Nel 1950 Roberto Rossellini, imboccata una volta per tutte quella che sarà la sua personalissima strada, fatta di continue sperimentazioni, realizza Stromboli, terra di Dio, primo film che vede come interprete principale Ingrid Bergman. Il sodalizio con l’attrice da umano diventa artistico e invece di esaurirsi in un’unica esperienza si riverbera in altri cinque film: Europa ’51, Siamo donne, Viaggio in Italia, Giovanna d’Arco al rogo e La paura. Due, fra questi, Europa ’51 e Viaggio in Italia, danno vita, insieme a Stromboli, alla cosiddetta “trilogia della solitudine”. Un percorso a tappe che insegue di film in film l’idea di un discorso sull’isolamento umano in cui Ingrid Bergman si trasforma, attraverso le varie interpretazioni, nel simbolo di una condizione femminile vissuta con sofferenza; una figura di donna dolente, su cui gravano i pregiudizi e le violenze di una società prevalentemente maschilista. Dato il tempo che trascorre tra l’una e l’altra opera (e i diversi lavori che come sempre si alternano nella carriera di Rossellini), non si può parlare di una pianificazione precisa, di un disegno scientifico, piuttosto di un’intuizione, che porta il regista ad analizzare sotto differenti aspetti un’unica grande tematica: l’incomunicabilità umana. Punto di arrivo, approdo di questa incessante ricerca è dunque Viaggio in Italia, pellicola che Rossellini comincia a girare nel 1953, mentre, come sempre, molti progetti, realizzati e non, si susseguono e si accavallano. Si parte da Duo, sceneggiatura scritta a quattro mani con Vitaliano Brancati, per arrivare, dopo una fase di opportune semplificazioni, alla nuova storia, che accanto alla Bergman vede, nel ruolo di co-protagonista, l’attore inglese George Sanders.
La critica italiana, pronta come sempre a colpire preventivamente l’opera del regista, segue con scetticismo la lavorazione del film, una parte addirittura la ignora, con la falsa e voluta indifferenza tipica dei grandi amori disperati. Da L’amore in poi, Rossellini si era incamminato per i sentieri impervi di una ricerca difficile e strettamente personale e questo non gli sarà mai perdonato. Sulle pagine delle più importanti riviste dell’epoca si parla addirittura di “tradimento del neorealismo”, avvenuto a seguito dell’abbandono delle tematiche resistenziali e d’impegno civile. Il fatto che la lavorazione risulti, come per la maggior parte dei film di Rossellini, ancora una volta lunga e difficoltosa, crea una solida sponda alle già numerose polemiche. Ai soliti problemi dovuti al metodo d’improvvisazione, si aggiungono questa volta quelli relativi alla lingua (il film è di fatto recitato in inglese) e quelli riguardanti i continui conflitti fra Sanders e il regista. I critici non hanno pietà e affondano il coltello, riportando con dovizia di particolari tutti i battibecchi intercorsi fra i due. Lo scontro però è reale, e altro non è che l’espressione di un enorme divario fra due concezioni di cinema completamente agli antipodi: stretta in una rigorosa visione industriale quella dell’attore britannico – che infatti accusa il regista di pressapochismo, sostenendo che il neorealismo in realtà è solo il banale risultato della mancanza di soldi da investire in una vera produzione – completamente libera dai vincoli e affamata di realtà quella di Rossellini, che estremizzando il suo percorso, arriva in questo film a fare completamente a meno della sceneggiatura. Una scelta che porta agli estremi il suo stile asciutto e aderente alla realtà, tutto incentrato intorno alla drammaticità dell’azione, ma che sancisce anche la definitiva rottura appunto con la critica italiana.
Come si è detto il paragone è sempre lo stesso: Roma città aperta e Paisà, che agli occhi dei recensori sembrano essere gli unici veri film riusciti del regista. Rifiutandosi di vedere gli sviluppi continui della ricerca rosselliniana, gli intellettuali decretano quindi la fine del suo cinema, dimostrando di aver voluto cristallizzare l’opera del regista esclusivamente all’interno del neorealismo, concepito più come un movimento cinematografico che come il fenomeno contingente ed effimero che invece fu. Giulio Cesare Castello, critico per Cinema, mette in relazione la pellicola con quelle precedentemente interpretate dalla Bergman, arrivando a parlare di un «trittico infelicemente percorso da una tormentata volontà messianica»; mentre Fernaldo di Giammatteo sulle pagine della Rassegna del film scrive: «Viaggio in Italia è soltanto quello che promette il titolo: una passeggiata turistica per Napoli e dintorni. Con la compagnia – inutile – di due personaggi che si torturano. Il passaggio dal Rossellini “umano” al Rossellini raffinato formalista (e raffinato, poi, in modo del tutto particolare, con le ingenuità e le insistenze di chi per queste cose non è nato) è ormai compiuto».
Poche sono le eccezioni. Certo è che per chi si schiera a favore di Rossellini il giudizio è incondizionatamente positivo. Tra questi c’è Edoardo Bruno che in Filmcritica parla di Viaggio in Italia come del film «più intimista» del regista e a distanza di dieci anni, sempre sulla stessa rivista, scriverà: «Rossellini con Viaggio in Italia ha dato inizio al secondo tempo di un cinema antiletterario, moderno nella prospettiva operante del neorealismo inteso come rappresentazione aperta della realtà». Ma a difendere Rossellini dagli strali avvelenati della maggior parte della critica nostrana sarà soprattutto quel piccolo, ma agguerrito gruppo di giovani intellettuali francesi che sulle pagine dei Cahiers du cinéma, nel luglio del 1954, pubblica la prima importante intervista a Rossellini, rivivificando quindi il dibattito culturale intorno a colui che ben presto sarà visto come un vero e proprio Maestro, il padre spirituale di una generazione in procinto di esplodere e che di lì a qualche anno darà vita alla cosiddetta Nouvelle Vague. I primi giovani baziniani ad avvicinarsi a Rossellini sono François Truffaut e Eric Rohmer che colgono in Viaggio in Italia, come nei precedenti Stromboli e Europa ’51 un processo di profondo rinnovamento del cinema italiano. Si aggiungerà Jacques Rivette, con il famoso articolo, quasi un saggio, “Lettre sur Rossellini”, in cui il futuro cineasta dichiarerà senza riserve: «Con l’apparizione di Viaggio in Italia, tutti i film sono improvvisamente invecchiati di dieci anni; niente di più impietoso della giovinezza, di questa intrusione categorica del cinema moderno, in cui possiamo finalmente riconoscere ciò che attendevamo confusamente».
Difficile, da questo momento in poi, pensare al cinema di Rossellini svincolato dall’esperienza francese. I due anni e mezzo che il regista trascorre a Parigi sono infatti fondamentali per gli sviluppi futuri dei suoi progetti. L’atmosfera positiva in cui s’immerge, le continue discussioni culturali sono un humus prezioso che gli consentiranno finalmente, alla fine del 1956, d’intraprendere l’esperienza indiana, chiudendo ancora una volta un capitolo artistico e di vita. Coerente fino in fondo solo con se stesso, Rossellini, come un’araba fenice, prenderà nuovamente vita dalle proprie ceneri, proseguendo solitario la sua strada, mai calcolata e mai uguale, ma sempre volta alla scoperta della realtà e dell’uomo.
Viaggio in Italia, regia di Roberto Rossellini, Italia 1954, 97’ (Flamingo Video).