mio video-civetta si trasformò in un saggio di tredici minuti, documentato con attenzione, ma montato in maniera un po' raffazzonata. Quando lo mandai a Matt, mi rispose che gli avrebbe fatto piacere, se lo avessi sistemato, pubblicarlo nella rubrica Press Play. Le settimane a seguire furono costellate di obiettivi difficili, revisioni, disastri, mentre faticosamente mi destreggiavo con le ignote sfide della produzione video-saggistica. Come mi resi presto conto, per uno studioso di lingue alle prime armi, cinefilo e in procinto di diventare studente di cinema, realizzare un videosaggio poteva essere una vera via crucis. Bisognava correggere differenze all'apparenza inspiegabili nella traccia audio, rendere invisibili i tagli di montaggio, ricompilare spezzoni video persi, più e più volte. Fu un periodo burrascoso della mia vita. Dovetti montare il saggio in tre Paesi diversi, praticamente di corsa, mentre mi preparavo per gli studi post-laurea, il che significa mentre mi preparavo a trasferirmi all'estero, a migliaia di chilometri di distanza da dove vivevo. Registrai la traccia vocale, non mi piacque, la scartai e mi procurai dei nuovi mezzi, registrai di nuovo, applicai la traccia alle immagini, riconsiderai l'intera struttura del saggio, riscrissi il testo della traccia vocale, contattati il mio editore, attesi la risposta, renderizzai alcuni frammenti del saggio, li misi online, lavorai sul resto, renderizzai di nuovo i frammenti precedenti, il tutto con l'orologio delle scadenze che ticchettava sullo sfondo.
 
Ero (e sono tuttora) un novizio, non un praticante di lungo corso, e di colpo mi ritrovavo gettato a capofitto in acque a me del tutto nuove. Man mano che mi industriavo laboriosamente di rifinire ed espandere il saggio, il progetto veniva gradualmente trasformandosi in qualcosa di tale ampiezza (e non solo in rapporto alle mie scadenze) da farmi spesso dubitare che sarei davvero riuscito a finirlo. Non ci sono parole per esprimere quanto fu preziosa a questo riguardo la guida (e l'amicizia) di Matt Zoller Seitz. Un editor rigoroso, egli allenò i miei occhi e le mie orecchie a scovare i più minimi dettagli di un film (dettagli ancor più minimi di quelli che un cinefilo stagionato potrebbe – e vorrebbe – riconoscere). Mi insegnò a scrivere in maniera più sciolta e colloquiale, un punto questo che continua a rappresentare una sfida per me in quanto scrittore d'inglese non madrelingua (questo, come anche la costante sensazione di auto-consapevolezza e incertezza del linguaggio). I consigli e la competenza di Matt hanno contribuito in modo sostanziale a dare forma al mio lavoro. Ken Cancelosi e Steven Santos furono altrettanto importanti nella creazione del saggio. Fu Ken che mi spinse a espandere il raggio del discorso ed esplorare, oltre ai film d'azione, ai dialoghi e all'horror, anche i musical. Quanto a Steven, le sue indicazioni sul montaggio mi furono di immenso aiuto per dare densità al discorso di Chaos Cinema. Certo, tutti costoro sono professionisti, esperti nel loro campo, e il mio tentativo alle prime armi non va comparato al loro lavoro. Non ho dubbi sul fatto che tutti quanti troverebbero ancora nel mio saggio numero aspetti tecnici passibili di miglioramento. Del resto, io non mi considero parte di quel gruppo di video-saggisti affermati di cui parlavo più sopra. Sto ancora imparando a usare questo formato: come studente, sono interessato alla sua produzione, fruizione e teorizzazione. E mi sento continuamente galvanizzato dal lavoro di critici e accademici, spinto a proseguire su questo cammino, migliorare la mia conoscenza del mezzo, nel suo sviluppo, sia attraverso l'analisi sia con la produzione pratica. 
 
 
Nel determinare gli aspetti specifici del formato videosaggio, può essere utile ricostruire i passaggi del processo produttivo di Chaos Cinema. Come raccontavo più sopra, l'idea iniziale nacque dalla convinzione che il saggio potesse arricchire il dibattito contemporaneo sulla metodologia di costruzione della scena nel genere action, offrendo prove audiovisive concrete – o, per usare un'espressione più blanda, punti di riferimento per un'analisi approfondita. Il valore del contributo sarebbe dipeso dalla sua specificità formale, ovvero da quella precisione audiovisiva che lo distingue dalle recensioni e da altre forme scritte del discorso critico. Molte delle lamentele (o delle lodi, se è per questo) rivolte all'indirizzo di scene d'azione raffazzonate e poco coerenti presupponevano  una conoscenza piuttosto vaga del concetto di stile cinematografico, nonché la concezione che un film agisca esattamente alla stessa maniera su ciascun singolo spettatore. Il postulato offriva ai critici della parola scritta la possibilità di ricorrere al formulario della valutazione monosillabica, particolarmente (ma non esclusivamente) diffusa nei fora di discussione online. Le critiche del nuovo modello di film d'azione, per canto loro, rimanevano apertamente generiche, e separate dal merito della questione. C'erano, naturalmente, eccezioni a questo paradigma sul web, e penso in particolare alle superbe analisi condotte da Jim Emerson e David Bordwell (e da scrittori come Lisa Purse [7], Geoff King [8] e Uvonne Tasker [10]), autori di libri eccezionali e fondamentali sul genere action). Nondimeno, il tenore generale del discorso mi dava l'impressione di restare piuttosto distante dal cuore del problema, mancando per esempio di specifici rimandi testuali ai singoli film in discussione. La sfida che mi trovavo davanti era perciò quella di decidere quali titoli si prestassero meglio a essere integrati nel videosaggio, come avrei dovuto assemblarli, e come avrei potuto aggiungervi la voce-off, considerando la loro natura aggressiva e veloce. Il mio obiettivo era quello di costruire un video che funzionasse sulla base di un effetto cumulativo, una sorta di montaggio successivo di scene caotiche, estrapolate dall'opera di registi il cui stile fosse significativo e – soprattutto – riconoscibile. L'idea alla base di questo approccio era di replicare la densità delle ipercinetiche sequenze d'azione contemporanee, per catturare – perfino esagerare – la loro capacità di sopraffare lo spettatore. Allo stesso tempo, volevo offrire quanto più commento fosse possibile: volevo cioé ottenere una sincronia tra immagine e voce-off, e proporre in questo modo un chiaro studio analitico, non una semplice rassegna di opinioni altrui appiccicate a una serie di scene d'azione. A questo proposito, il videosaggio è una forma di pastiche retta da una tesi precisa. Ho anche cercato di offrire un paragone tra il cinema d'azione attuale e incarnazioni precedenti, più equilibrate del genere, scegliendo film che non richiedessero troppo spiegazione verbale, film che funzionassero semplicemente in virtù della loro iconicità, del loro status pop-culturale: Bullit (1968) e Il mucchio selvaggio (1969), per esempio e giusto per citarne un paio. Un'altra soluzione retorica di cui mi sono servito è stato l'uso di inserti testuali, e la manipolazione del flusso delle immagini, come nel segmento che si concentra sul suono, quando l'inseguimento automobilistico di Quantum of Solace (2008) è presentato senza un riferimento visivo. Chaos Cinema, sotto questo aspetto, è stato concepito non soltanto come un commento critico al genere del film d'azione contemporaneo, ma anche come un'aggiunta consapevole al genere stesso. 
 
Il discorso che si sviluppò intorno alle prime due parti di Chaos Cinema fu rassicurante, istruttivo e terrificante. Vuoi per l'argomento trattato, vuoi per il linguaggio provocatorio del saggio, vuoi per la visione d'insieme del panorama action che prospetta, vuoi infine per una confluenza di molti altri fattori intangibili, Chaos Cinema fu visto da molti (Kevin Lee lo descrisse come il primo blockbuster del genere). A oggi, la serie ha generato più di 90.000 visualizzazioni su Vimeo, a riprova dell'attrattiva popolare che il formato videosaggio può esercitare. Appassionati di cinema, cinefili e critici manifestarono interesse, articoli di giornale vennero scritti e pubblicati (The Week e The New York Times), rafforzando la spendibilità critica del formato. In conseguenza di tutto questo, mi sono ritrovato nella posizione di dover dare altre spiegazioni sul mio lavoro, di dovermi confrontare con un discorso extra-testuale (10). Il formato digitale del videosaggio incoraggia l'interazione tra l'autore e il pubblico, composto per lo più da appassionati cinefili. Anzi, esso è studiato appositamente per favorire lo scambio di idee, al punto da non poter essere distinto dalle reazioni che suscita. Il videosaggio non esiste in un ambiente autoriale a sé stante. Esso funziona piuttosto come un veicolo per l'articolazione di molteplici letture e significati, i quali, talvolta, possono essere incredibilmente animati, come nel caso di Chaos Cinema. Ho preso sul serio ogni commento, non importa quanto derisorio o offensivo. Sono dell'opinione che si possa intravvedere una lezione utile in qualsiasi tipo di critica, sia essa costruttiva o decostruttiva.
 
Detto questo, trovavo comunque difficile, a essere onesti, venire a patti con il carattere esacerbato ed emotivo (forsei dovrei dire 'al vetriolo') di molti commentatori. Alcune reazioni sembravano mosse da un palpabile antagonismo verso l'autore del saggio. Trovare un terreno comune, o quanto meno una base per una discussione rispettosa si è dimostrato arduo, se non impossibile. L'esperienza ha dimostrato che i videosaggi possiedono una qualità che supera la forma scritta, cioé quella di attirare l'interesse non solo di cinefili, ma anche degli spettatori causali e dei semplici cibernauti. In una cultura progressivamente improntata dall'interfaccia digitale, dai suoi schermi multipli e dalle sue molteplici immagini in movimento, il videosaggio potrebbe essere la forma più immediata e spontanea di comunicazione critica, o per lo meno una notevole aggiunta al linguaggio tradizionale. Chaos Cinema ha suscitato numerose repliche scritte di grande acume. Le ho trovate tutte illuminanti, e do loro atto di aver contribuito a mettere a fuoco le mie opinioni sul cinema d'azione americano contemporaneo. Nella terza parte del saggio, che vide la luce durante il primo periodo dei miei studi post-laurea alla UCLA, ho preso in considerazione alcune di queste osservazioni, arrivando a modificare la mia tesi nel dialogo critico con queste posizioni (mi sono anche servito di questi punti di vista terzi per reiterare, e forse anche riaffermare più chiaramente la mia tesi, che era stata riconfigurata, interpretata e falsificata dopo la pubblicazione delle prime due parti del saggio). Le osservazioni dell'operatore John Bailey (11), del montatore Walter Murch, dei critici Steven Boone (12) e Jim Emerson (13), dei professori di cinema Steven Shaviro (14) e Janet Bergstrom, così come quelle dei miei colleghi di facoltà mi hanno egualmente rivelato punti che ho potuto riconsiderare o sviluppare ulteriormente, in un processo che da ultimo è culminato in un intervento da me presentato al convegno della Society for Cinema and Media Studies di Boston. Tutto questo per dire che il videosaggio non sminuisce le forme tradizionali di critica. Piuttosto, le rafforza e le arricchisce. 
 
 
Scrivere di cinema può rivelarsi una pratica ingannevole, dal momento che distoglie l'attenzione dall'oggetto in sé. Un'affermazione provocatoria, e forse solo il frutto della mia esperienza personale, ma di sicuro affrontare un film attraverso il medium della parola scritta è difficile, richiede pazienza, costanza, diligenza. Per lo scrittore non esperto è forte la tentazione di analizzare il film a memoria, o basandosi sulle proprie annotazioni, magari dopo una sola visione, senza cioé esercitare la propria capacità critica direttamente sul film, analizzando le sequenze su un DVD o andando più volte a vedere un film in sala. Perfino alcuni critici sembrano rientrare in questo fenomeno, sebbene ci siano professionisti in grado di padroneggiare un intero film dopo una sola visione, e fornire di esso recensioni estremamente dettagliate e accurate. In ogni caso, il lavoro del videosaggio va nella direzione opposta, costringendo l'autore a un contatto diretto con il film, in una maniera che trascende i limiti del linguaggio, attingendo piuttosto a un codice cinematografico universalmente affermato e condiviso. 
 
Il videosaggio si è affermato come uno strumento serio di critica e di ricerca. Esso rimane tuttavia un formato appena nato. Rappresenta un approccio critico e accademico alla ricerca della sua forma estetica. Di conseguenza, lo studio del videosaggio pone diversi problemi. La maggior parte di questi sono di natura tematica ed estetica. Rimane per esempio da capire se il videosaggio debba adottare il formato del lungometraggio, o se piuttosto non sia più spendibile (e forse più attinente e tempestivo) nella forma del cortometraggio. Ci si potrebbe parimenti interrogare sull'opportunità di adottare formule narrative, o piuttosto concentrarsi sul riutilizzo di immagini e suoni già esistenti.  Ancora, ci si può chiedere se esso debba mescolare liberamente tempi, spazi e specificità culturali, o piuttosto essere più preciso, limitato, controllato. Dovrebbe il video-saggio funzionare come un'alternativa alla recensione, o avventurarsi oltre il testo e il suo pubblico, per esplorare altri ambiti dell'analisi? Dovrebbe offrire fatti storicamente accertati, documenti, o piuttosto sollevare questioni spinose? Ma anche, dovrebbe limitarsi a parlare di cinema? Non ci sono forse altre forme mediali egualmente rilevanti per la sua evoluzione? Questi problemi e queste domande, a mio parere, rischiano di formalizzare il formato del videosaggio in un'ottica prescrittiva. Vale la pena prenderle in considerazione e ragionarci, ma esse non dovrebbero essere dar luogo a criteri inamovibili per la valutazione dell'oggetto-saggio. Il genere non ha ancora raggiunto la sua fase di stabilità. Deve ancora entrare nel suo periodo 'classico'. Ciò a cui stiamo assistendo al momento, sia nella sua incarnazione analogica sia in quella digitale, è la nascita non di una nuova avanguardia, ma – forse – di una nuova stagione nella cultura cinematografica, una stagione in cui i destinatari (o consumatori) di una arte sono in grado di comunicare con i suoi produttori per mezzo dello stesso linguaggio. Un nuovo discorso sta emergendo, pieno di potenzialità: potenzialità che al momento vengono esplorate da un gruppo di infaticabili pionieri della cinefilia. Essi non si limitano a usare il videosaggio come un veicolo per la condivisione dei loro pensieri e delle loro osservazioni. Essi se ne servono come una nuova forma di analisi performativa (15)
 
Christian Keathley è uno studioso di cinema le cui ricerche sulla video-saggistica tentano di dare conto di questo sviluppo. Nel suo saggio 'La Caméra-Stylo: Notes on Video Criticism and Cinephilia' egli propone una distinzione tra la video-saggistica analitica e quella poetica, nel tentativo di arrivarea a una categorizzazione del genere (16). Questa iniziale ripartizione binaria permette ulteriori livelli di sotto-categorizzazione, nonché l'enucleazione di un gruppo ibrido (al quale ascriverei Chaos Cinema). Keathley è rigoroso nella sua analisi del videosaggio. Egli traccia un quadro strutturale grazie al quale l'analista è in grado di mappare e comprendere il rapido sviluppo di questo formato. Sarà interessante vedere come la sua istituzionalizzazione contribuirà a cambiare i suoi codici formali, se cioé si procederà in direzione di una standardizzazione o no. Le ricerche sulla video-saggistica sono in grado di tenere traccia di questi sviluppi. Per essere esaustive, esse devono tenere insieme questioni teoretiche ed estetiche, oltre che indagini sull'apparato industriale del cinema e sulle pratiche di ricezione. Occorre inoltre considerare le dimensioni intra ed extra-testuali del genere. Solo allora esse possono affrontare l'ambito della comprensione e dell'apprendimento. 
 
 
Le ripercussioni didattiche della video-saggistica mi interessano particolarmente. In che modo questo formato influenza la nostra visione del suo oggetto, sia esso il cinema, la televisione o qualsiasi altro formato audiovisivo? Alla UCLA, la famosa studiosa e video-saggista Janet Bergstrom (17) organizza seminari annuali sul DVD nel dipartimento di Cinema and Media Studies. Si tratta di un modulo di ricerca, per il quale è richiesto agli studenti di tradurre un contributo esistente in un videosaggio, o di realizzarne uno ex-novo a partire da un progetto di ricerca originale. La sfida in questo caso è quella di confrontarsi con l'apparato critico-accademico da una parte e i materiali filmici dall'altra, riuscendo a integrare il tutto in maniera efficace e coinvolgente. I seminari sono cominciati nel 2004 e si inizialmente concentrati su progetti di gruppo. Nel 2005 fu aggiunta una sezione dedicata a progetti individuali, sezione che poi si affermò fino a divenire la forma corrente dell'intero seminario. Io ho partecipato al modulo quest'anno, e l'ho trovato estremamente illuminante, oltre che fonte d'ispirazione. La professoressa Bergstrom lascia agli studenti una notevole libertà di scelta nel loro approccio alla video-saggistica. La docente fornisce dettagliate e ripetute spiegazioni sull'utilizzo dei software di montaggio (Adobe Premiere), sul come incorporare materiali di ricerca nella struttura del saggio, sul come costruire una tesi audiovisiva e non verbale, e, soprattutto, su come renderla d'impatto. Gli studenti studiano altri videosaggi, realizzati da altri studenti, critici, studiosi, acquisendo così una conoscenza diretta dei diversi modelli retorici a disposizione. Il lavoro viene rivisto collegialmente, si avanzano suggerimenti su come migliorarlo e modificarlo, si discute su quale pubblico sia il più adatto per ogni specifico videosaggio. L'attività del seminario è collettiva, l'atmosfera è creativa e altamente produttiva. In molti aspetti, questo modulo riflette le mie esperienze con la video-saggistica cristallizza ciò che più amo di esse: la promozione di una sostanziale alfabetizzazione mediale, la formazione (piuttosto che la mera attivazione) di un vocabolario tecnico ed estetico attraverso il quale gli studenti sono in grado di perseguire i propri interessi, continuare il proprio lavoro da soli, e insieme, in collaborazione (una pratica questa che potrebbe diventare la norma via via che la video-saggistica diventa istituzionalizzata come pilastro della moderna critica cinematografica. La divisione del lavoro circa la raccolta dei materiali, il montaggio, la scrittura e la narrazione possono rendersi necessari al fine di facilitare una realizzazione più tempestiva e una migliore esposizione del formato). La professoressa Bergstrom pone una particolare enfasi sia sulla pratica sia sulla dimensione teorica del videosaggio. Gli aspetti tecnologici sono sistematicamente messi in rapporto con la logica interna della tesi. Il videosaggio, in questo contesto, diventa oggetto di studio tanto quanto di azione creativa, un mezzo per allargare le forme tradizionali di discussione e scrittura sul film. Al termine delle intense dieci settimane che compongono il modulo rimane un'opera certamente non perfetta, in termini di forma, ricerca e struttura della tesi. Si tratta di un lavoro in fieri, certo, che deve essere rifinito e ripulito. Ma si tratta pur sempre di un lavoro di rango eccellente, in grado di condurre a ulteriori sviluppi di ricerca e di studio. La sua principale attrattiva, però, sta nel fatto che non solo esso consente all'autore e al suo pubblico di riflettere sul cinema. Esso mette entrambi, e letteralmente, in contatto col cinema. 
 
NOTE
 
(1)  Per una trattazione esaustiva del film saggio, cfr. Corrigan, Timothy, The Essay Film. From Montaigne, After Marker (Oxford: Oxford University Press, 2011).
(2) Christian Keathley offre una notevole visione d'insieme sul panorama della video-saggistica contemporanea nel suo articolo “La caméra-stylo: notes on video criticism and cinephilia” (in The Language and Style of Film Criticism, cur. Clayton, Alex & Andrew Klaven (London and New York: Routledge, 2011)). Egli opera una differenziazione tra il video-saggio analitico e quello poetico. Nel primo caso, «le immagini e i suoni sono manipolati con attenzione e originalità in supporto di una tesi – essi sono cioé subordinati al linguaggio della glossa». Nel secondo caso il video-saggio rifiuta di « dedicarsi alla spiegazione, lasciando che essa affiori alla superficie a intermittenza, e utilizzando il linguaggio con parsimonia, e anche in quel caso solo come uno dei tanti possibili modi di raccontare il film» (181). La forma poetica, credo, rimanda fortemente alla tradizione del film saggio. 
(3) È importante notare che il video-saggio richiede al critico più che una semplice dimestichezza con la scrittura, la storia del cinema e le tecniche di montaggio. Nella video-saggistica, il critico deve 'letteralizzare' la propria voce, spostarsi cioé dalla scrittura sulla pagina alla scrittura sullo schermo, parlare allo schermo tanto quanto a coloro che sono di fronte allo schermo. La voce-off merita di essere oggetto d'attenzione per le future indagini sulle forme video della critica. 
(4) Sobchack, Vivian, The Address of the Eye: A Phenomenology of Film Experience (Princeton, NJ, and Oxford: Princeton University Press, 1992).
(5) Mulvey, Laura, Death 24x a Second (London: Reaktion Books, 2006), 144.
(6) Matt Zoller Seitz ha realizzato miriadi di videosaggi per Moving Image Source, sia da solo sia in collaborazione con altri critici, tra cui Kevin B. Lee, Aaron Aradillas e Ken Cancelosi. Per quanto l'intero corpus sia notevole, ci sono alcune specifiche serie di saggi che gettano particolare enfasi sulle possibilità critiche ed estetiche del formato video-saggistico: 
 
Aradillas, Aaron & Matt Zoller Seitz, “5 on 24” (in cinque parti sulla serie televisiva 24), Maggio 18, 2010.
Aradillas, Aaron & Matt Zoller Seitz, “Razzle Dazzle”, (in cinque parti, sulla celebrità e il cinema), Giugno 29, 2010.
Bramble, Serena & Matt Zoller Seitz, “All Things Shining” (in cinque parti, sul cinema di Terrence Malick), Maggio 10, 2011
Aradillas, Aaron & Matt Zoller Seitz, “Grand Openings” (in cinque parti, sulle sequenze di apertura di David Fincher), Settembre 20, 2010.
Dignan, Andrew, Lee, Kevin B. & Matt Zoller Seitz, “Extra Credit” (in cinque parti, sulle sequenze di apertura della serie televisa The Wire), Luglio 28, 2008.
Lee, Kevin B. & Matt Zoller Seitz, “Oliver Stone” (in cinque parti, su alcuni film di Oliver Stone), Ottobre 14, 2008.
Zoller Seitz, Matt. “Zen Pulp”, (in cinque parti, sul cinema di Michael Mann), Luglio 1, 2009.
 
Il lavoro di questi video-saggisti dimostra che il video-saggio si presta come genere a uno studio audiovisivo allargato sul lavoro di un artista o, allo stesso modo, all'indagine di uno specifico motivo tematico o visuale. 
 
(7) Purse, Lisa, Contemporary Action Cinema (Edinburgh: Edinburgh University Press, 2011).
(8) King, Geoff, Spectacular Narratives: Hollywood in the Age of the Blockbuster (London and New York: L.B. Taurus, 2000).
(9) Tasker, Yvonne, Spectacular Bodies: Gender, Genre, and the Action Cinema (London and New York: Routledge, 1993).
(10) Cfr. la sezione commenti di Press Play (blog), ultima modifica Aprile 15, 2012.
(11) Bailey, John, “Matthias Stork. Chaos Cinema/Classical Cinema. Part 1,” The ASC Blog (blog), Novembre 7, 2011.
(12) Boone, Steven, “Blind Fury. Notes on Chaos Cinema” Big Media Vandalism (blog), Agosto 27, 2011.
(13) Emerson, Jim, “Agents of Chaos” Scanners (blog), Agosto 23, 2011.
(14) Shaviro, Steven, “Post-Continuity. Full text of my talk” The Pinocchio Theory (blog), Marzo 26, 2012.
(15) Stork, Matthias. “Audiovisualcy: How to “Perform” the Video Essay”. Indiewire Press Play, Indiewire Video Essay Blog, 10 Maggio, 2012.
(16) Keathley, Christian. “La Camera-Stylo: Notes on Video Criticism and Cinephilia.” The Language and Style of film Criticism. Eds. Clayton, Alex and Klevan, Andrew. London: Routledge, 2011. 
(17) Janet Bergstrom ha realizzato diversi video-saggi commerciali in formato lungometraggio. Il suo saggio per la Fox dal titolo 'Murnau's 4 Devils: Traces of a Lost Film' è stato distribuito come contenuto extra nel cofanetto DVD di Sunrise (Twentieth Century Fox 2003). Il video-saggio in questione rappresenta in effetti un documentario esauriente sul film ed è stato presentato in diversi film festival e musei, tra cui la Berlinale, il Tribeca Film Festival, il Cinema Ritrovato di Bologna, al Jeu de Paume di Parigi e l'Archivio Austriaco del Film di Vienna. Il saggio su Underworld di Josef von Sternberg è incluso nell'edizione Criterion “Three Silent Classics by Josef von Sternberg”. La professoressa Bergstrom ha inoltre contributo con diversi saggi audio al DVD di Tabu di F.W. Murnau (Milestone Image Entertainment 2002). Ha inoltre ideato i seminari sui DVD presso la UCLA nel 2004, e li ha condotti regolarmente ogni anno da allora. Una sua intervista è disponibile sull'ultimo numero di Frames
 
(Testo pubblicato originariamente su Frames, a cura di Catherine Grant. Ripubblicato con il permesso dell'autore e della curatrice. Traduzione di Pasquale Cicchetti)