La Francia si reimpossessa di Marie Antoinette: dopo l’incursione profana di Sofia Coppola nella reggia di Versailles, l’atmosfera Luigi XVI è ricostruita per offrire una nuova messa in scena, essenziale ma efficace, ad opera del controverso Benoit Jacquot. Il centro della narrazione è la manciata di giornate attorno alla presa della Bastiglia, dal 12 al 15 luglio 1789: all’interno della reggia la vita appare imperturbata, ogni parola di troppo è proibita fino a quando la situazione precipita.
La chiara scelta di seguire la giovane lettrice di corte, isolata nella zona della servitù e in perenne corsa tra richieste dell’amata regina e favori a cui deve sottostare in una gerarchia che coinvolge ogni abitante di Versailles, è il punto d’interesse di quest’opera ammaliante dall’incipit teorico e forte. La macchina da presa corre sulla pelle candida del corpo di Léa Seydoux (qui prende il posto della musa Isilde Le Besco) soffermandosi su una zanzara che lascia una striscia di punture sul bel braccio mollemente abbandonato nel sonno. L’irritazione della puntura diventa il leit motiv, incidentale quanto suggestivo, di uno sguardo epidermico, incapace di volgere gli occhi verso un contesto, incollato come è ai corpi di una ronde di donne affascinanti e misteriose. Ed ecco che la statica reggia, paludata in un potere tradotto in formule e ricorrenze, si apre in una sua danza, un movimento interno costituito da sguardi fugaci che tradiscono la disciplina dei corpi. L’elegante Marie Antoinette, interpretata da Diane Kruger, e la suadente Madame de Polignac di Virginie Ledoyen (perfetta nelle intenzioni, quanto fuori luogo nell’interpretazione) vivono un amour fou di cui la vittima sacrificale sarà la giovane lettrice, innalzata prima a confidente per poi prendere le vesti dell’odiata contessa, nell’impossibile fuga (dalla Storia) che suggella il finale.
L’andamento ritmico del film, composto sull’evoluzione della dicotomia tra privato e pubblico, prevede pochi e significativi momenti di liberazione: scene in cui la lettrice vaga per il palazzo o corre da un posto a un altro, immergendo la sua presenza in un luogo che conosce a menadito ma non gli appartiene ed entra brutalmente in conflitto con il suo dinamismo. La presenza di una comicità slapstick, nota leggera nell’interpretazione di Léa Seydoux a cui non si lesinano cadute disastrose ed eleganti scivoloni, ci offre la rappresentazione di una lotta interna tra il dinamismo degli umili costretto e fustigato dall’apparente immobilismo del regno.
Dopo gli incantesimi di Au fond des bois, svincolati da un contesto sociale e per questo più diretti nel loro messaggio politico, con Les Adieux à la reine il regista appare più indeciso, lasciandosi attirare dalle pagine della Storia ma non trovando sempre la visione tattile dei migliori momenti del suo cinema. E non basta il fuoricampo occluso del finale a sancire un giudizio testimoniale, che sembra spalancarsi all’attualità francese ormai priva di interpreti dei fatti ma solo di corpi in ostaggio del potere.
Les adieux à la reine, regia di Benoît Jacquot, Francia/Spagna, 2012, 100′.