È una negazione ad accogliere il visitatore sulla soglia della prima retrospettiva che a Milano è stata dedicata a Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi: quel “non” tre volte ripetuto nel titolo, emana una luce debole nella vasto spazio oscuro dell’Hangar Bicocca, ma illumina perfettamente il carattere della loro opera, offrendosi come la cifra di una ricerca insistente e resistente, mossa da una dedizione premurosa quando si tratta di catalogare gli oggetti e le immagini recuperati dall’oblio degli archivi, ma sempre radicale nell’esporre la mostruosità degli stereotipi che in essi traspaiono, sempre insofferente alle categorie e alle false evidenze attraverso cui il potere e i suoi discorsi si infiltrano nelle parole e negli sguardi, nei gesti e nei corpi. A pochi passi da questa scritta, la riproduzione ingrandita di uno degli acquarelli di Angela Ricci Lucchi chiarisce il senso e la necessità di questo rifiuto: mostra i due cineasti di fronte a uno schermo su cui quel “non” si proietta in una definizione in negativo del loro lavoro: “Non politico, non estetico, non educativo, non progressivo, non cooperativo, non coerente: contemporaneo.”
Una dichiarazione che si sbarazza serenamente di ogni comoda casella in cui la loro opera potrebbe trovar posto e afferma piuttosto come essenziale una presa di posizione nel tempo, quella del “contemporaneo” appunto. Sembrerebbe dapprima una provocazione in reazione alle etichette, come quelle di “archeologi” o “amanuensi”, che sono spesso assegnate ai due artisti, a volte con ragioni valide, altre volte senza andare al di là di una connotazione desueta del loro lavoro, del materiale obsolescente con cui trattano e delle modalità artigianali con cui lo trattano: quello scandaglio minuzioso su centinaia di migliaia di fotogrammi, fatti scorrere lentamente, a mano o a manovella, e rifotografati uno ad uno sul piano della loro “camera analitica”. Ma basterebbe ripensare a ciò che diceva Walter Benjamin a proposito del Surrealismo e delle “energie rivoluzionarie che appaiono nel fuori moda” (1), per intuire come tra il tempo in cui si immergono i Gianikian e il nostro tempo non ci sia alcuna contraddizione o, meglio, come questa contraddizione sia indispensabile per la dialettica all’opera nel concetto di contemporaneo. Per suggerire brevemente in cosa può consistere la complessa dicotomia celata nell’evidenza di questo concetto, può tornare utile una citazione di Giorgio Agamben, che, considerando la relazione tra “contemporaneo” e “intempestivo” (o “inattuale”, per riprendere la traduzione più diffusa delle Considerazioni nietzscheane cui si riferisce), così sintetizza: “La contemporaneità è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo.” (2)
Contrariamente all’ubiquità temporale cui l’attualità sembra ormai del tutto assuefatta e che dissolve ogni problematica estraneità del passato nelle forme di un’accessibilità surrogata, sarebbe quindi una particolare ‘obliquità’ a distinguere il contemporaneo, un movimento di aderenza e scarto, che s’incide nel presente rifiutando ogni incastro predeterminato, andando piuttosto a scalfire e rilevare i suoi punti critici, le brecce attraverso le quali può riemergere la complessa stratificazione storica da cui il presente sorge e con cui fa sempre i conti malvolentieri. Più che una posizione allora, quella del contemporaneo è una continua ricerca di posizione, che deve sempre giocarsi in un intervallo tra tempi (tra immagini), ma che insiste sempre, inevitabilmente, sul presente, anche e soprattutto quando lo coglie alle spalle, assillando la sua memoria con ricordi inopportuni, facendo vacillare la rassicurante nozione di “documento”, con cui il passato viene consegnato per essere archiviato e, quindi, rimosso.
L’effetto disturbante che si rinnova ad ogni proiezione di un film dei Gianikian, quello choc dilatato che sembra raggiungerci, come un cigolio emesso dalla faticosa rianimazione meccanica di quelle spoglie fotografiche, scardina il paradossale vincolo tra commemorazione e rimozione che caratterizza il nostro tempo: ci pone di fronte alla natura inquieta e intrattabile del documento, simile forse a quella che doveva avere in mente Georges Bataille, quando propose al suo editore l’ambiguo titolo di “Documents” per la rivista che avrebbe diretto. Un lavorio di scarti e sfasature agita e scompone i documenti di repertorio ripresentati dai cineasti, agendo su piani molteplici, a partire dalla presentazione stessa: lo scarto minimo, ma cruciale, tra il fotogramma originale e quello proiettato. La camera analitica, infatti, non riproduce semplicemente ciò che passa al suo vaglio: arresta e rallenta, isola e ingrandisce, scruta e scava i singoli fotogrammi, in cerca di segreti, sintomi dell’immagine. La traiettoria dello sguardo analitico è un andirivieni continuo tra la superficie della pellicola, con le sue muffe e le sue piaghe temporali, e la profondità dell’immagine, dove giacciono dettagli rivelatori, lapsus marginali che sfuggono a chi detiene il controllo dell’inquadratura come allo spettatore ‘prescritto’ dall’istituzione cinematografica, distratto e assorbito in un flusso di immagini che non può arrestare, analizzare, pensare. Il tempo sospeso, rallentato e ritornante, in cui i Gianikian immergono i loro frammenti filmici, ne scuote la superficie ingannevolmente piana e trasparente, facendo salire a galla quanto essa dissimula o nasconde allo sguardo, consentendo di afferrarlo nella fissità del fotogramma, residuo di verità fotografica assimilato e rimosso dalla progressione incessante della pellicola: istantanea e spettrale, la riemersione di quell’impronta temporale ci riconduce al momento in cui i corpi sono rimasti infilzati dallo sguardo che inquadra, esponendo al contempo le tracce che questo ha lasciato nell’inquadratura.
Questo movimento intermittente, che affonda e riemerge dalle immagini, apre a un complesso lavoro di rimemorazione, all’inesausta ricerca di una giusta distanza, ottica e temporale: un equilibrio sottile, in costante oscillazione tra la necessità di conservare e la responsabilità di trasformare il cumulo di detriti e orrori che la Storia non smette mai di deporre ai nostri piedi. Quella che gli stessi cineasti hanno definito una lotta contro “l’amnesia chimica” della pellicola, è tanto lontana dalla logica ‘storicista’ del restauro, che aspira a ricostituire un corpo integrale, rimuovendo la patina temporale e cercando di annullare le distanze, quanto da quello che si potrebbe definire un ‘esotismo’ del nitrato (si pensi a cineasti sperimentali come Jurgen Reble o a Bill Morrison), che soggiace proprio al fascino della distanza, alla seduzione viscosa di quella patina e alle alchimie della disgregazione. Anziché affrontarlo come un testo da ricostruire o una materia da manipolare, i Gianikian si pongono di fronte al film come un oggetto (3) da restituire, in tutte le sue stratificazioni. La consistenza del film è così preservata, nella sua opacità di cosa e nella sua degradazione temporale, ma proprio perché la sua illusoria trasparenza sia turbata e aperta all’indagine critica. L’occhio si sofferma e lascia parlare questi oggetti: clinico nel rilevare i germi microscopici e macroscopici delle ideologie che si fanno strumenti di dominio, esso è anche profondamente partecipe, capace di lasciarsi folgorare da ciò che nell’immagine restituisce uno sguardo. La pietas che i cineasti rivolgono al “corpo ferito” del film penetra oltre la sua superficie, è uno sprofondare attento e sollecito negli anfratti dell’immagine, teso a recuperare gli esseri che vi sono imprigionati, la “vita offesa” di uomini, animali, oggetti, che la pellicola, suo malgrado, raccoglie e porta con sé. Un mondo sommerso e occultato da una cattiva trasparenza, riaffiora lentamente nella sua muta protesta di esistenza, di un passato che non può essere archiviato. E la lentezza della ripetizione di queste immagini, sembra restituire una possibilità a quanti vi sono rimasti imprigionati; come i soldati che, nelle scene di battaglia sull’Adamello di Su tutte le vette è pace (1998), come dice Yervant Gianikian durante la conferenza stampa, “muoiono in due o tre fotogrammi”. Perché quella vita, bloccata dagli scatti dell’otturatore e laboriosamente rimessa in moto dalla camera analitica, rappresenta quanto è sfuggito allo sguardo del secolo, non solo di quello appena trascorso e di cui i Gianikian hanno ripercorso tanti sentieri straziati (la prima guerra mondiale, il genocidio armeno e quello dei Rom, gli orrori del colonialismo e la guerra dei Balcani), ma quello di ogni epoca che non sappia rendersi contemporanea di se stessa, che non sappia cioè riguardarsi e percepire ciò che la riguarda, fissarsi non sulle luci abbaglianti che impone l’attualità, ma sull’oscurità che la circonda e la individua, sulle ombre che insistono nella sua memoria: per riprendere Agamben, “contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo.” (4)
Come si diceva, a partire da quel fondamentale scollamento, tra il fotogramma ripreso dalla camera analitica e la sua spettrale ricomparsa nella proiezione, la logica dell’intervallo si riproduce a livello dell’intero film, nel montaggio delle inquadrature e delle sequenze, virate in colori differenti, messe in connessione e in conflitto, secondo un registro che applica il rigore del saggio, senza patirne la pesantezza e l’invadenza argomentativa. Esiste poi un’ulteriore possibilità per questo assemblaggio critico, fatto di brecce e sfasature: l’installazione multicanale, di cui questa mostra ha il merito di aver riunito gli esempi più significativi, realizzati da Gianikian e Ricci Lucchi per le numerose e importanti istituzioni internazionali che da tempo (e molto più che in Italia) hanno riconosciuto e sostenuto il valore della loro ricerca. Il “cubo” sul fondo dell’Hangar, che ospita opere come il Trittico del Novecento (2002-2008) e Frammenti Elettrici (2002-2004), diventa davvero la terza dimensione di questo continuo slittamento tra le immagini, che coinvolge e mobilita in modo ancora più stringente l’osservatore. Circondati dalle enormi pareti su cui si stagliano i pannelli da proiezione, si ha dapprima la sensazione di essere invasi, sopraffatti dalla successione e dalla collisione delle immagini: lo sguardo è spinto di continuo da uno schermo all’altro, si lascia afferrare e si svincola dalla potenza degli spezzoni anonimi che gli artisti estraggono per comporre la loro “microstoria” del secolo passato. Assediati da una visione traboccante, eccessiva, si ha dapprima l’impressione di perdere, nell’impulso a vedere tutto e troppo, quel tempo sospeso e pensoso che emerge insieme al fotogramma, mentre in realtà è proprio questa ulteriore messa in gioco dello sguardo a rendere sensibile il principio di choc su cui quel tempo si regge, trasmettendo qualcosa della tensione fluttuante, con cui i cineasti devono perlustrare l’enorme mole dei loro materiali, e dell’assalto traumatico con cui un dettaglio può emergere da un singolo fotogramma e imporsi all’attenzione.
Ma prima ancora di giungere al cubo, è La marcia dell’uomo a dare un’efficace sintesi dello stretto rapporto che si può creare tra la genesi ‘fotogrammatica’ dei lavori dei Gianikian e le forme espanse della loro esibizione. Come una processione che risale e rallenta il passo ‘normale’ della pellicola, l’installazione (presentata per la prima volta alla Biennale di Venezia del 2001) si compone di tre schermi, che scandiscono l’ampia navata dell’Hangar, tre date (1895, 1910, 1960) e altrettanti punti di frizione tra lo sguardo occidentale e l’Altro, l’homme nègre in questo caso: l’esperienza è quella di una camminata ‘genealogica’, che sospende il tempo dei film per muoversi tra i tempi del cinema, cogliendo costanti e mutazioni nello sguardo cinematografico. Esso viene dapprima ricondotto alla sua radice scientifico-analitica, alla decomposizione del movimento di Etienne-Jules Marey, per poi ritorcergliela contro, per denunciare i punti ciechi della sua presunta obiettività, il fondo pulsionale e il cascame ideologico sottesi alla freddezza con cui disseziona il reale. Il primo schermo presenta appunto la rianimazione delle cronofotografie di Marey: la camminata di alcuni Senegalesi, scandita e fissata sulle sue lastre, viene qui forzata a un nuovo movimento, lento ed esitante, a suggerire come, fin dai suoi primi passi e ancor prima di muoverli davvero, il cinema si fondasse sulla rapacità implicita in questo processo di scomposizione. Le indagini del fisiologo francese miravano, infatti, ad un controllo cognitivo dei gesti e delle funzioni corporee che era la condizione e il preludio di un controllo ben più pragmatico e stringente: l’inserimento funzionale della vita entro i meccanismi sempre più raffinati e costrittivi della civilizzazione, per cui i corpi, scansionati dalla macchina, avrebbero dovuto muoversi come la macchina e dentro la macchina (5). Questa violenza classificatrice e predatoria, che riconduce il cinema alla sua culla ideologica nella ratio positivista, si proietta quindi nell’impresa cinematografica di esplorazione e conquista del mondo attraverso le immagini, che nella successione degli altri due schermi, assume le spoglie dell’etnografia colonialista e dell’imperialismo capillare del turismo. Procedendo dalla distanza scrutatrice di Marey, assistiamo a un avvicinamento progressivo del cinema al proprio “soggetto” (le didascalie inserite dai registi sottolineano provocatoriamente la disumanità implicita nel lessico scientifico), ulteriori tappe nel processo di cattura di un’identità sfuggente, in cui la produzione di una soggettività ‘esotica’ va di pari passo con l’assoggettamento dei corpi, dei gesti e della cultura che essi incarnano. Così, dall’osservazione pretestuosamente scientifica, ma effettivamente manipolatrice, dei filmati etnografici del 1910 arriviamo a un frammento amatoriale degli anni ‘60, dove il turista occidentale posa compiaciuto insieme ai trofei del suo safari erotico: lo sguardo del cineamatore non si confronta neanche più con un corpo da umiliare e rendere docile, ma con uno stereotipo ormai fabbricato e pronto da consumare. La presentazione dei materiali sfrutta dunque l’originaria pulsione analitica del cinema per liberare quei corpi, per farli emergere nella loro singolarità e persistenza entro lo scorrimento della pellicola: un flusso che li riduce alla propria ‘metrica’, mentre li paralizza in una definizione che è già una prima, essenziale espropriazione. Per questo si riparte da Marey e dal suo movimento raggelato, per rimetterne in gioco il potenziale non più sui corpi esaminati in laboratorio attraverso gli scatti dell’otturatore, ma sul corpo del film stesso, inquietando il suo movimento rassicurante e calibrato, costringendolo a un passo tormentato, incespicante, affannoso.
Ma forse, al di là della pertinenza storica e teorica di questo ritorno a Marey, c’è una via più immediata per cogliere la particolare andatura dei film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi: questa velocità alterata e variabile sorge, come già in molti hanno notato (6), anche da una circostanza molto più prossima al lavoro concreto dei due artisti, e forse proprio in questa prossimità si può cogliere più in profondità la radice etica del loro lavoro. Lo stato di degradazione dei materiali filmici, la cui fragilità impedisce un passaggio diretto nel proiettore o alla moviola, fa sì che le pellicole o i frammenti di pellicola, ancor prima che sul piano di scorrimento della camera analitica, vengano spesso visionati a mano: così, prima ancora che sullo schermo, le immagini riprendono a pulsare tra le mani dei cineasti, in una temporalità che non appartiene propriamente né al cinema né alla fotografia, ma ad una dimensione interstiziale delle immagini, a quell’entre-images esplorato in profondità da alcuni saggi di Raymond Bellour (7). Questa prima prensione mette in rilievo la plasticità del tempo cinematografico, intimamente legata alla velocità di scorrimento della pellicola e alle sue variazioni, e potrebbe essere pensato come il presupposto per il lavoro di modellato condotto dai Gianikian sulle registrazioni. La presenza della mano che avvicina l’oggetto filmico, permettendo allo sguardo di esplorarlo ed avvolgerlo, racchiude così in un gesto tanto la qualità critica quanto quella amorosa del loro cinema.
Questo aspetto tattile del loro approccio si può ritrovare negli spazi più intimi e contenuti posti all’inizio, o (meglio) alla fine della mostra, come due punti di fuga ideali che riattraversano il suo corpo principale e lo illuminano, sempre obliquamente; ma in questo caso la luce sembra arrivare dai corridoi dell’infanzia, dalla tenerezza e dall’ossessione che quell’età dedica al principio della collezione. Da una parte ci sono gli acquarelli di Angela Ricci Lucchi: insieme al lungo rotolo su cui scorrono le fiabe armene raccontate da Raphael Gianikian, padre di Yervant, sono esposti questi diari di lavoro e di vita, che riprendono ed estendono i cataloghi dei loro film e ne ricordano i traumi, con le loro linee gracili e nervose, su cui i colori si spargono a volte come esplosioni o bolle di nitrato. Nella sala accanto ruota in loop la collezione di Carroussel de Jeux. Questo video, girato in formato analogico Hi8, è la prima versione di Ghiro Ghiro Tondo, più corta di circa venti minuti, e presentata per la prima volta alla Galerie National du Jeu de Paume nel 2006. Rappresenta un ritorno alla forma catalogo del primo periodo, ma un ritorno fatto riattraversando tanti aspetti di quanto segue alla cesura di Dal Polo all’Equatore (1984): il passaggio dai cataloghi filmici profumati al cinema stesso come immenso catalogo, l’immersione negli orrori del Novecento e negli archivi che li conservano, la “ricerca incessante” e il bisogno di mettere la mani su quegli archivi, di “possedere i materiali fisicamente”. Perché “è necessario essere collezionisti” (8), bisogna possedere un archivio per decifrarne i segreti. E quello di questa collezione di 10.000 giocattoli, ritrovati da Gianikian negli Settanta sulle Alpi orientali e da allora conservati e frequentati in una perturbante familiarità, il segreto lo svela sempre la mano che scarta, apre scatole, rivolta e scopre all’occhio tracce del passato di quegli oggetti macilenti, stranamente fragili, da “trattare con delicatezza” come le pellicole decadute. Sono “i giocattoli di Ro.Ber.To.”, (l’asse Roma-Berlino-Tokio), residui di un’infanzia deturpata dalle due guerre mondiali, tracce di quei soldati visti combattere, morire o tornare mutilati nella trilogia della guerra su cui i due lavoravano in questo periodo (9) (e a tratti questo catalogo d’infanzia diventa insostenibile quanto il repertorio medico di Oh! uomo). Ma Ghiro Ghiro Tondo può anche suggerire un’implicita riflessione sul rapporto tra mano e occhio, che stringono un nesso tra esperienza e memoria, nel modo di toccare un’immagine-oggetto, di avvicinarla e accogliere il suo sguardo nel proprio. Nel carattere ‘sporco’ del video, sembra realizzarsi una traduzione di questo rapporto, in particolare nella presenza costituita dalla messa a fuoco variabile della telecamera Hi8, che perde e ritrova gli oggetti mentre Gianikian li avvicina con la mano all’obiettivo o approssima il suo occhio di vetro ai loro. Questa momentanea perdita di presa dell’occhio sul suo oggetto, che deriva, paradossalmente, da una tensione ad avvicinarsi, si pone come un’altra sfasatura, segno di quella difficile ricerca di una distanza da cui afferrare un’immagine, lasciandola essere, lasciandosene riguardare.
Se spesso le immagini rimesse in moto da Gianikian e Ricci Lucchi mettono in luce la violenza oggettivante, l’appropriazione sadica intimamente legata all’azione della ripresa (e che il “fucile fotografico” brevettato dallo stesso Marey evoca fin troppo bene), il gesto, con cui essi “riprendono” in mano le loro pellicole, scardina in modo sottile i meccanismi coatti del cinema, ma anche quelli della memoria e del presente. La cura e la lentezza con cui i due artisti approcciano i loro materiali, vi sprofondano, vi ritornano, fanno sì che il loro sguardosi trattenga sulla ‘luce oscura’ che emana dai materiali d’archivio; lontano dalla scivolosa e brutale superficialità con cui, oggi, la logica dell’appropriazione dilaga, spesso oltre i margini di un’autentica ricerca, rischiando di sconfinare in ideologie da “produttore-consumatore”, che spesso celano solo la realtà misera dell’utente. E proprio in questa asfissiante attualità, con cui l’archivio digitale rende accessibile e manipolabile una quantità sterminata di materiale, la lentezza anacronistica di Gianikian e Ricci Lucchi fa riflettere sulla profonda responsabilità che comporta il gesto con cui ci si appropria di un’immagine. In modo, se non esemplare (visto che, tra i loro “non”, rifiutano anche ogni etichetta educativa), indubitabilmente contemporaneo.
Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. NON NON NON
A cura di Andrea Lissoni e Chiara Bertola
Hangar Bicocca, Milano. 12.04 – 10.06.2012
Da qui si può scaricare (pdf + epub) il “Quaderno critico” della mostra, il primo di una serie che Hangar Bicocca ha cominciato a pubblicare sotto licenza Creative Commons.
NOTE
(1) Cfr. Walter Benjamin, “Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei”, in Id., Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino, 1993, pp. 266-267.
(2) Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Roma, 2008, p. 9.
(3) Sulla qualità oggettuale nel lavoro dei Gianikian cfr. Rinaldo Censi, “Oggetti trovati”, in “Quaderno critico N.1”, HangarBicocca (vedi link qui sopra), pp. 41-47
(4) Giorgio Agamben, ibid., p. 15
(5) Cfr. Jonathan Crary, Techniques of the Observer, MIT Press, Cambridge MA, 1992
(6) Cfr. Dominique Païni e Danièle Hibon, “Del documentario fatto a mano”, in P. Mereghetti, E. Nosei (a c. di) Cinema anni vita. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Il Castoro, Milano, 2000, p. 97-100. E anche: Raymond Bellour, Mano di verità, in “Quaderno critico N.1”, pp. 55-58
(7) Cfr. Raymond Bellour, L’entre-images. Photo. Cinéma. Vidéo. , La Différence, Paris, 2002 (Ried.). Trad. it.; Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
(8) Cfr. l’intervista del curatore agli artisti, sempre nel “Quaderno critico”: Andrea Lissoni, “Scruta, interroga, graffia. Gianikian e Ricci Lucchi, esplorare senza arrendersi mai alla storia”, p. 22
(9) Composta da Prigionieri della guerra (1995), Su tutte le vette è pace (1998) e Oh! uomo (2004)