Ancora voci lontane per il regista di Liverpool che torna nella Gran Bretagna degli anni Cinquanta a raccontare un dramma femminile: la storia di Hester, una donna che abbandona la vita agiata con un marito facoltoso e attempato, un insigne giudice della High Court, per l’amore con un giovane, ex pilota della RAF. Davies prende un testo teatrale, del grande drammaturgo Terence Rattigan, scritto proprio in quegli stessi anni in cui si svolge il film. Una voce lontana ma anche una “still life”, una natura morta, una memoria irrimediabilmente distante ma ancora viva. La vecchia Inghilterra del dopoguerra, una società perbenista e repressiva, raccontata da chi ne era indissolubilmente radicato, uno scrittore che rifuggì dal Regno negli anni Sessanta non riuscendo ad accettare il nuovo clima della Swinging London.
E Davies ricrea ancora quella sua personale atmosfera “Old England”, una natura morta dei propri ricordi, con il dovuto distacco estetico, evitando accuratamente ogni stucchevolezza, con una fotografia dai toni seppia desaturati. Il tè delle cinque e gli stencil in un’atmosfera spenta, scialba, non patinata, autunnale, creata con una tavolozza che va dal marrone all’ocra. Risalta il colore rosso vivo del cappotto della protagonista nella scena della sua sfuriata fuori dal pub, chiaro segno del suo animo combattivo, del coraggio nel ribellarsi alle rigide convenzioni sociali, di una vitalità che si alterna alla carica autodistruttiva – in molte altre scene è vestita di nero – che la spinge a continui tentativi di suicidio.
Figurativamente Davies si muove in campo pittorico: «Sono ossessionato da Vermeer», dice. Un pittoricismo cromatico e luministico, un ricercato effetto quadro che nel film si intreccia all’uso frequente di re-cadrage, quadri dentro il quadro, soprattutto riquadri di specchi, vetri riflettenti, porte, finestre, quadretti, arrivando alla pittura diegetica nella scena della galleria d’arte. Davanti a una natura morta cubista, Hester e il suo giovane compagno scherzano e poi litigano, alla fine lui se ne va nella sala degli impressionisti. Da un lato, il dialogo comunica la diversa preparazione culturale tra la donna e il fidanzato, dall’altro la citazione pittorica assume un significato artistico autoriflessivo: un cinema che vuole essere come una natura morta che rifugga però dai modelli classici e più convenzionali di quel tipo di rappresentazione artistica. Così è il cinema di Davies, una “camera verde”, una galleria di immagini, di ritratti, nature ferme.
Il film inizia di sera, con la macchina da presa che si avvicina alla facciata del palazzo di Hester fino a stringere sulla finestra entro la quale si staglia la figura della donna. La composizione dell’immagine è quella di un surcadrage dal chiaro significato allegorico, le grate della finestra che frammentano l’immagine comunicano un senso di prigionia, ma anche l’idea del ritratto. Dopo uno stacco la donna è inquadrata da dietro, in interno, ora è una silhouette nera delineata dalla poca luce naturale che penetra dalla finestra, un’immagine decisamente alla Vermeer con la luce che organizza lo spazio, cui segue il buio totale una volta che le ante vengono chiuse. Un’enunciazione dell’oblio della donna che ha chiuso la finestra proprio per potersi suicidare con il gas. E il finale del film riprende, ribaltandola, la scena iniziale. Lo stesso movimento di macchina però all’indietro, e al mattino, parte dalla donna dietro la finestra, stavolta con un flebile sorriso, per allargare sullo stesso vicolo mostratoo in precedenza, gli stessi personaggi della prima inquadratura nelle azioni corrispettive mattiniere, prendere il latte e il giornale e uscire per andare al lavoro. Poi la m.d.p. segue una donna con carrozzina, incrocia il camioncino del latte per arrivare a dei ragazzi vocianti, che sembrano personaggi dickensiani, che giocano tra le rovine di una Londra che porta ancora le ferite della guerra. Uno squarcio del mondo dell’epoca.
La galleria d’arte di Terence Davies è anche una galleria di cinema: Hester sembra uscita fuori da un melò di Douglas Sirk, come la Jane Wyman di All That Heaven Allows, e la sua relazione adulterina con un pilota della RAF può riecheggiare quella di Breve incontro o sembrare la versione drammatica di quella di Carole Lombard di To Be or Not to Be. E gli echi degli amour fou del cinema di quell’epoca passano anche da Letter From an Unknown Woman a Rains on Sunday, da The Heiress a It Always Now Voyager.
Davies costruisce un film dalla narrazione non lineare, alternando il presente ai ricordi della protagonista, secondo la struttura che era già di Distant Voices, Still Lives (1988) e The Long Day Closes (1992). Il raccordo che chiude il primo flashback appare significativo: un movimento vorticoso, la macchina da presa che ruota continuamente a 360° inquadrando il primo amplesso dei due amanti su un letto, nudi fra le coperte, la prima esperienza sessuale autentica di Hester, poi una dissolvenza incrociata ci riporta nel presente, con lo stesso ruotare dell’immagine, ancora è la donna a essere inquadrata, a partire dalle gambe nude, ancora riversa a letto, tra le coperte, ma stavolta è priva di coscienza perché sta per morire per l’inalazione del gas. Il passaggio tra l’amore e la morte attraverso un’elissi narrativa di una storia che inizia con un amore proibito e conduce a un tentativo di suicidio. E il flashback che riporta più indietro, di dieci anni, è quello della metropolitana, dove una folla di persone trova rifugio dai bombardamenti. Sono quelle memorie, come già in Distant Voices, Still Lives, che condividono lo spazio fisico del presente.
The Deep Blue Sea, regia di Terence Davies, Regno Unito, 2011, 98′.