Dopo l’esordio nel lungometraggio con il promettente Home, presentato a Cannes nel 2008 (interpretato da Isabelle Huppert e Olivier Gourmet), la quarantenne franco-svizzera Ursula Meier ritorna dietro la macchina da presa con Sister (L’enfant d’en haute). Ed è un ritorno vincente, perlomeno per la giuria del Festival di Berlino che quest’anno le ha assegnato l’Orso d’Argento. La storia narrata è molto semplice: il dodicenne Simon (Kacey Mottet Klein) e la sorella maggiore Louise (l’attrice francese emergente Léa Seydoux) vivono in una non ben identificata valle della Svizzera. Lei, spesso ubriaca, non lavora e non sa badare alle faccende di casa. Lui, molto più pragmatico, durante le vacanze di Natale sale con la funivia nel “paradiso” delle piste da sci, frequentate dalla ricca borghesia e arraffa tutto quello che può (sci, guanti, caschi o piumini costosissimi) che rivende poi a valle o addirittura panini che poi costituiranno la sua cena.
Sono chiare fin dall’inizio le intenzioni della regista. Innanzitutto i modelli di riferimento, su tutti il cinema dei Dardenne (fin dall’enfant del titolo) che, data la già precedente collaborazione con Olivier Gourmet, Ursula Meier dimostra di conoscere molto bene. Ed è proprio nel tentativo di emulazione che il film non riesce a crearsi una personalità propria, una sua visione delle cose, ma confonde il rigore stilistico e formale dei due maestri belgi con un freddo quanto distaccato didascalismo. Analizziamo una sequenza come quella in cui il povero Simon è costretto a pagare per ottenere in cambio un po’ d’affetto da Louise. La mera descrizione della sequenza è già di per sé esagerata nel suo significato. Arrivare ad essere così espliciti nella metafora dell’immaturità dei sentimenti e della reificazione degli affetti (già ben chiara ed ostentata: si vedano per esempio le precedenti bugie inventate da Simon con la ricca turista inglese) equivale a caricare di troppo significante immagini, situazioni o comportamenti che hanno già intrinsecamente un significato ben preciso all’interno della sequenza. L’ulteriore carico rischia quindi di snaturare – e non poco – quel modo (moderno) di fare cinema che elegge la sottrazione o il minimalismo a proprio principio e che costituisce il paradigma di riferimento del cinema della Meier.
Tutt’altra sensibilità anche per l’agnizione presente a metà film, che modifica radicalmente l’andamento della storia e il rapporto tra i protagonisti e lo spettatore. Questa agnizione però probabilmente spiazza lo spettatore, ma non contribuisce a dare profondità alla vicenda o ad arricchire il discorso cinematografico, anzi spinge semplicemente verso una svolta melodrammatica. Tutt’altra sensibilità, dicevamo, se pensiamo ad una cosa simile avvenuta in Il figlio dei fratelli Dardenne, quando viene svelata la vera identità del ragazzo: non è un semplice colpo di scena, ma si inserisce nel potenziamento e nell’ampliamento di un discorso cinematografico già ben determinato e strutturato.
Al di là di queste critiche (più che comprensibili tra l’altro nel confronto, pur doveroso, con il cinema impeccabile dei Dardenne) il film risulta comunque un’opera superiore alla media dei lavori che troviamo abitualmente in sala. Interessante e ricco di spunti per esempio è il contrasto tra l’alto (luminoso, splendente e immacolato) delle nevi delle piste e il basso (freddo, apatico, spesso buio e insensibile) della valle. Contrasto che ci regala un finale suggestivo, ambiguo ed aperto. La neve si scioglie e tutta la magia di quel posto da sogno scompare, lasciando spazio alla triste solitudine dell’aridità. Che sia la scoperta di una difficile quanto reale e lucida forma di maturità? Oppure una finale e decisiva disfatta affettiva, avvalorata dall’ultimissima sequenza, con l’incontro dei due protagonisti chiusi nella loro cabina (una sorta di campana di vetro), materialmente e definitivamente impossibilitati ad abbracciarsi?
Sister (L’enfant d’en haute), regia di Ursula Meier, Francia/Svizzera, 2012, 100′.