Sfruttare la sfera onirica o la visionarietà per contrapporla alla realpolitik (e così comprenderla meglio) non rappresenta strettamente un inedito nel cinema contemporaneo. Il primo esempio a venire in mente è quello di Moretti de Il caimano, con una coda più riuscita, ma dal pattern per certi versi similare, in Habemus Papam. Detto dell’ammirazione del Nanni per il cinema dei Dardenne e della presenza come protagonista assoluto in L’exercice de l’État di Olivier Gourmet, volto iconico del cinema dei fratelli pluripalmati, le somiglianze tra il morettismo e il secondo film di Pierre Shoeller – preceduto dal già promettente Versailles – terminano qui.
E basterebbe l’ouverture, che riprende esplicitamente The Legend of Virginity di Helmut Newton (e quindi indirettamente Pina Bausch). Uno degli incipit più potenti a cui si è assistito nel cinema recente: erotico, metaforico, inaspettato, buñuelliano. Figlio bastardo del Petri di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e del Kubrick di Eyes Wide Shut. Presi da un’inutile smania di compressione, L’exercice potrebbe anche vivere tutto lì, in una sequenza fulminante che sussume l’opera, senza con questo sminuire lo svolgimento seguente, che rende esoterico ciò che l’introduzione spiegava con il simbolismo. Comincia così il viaggio nel pubblico e nel privato di un prototipo del politico moderno, forse conservatore – ammesso che questo abbia importanza – di certo scisso tra il voler operare secondo rettitudine e coscienza e i compromessi incombenti a cui occorre piegarsi inevitabilmente. Una figura che reca in sé qualcosa di tragico, e che con tragedie che sembrano contrappassi esemplari è costretta a interagire, su cui la macchina da presa indugia senza alcuna retorica, bensì con verismo cinetico, seguendo il ritmo al cardiopalmo di una vita forse insensata, da cui ne dipendono inconsapevolmente milioni di altre. Bertrand Saint-Jean è un uomo solo, nei suoi affetti, nelle ideologie che non riconosce più, che ritrova la vita in scampoli di semplicità appartenenti a un mondo estraneo. Come illustra, in un’ellissi narrativa dall’importanza inversamente proporzionale alla durata, quel delizioso frammento di cinema in cui Saint-Jean fa visita al suo autista e alla di lui consorte, verace esempio di donna sarda e idealista. Un microcosmo modesto e autosufficiente che con la sua sola presenza, inevitabilmente invadente e arrogante, Saint-Jean è destinato a disturbare e inquinare.
Dopo Pater di Alain Cavalier, astrazione meta-cinematografica del ruolo del politico odierno, il cinema francese torna a scavare negli anfratti del potere, forse per spiegare a se stesso come si è giunti all’era Sarkozy. Pierre Shoeller si affida in L’exercice de l’État a Olivier Gourmet per il ruolo del ministro dei Trasporti, seguendolo ossessivamente fino a visualizzare, quasi in maniera fincheriana, i messaggi ricevuti sul blackberry, durante giornate intense quasi quanto gli incubi che tormentano il sonno dell’uomo pubblico. E mettendo a nudo le contraddizioni di un politico determinato, risoluto e in realtà fragilissimo, combattuto tra l’impulso di prendere decisioni su due piedi e le conseguenze, talora tragiche, di scelte affrettate, combattuto persino sul ruolo del suo fedele capo di gabinetto (un sorprendente Michel Blanc), quintessenza del potere proprio in quanto asservito acriticamente al medesimo.
Shoeller osserva attentamente ma non giudica, proprio nello stile dei Dardenne, lasciando al pubblico il compito di leggere tra le righe di un racconto scisso dal contrasto tra verismo documentaristico e sequenze oniriche a sfondo massonico e di elaborare le sue (amare?) conclusioni.
L’exercice de l’État, regia di Pierre Scholler, Francia, 2011, 115′.