Nessuna disposizione per la vita. Una sorta di aspirazione
costante alla follia. Alla morte. Popolo di suicidi, popolo di poeti.
 (Adam Mickiewicz, Viaggio in occidente)

Diplomato presso l’Instytut Filmowym (l’Istituto di cinematografia) di Cracovia nel 1946, Jerzy Kawalerowicz inizia la sua carriera come sceneggiatore per passare in breve tempo alla regia, ottenendo immediatamente attenzione critica con il suo Cellulosa (Celuloza, 1954). Un’attenzione che si guadagnerà anche con il successivo L’ombra (Cień, 1956). Già nel 1955 Kawalerowicz diventa direttore dell’unità di produzione Kadr, uno dei più prestigiosi gruppi di lavoro del cinema polacco, i cosiddetti zespóły filmowe, ovvero le realtà produttive in cui è suddivisa la Film Polski, organizzate intorno ad una figura di dirigente artistico, dotate di una relativa indipendenza rispetto al potere centrale e di una buona autonomia finanziaria. Kawalerowicz ricoprirà questo ruolo fino agli anni Settanta, producendo, tra gli altri, molti film di Andrzej Wajda.

Autore nel 1957 de La vera fine della grande guerra (Prawdziwy koniec wielkiej wojny), il regista, realizzando Treno di notte (Pociąg, 1959), per la prima volta nella storia del cinema polacco prende le distanze dai due temi principali delle pellicole dell’epoca, ovvero il soggetto di guerra e l’edificazione del socialismo reale. Due temi fortissimi, dato che da un lato l’esperienza del conflitto è per la Polonia più catastrofica che per gli altri Paesi europei (una doppia invasione – tedesca e russa – con decine di milioni di morti, reduci e mutilati) e, dall’altro, la costruzione della “nuova” società non può essere che un obiettivo propagandistico primario per i vertici del regime. I registi della cosiddetta prima generazione, composta da personalità già attive prima della guerra come Aleksander Ford (Fiamme su Varsavia, Ulica Graniczna, 1948) e Wanda Jakubowska (L’ultima tappa, Ostatni etap, 1948) sono dei veri e propri campioni di un cinema che per almeno un decennio, a partire dalla fine della guerra, è sostanzialmente bloccato da un punto di vista tematico.
Possiamo per questo dire che con Treno di notte Kawalerowicz (non a caso uno dei capofila della cosiddetta “seconda generazione”, insieme a Kazimierz Kutz e Wojciech Has) sposta l’attenzione dal dramma alla polacca (di natura storica) al dramma all’europea, relativo cioè a questioni più strettamente individuali riguardanti i singoli protagonisti delle vicende narrate. Nello specifico, nel film ambientato in un treno notturno che percorre la linea ferroviaria sulla costa del Baltico, vengono presentate le difficoltà sentimentali dei protagonisti, Jerzy (Leon Niemczyk) e Marta (Lucyna Winnicka). Sullo sfondo, le storie degli altri passeggeri e anche una trama gialla legata all’uccisione di una donna. Nell’angusto e ristretto spazio del treno (la pellicola è pressoché interamente girata in questo interno) lo spettatore si trova di fronte ad un microcosmo della società e alle sue dinamiche. In particolare, risulta forte la critica del regista nei confronti dei rappresentanti della piccola e media borghesia cittadina polacca, arroccata sulle proprie posizioni di minimo benessere, i cui pensieri sono dominati da luoghi comuni e preconcetti. Forse, a stupire di più lo spettatore occidentale sono le scelte di messa in scena (de-drammatizzazione, recitazione anti-naturalistica, rifiuto del sistematico ricorso al campo/controcampo nei dialoghi), scelte lontane dai sommovimenti della modernità cinematografica della fine degli anni Cinquanta. Secondo quella che diventerà una consuetudine nel cinema polacco successivo, la colonna sonora musicale è dominata dal jazz. Il compositore scelto da Kawalerowicz è Andrzej Trzaskowski, che nel corso della carriera collaborerà anche con Wajda (1).
Tratto da un romanzo di Jarosław Iwaszkiewicz, Madre Giovanna degli Angeli (Matka Joanna od Aniołów, 1961), Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes nel 1961, è uno dei film più atipici nel panorama del cinema polacco dell’epoca. Prendendo spunto dalla vicenda risalente al XVII secolo e avente al centro i fatti di possessione demoniaca avvenuti nel Convento delle Orsoline di Loudon, il film è percorso da una profonda vitalità erotica che lo rese particolarmente inviso alle gerarchie ecclesiastiche. Nei panni di Madre Giovanna, la Madre Superiora del Convento, Lucyna Winnicka, già protagonista di Treno di notte. Padre Suryn è il prete inviato sul posto per tentare di risolvere la situazione ormai sfuggita di mano all’autorità. Il tema della possessione è per Kawalerowicz il punto di partenza per compiere una riflessione sulla natura umana e sulla psicologia individuale.
 
Altro grande rappresentante della “seconda generazione” è Andrzej Munk. Forse più noto di Kawalerowicz all’estero (ricordiamo in tempi recenti una significativa retrospettiva alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2001 e una serie di importanti uscite in dvd sul mercato francese), Munk è l’autore di pellicole come Un uomo sui binari (Człowiek na torze, 1957) e La passeggera (Pasażerka, 1962), quest’ultimo definito da Jean-Luc Godard “l’unico film sui campi di concentramento”.
Docente alla Scuola di Cinema di Łodz, Munk inizia la sua carriera come documentarista, assumendo nei confronti della realtà un atteggiamento nuovo rispetto a quello tipico all’epoca. Come lui stesso ricorderà, “Negli anni Cinquanta imperava nel documentario uno stile laccato. Le persone semplici non comparivano con le loro storie difficili, spesso tragiche. In queste condizioni era impossibile realizzare un documentario vivo. Parola di ferroviere (Kolejarskie słowo, 1953), Le stelle devono brillare (Gwiadzy muszą płonąć, 1954) e La croce azzurra (Błękitny krzyż, 1955) furono la reazione al canone praticamente assoluto di quell’epoca, che raccontava la vita attraverso fanfare e sfilate, al ritmo di una gioiosa marcetta e della posa ritmica dei mattoni. Così il film Le stelle devono brillare fu la reazione alla rappresentazione idilliaca del lavoro nelle miniere dove tutto doveva essere bello, facile, eroico e sicuro. Volli mostrare la verità, e cioè che non era né bello, né facile, né sicuro, e proprio per questo era eroico” (2).
Munk trasferisce la stessa tensione verso una rappresentazione più veritiera della realtà anche nei suoi film di finzione – sebbene il suo primo film a soggetto, Un uomo sui binari presenti ancora molte tracce di un approccio documentaristico, raggiungendo già con il suo secondo lungometraggio, Eroica, 1957, risultati altamente significativi. Il regista ci ricorda che “Eroica è, come noto, il titolo di una sinfonia di Beethoven. La figura centrale delle tre parti che la costituiscono è un uomo che rappresenta in ciascuna un tipo di eroismo diverso” (3). Per secoli la Polonia è stata oggetto delle mire espansionistiche di grandi potenze. Dalla fine del Settecento al 1918 il Paese è stato diviso tra Russia, Prussia -poi Germania- e Austria. Alla caduta dei tre imperi, ottiene l’indipendenza per vent’anni, per poi essere invasa dalla Germania del Terzo Reich e, in seguito alla Conferenza di Yalta, essere posta sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. I lunghi periodi di occupazione sono sempre stati segnati da rivolte e insurrezioni tutte destinate allo scacco. L’immaginario patriottico dell’intera Polonia si costruisce intorno alla morte, al sacrificio della felicità personale, dei beni e dei cari. Sacrificio votato al fallimento, tanto che si è spesso parlato di eroismo inutile del popolo polacco. Come scrive Tadeusz Sobolewski, “cresciuto nel culto dei tragici eroi nazionali, nel culto della sconfitta, nel culto degli eroi romantici, il cui mondo era comunque precluso alla sua comprensione, il polacco nel ventesimo secolo era per forza condannato a vivere di illusioni” (4).
Eroica si pone come dichiarato tentativo di svelamento dei falsi ideali di eroismo del popolo polacco. In particolare, il secondo degli episodi che compongono la pellicola, Ucieczka, è ambientato in un campo di prigionia in cui aleggia la figura leggendaria di un certo tenente Zawistowski, l’unico ad essere evaso con successo. Tutti i prigionieri lo idolatrano, immaginando la sua nuova vita a Londra o in Svizzera. In realtà, egli è nascosto nel sottotetto di una baracca, nutrito da due misteriosi militari. Verrà condotto via, da morto, all’interno di una grande pentola che funge da bara. Nessuno saprà nulla, e il mito resisterà alla realtà. Un eroismo solitario quanto inutile, visto che la sua impresa non induce gli altri prigionieri alla fuga, condannandoli all’immobilità.
Il film (che ha qualche punto di contatto con La vera fine della grande guerra di Kawalerowicz), opera irriverente per i canoni dell’epoca, si avvale dell’ironia al posto di una retorica tragicità di fondo. Munk affermerà: “Mi hanno sempre affascinato le opere d’arte che spingono sul registro del comico. Ho notato che è molto più difficile provocare il riso che la paura. Nel cinema, che è un’arte verista, la sensazione della paura può essere ottenuta molto facilmente. Io penso che non vi possano essere dramma ed emozione profondi senza divertimento” (5). Insomma, il regista la pensa come Wiltold Gombrowicz, secondo cui “di fronte alle tragedie non si devono assumere pose funebri”.
Stilisticamente, Munk (al pari di Kawalerowicz) è probabilmente debitore del Neorealismo italiano che, come noto, è tra il poco cinema estero a circolare alla Scuola di Cinema di Łodz tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Importante ricordare che all’epoca, tanto in Polonia quanto in Unione Sovietica, il Neorealismo è tacciato di pessimismo, in quanto, spesso, all’interno dello scontro sociale rappresentato, la classe operaia (o subalterna in genere) viene sconfitta, mentre invece, stando ai dettami della propaganda, avrebbe dovuto trionfare almeno sotto il profilo morale. Dal punto di vista rappresentativo è ufficialmente osteggiata la tendenza del cinema di Rossellini e di altri cineasti italiani al naturalismo, ovvero al ricorso di descrizioni minute di fatti quotidiani apparentemente banali: quanto di più lontano, in sintesi, dalle gesta eroiche che fino a quel momento avevano caratterizzato il cinema polacco (6).

Anche Andrzej Wajda si forma attraverso la visione del cinema neorealista. Esordiente al lungometraggio con Generazione (Pokolenie, 1954), film ancora fortemente influenzato dal realismo socialista, ma non esente da influssi italiani, Wajda è certamente il cineasta polacco dell’epoca più noto all’estero. La proiezione del suo I dannati di Varsavia (Kanal) al Festival di Cannes del 1957 rappresenta un vero e proprio caso che pone l’intera cinematografia di Varsavia all’attenzione della critica internazionale. Sono i critici francesi dei Cahiers du Cinéma a coglierne l’importanza, sottolineando più che i meriti del regista il senso di una mutata tendenza dell’intero cinema polacco. A consacrare definitivamente Wajda come il regista di punta della “seconda generazione” il successo del seguente Cenere e diamanti (Popiol i diament, 1958): un film diventato celebre anche grazie alla presenza dell’attore Zbigniew Cybulski, noto come il “James Dean polacco”, a causa della sua prematura morte avvenuta all’apice della carriera.

Il primo film di Wajda interamente e specificatamente ambientato nella contemporaneità è Ingenui perversi (Niewinni Czarodzieje, 1960), pellicola per cui il regista riserverà sempre parole poco lusinghiere: “Questo film non mi piace. […]. Avrei voluto rimontarlo e soprattutto avrei voluto che il finale fosse completamente diverso” (7). L’autore della sceneggiatura è Jerzy Skolimowski, allora giovane e inesperto studente di letteratura – poeta per vocazione, pugile per sfida e giocatore di poker per necessità- cui Wajda consiglierà d’iscriversi alla Scuola di Cinema di Łodz. Skolimowski è qui anche in veste di attore: ricopre infatti il ruolo di un giovane pugile cui il protagonista impedisce la partecipazione ad una gara non rilasciandogli un permesso medico.
Il titolo originale del film è tratto da alcuni versi di Adam Mickiewicz citati nel corso della vicenda narrata: “I saggi di una volta si rinchiudevano per scoprire dei tesori o dei rimedi, anche dei veleni. Noi altri, giovani maghi innocenti, cerchiamo veleni per avvelenare le nostre speranze”. Versi posti a suggello di un’opera che s’incarica di descrivere la generazione nata poco prima o durante l’ultima guerra, una generazione definita dai più anziani come cinica, incapace cioè di valori e apparentemente disinteressata a tutto. Siamo ben lontani, quindi, dall’eroismo polacco e da tutto il carico retorico dei soggetti abituali del cinema di Varsavia.
I protagonisti – Magda e Andrzej su tutti- forse sono cinici, ma allo stesso tempo sono esposti alle più cocenti delusioni personali e di gruppo. Incapaci di rapporti interpersonali profondi, immersi in una totale noia esistenziale, appaiono privi di sentimenti autentici: il loro stesso mettersi in gioco -simboleggiato dalla sequenza della partita a carte- è del tutto fittizio.
Il film s’impone subito alla vista e all’udito del suo spettatore per le riprese di lungo respiro, la modernità dei dialoghi, le interpretazioni anti-naturalistiche, l’assenza di ogni effetto drammatico, il costante sottofondo jazz. La prima sequenza è in questo senso esemplare: Andrzej è mostrato di spalle mentre è intento a farsi la doccia. Si mette l’accappatoio, si gira tenendo un giornale tra i denti. Avanza tra la confusione della stanza, prende un rasoio elettrico, lo infila nella presa, ma poi decide di abbandonarlo sul tavolo. Apre il giornale, inizia a fare le parole crociate, mentre con una delle mani si prepara il caffè: lo versa in una tazza, lo gira e inizia a farsi la barba. Si allunga sul divano: vorrebbe bere il suo caffè, ma ha dei problemi col cucchiaio. Lo prende tra i denti, lo lascia cadere in terra, e poi, finalmente, beve il caffè. Il tutto senza interrompere le parole crociate né il radersi. Posa il bicchiere, ascolta del jazz, si stende sul divano, si toglie i sandali, si gratta un piede che poi allunga per mettere in funzione il magnetofono che riproduce una conversazione tra lui e Mirka registrata la notte precedente, conversazione che si sovrappone alla musica jazz in sottofondo. Intanto continua a leggere il giornale e a farsi la barba. L’intero segmento è costruito per far osservare allo spettatore ogni dettaglio dell’immersione del protagonista nella sua quotidianità, fatta di brevi gesti – spesso a vuoto – in uno spazio circoscritto e banale. Sequenze concepite nella stessa maniera ritornano spesso nel corso del film, mostrandoci il resto dell’esistenza di Andrzej, le sue passioni e i suoi interessi: la boxe, il jazz, la lambretta.
L’ampio passaggio relativo alla notte trascorsa insieme da Andrzej e Magda mostra la natura dei rapporti tra i  protagonisti: non è certo un caso che il loro appuntamento si focalizza intorno ad uno striptease e che il contatto fisico sia limitato e quasi marginale. Quando giunge l’alba, i due capiscono che lungo tutta la notte non si sono per nulla incontrati, dimostrandosi incapaci anche solo di parlarsi con semplicità.
Come già anticipato in precedenza, Wajda non amerà mai quest’opera. In alcune dichiarazioni rilasciate nel corso degli anni entrerà maggiormente nel merito della questione: “[…] in questo film ci sono molti errori, non si può certamente dire riuscito. Non so. Forse non bisognava andare troppo dietro la sceneggiatura, anche se era un testo scritto in modo affascinante, bello (c’è una sensibilità, una finezza, nei dialoghi che scorrono via tra i personaggi). […]. Ma aveva bisogno di una realizzazione completamente diversa. Ripensandoci oggi, mi accorgo che allora avevo anche trovato l’uomo di cui avevo bisogno: Skolimowski. È di lui che il film avrebbe dovuto concretamente parlare (lui aveva un’esperienza diretta), non di un personaggio immaginario. Ma allora Skolimowski non era che un modesto poeta” (8). In effetti il segno di Skolimowski è profondo: il film è infatti percorso da una vena di grande modernità (le già ricordate riprese in continuità, i dialoghi e la recitazione anti-naturalistici) che lo rendono ben poco vicino alle altre pellicole di Wajda e molto più prossimo a quelle che in un futuro non lontano realizzerà Skolimowski. Come scrive Manceaux, “In fondo, Andrzej (di Ingenui perversi, n.d.r.) appare come il fratello maggiore dell’eroe di Barriera di Skolimowski: questo giovane ragazzo che cerca di liberarsi del suo passato […] rappresentato dalla valigia che si porta dietro, e dalla quale non si può separare” (9). Sempre stando alle parole di Manceaux, in realtà l’influenza di Skolimowski è ben più ampia di quanto non ammetta lo stesso Wajda che, sul set del film, in definitiva “ascolta e guarda un giovane che fa, che si lascia andare, che vive: Skolimowski. E sulle sue idee e sui suoi gesti, costruisce un film senza azioni pretestuose, senza gesti straordinari. Fa qualcosa di semplice, un documentario” (10). E forse per questo realizza una delle sue pellicole più moderne cinematograficamente e più contemporanee sul piano tematico.

Numerosi critici polacchi considerano l’esordio al lungometraggio di Janusz Morgenstern Do widzenia, do jutra, 1960 (distribuito in dvd con il suo titolo inglese Goodbye, See You Tomorrow, Arrivederci a domani) un vero e proprio capolavoro misconosciuto, premiato alla sua uscita al festival canadese di Stratford e a quello di Melbourne.
Meno noto (soprattutto all’estero) del quasi coetaneo Wajda, Morgenstern (scomparso nel 2011 all’età di ottantanove anni) è in effetti uno dei registi da (ri)scoprire della cinematografia polacca. Diplomato a Łodz nel 1955, assistente di Wajda per I dannati di Varsavia, Cenere e diamanti e Lotna (del secondo firma anche la sceneggiatura), Morgenstern diventerà direttore del gruppo di produzione Perspektywa e uno dei più attivi registi della televisione polacca.
Arrivederci a domani narra la storia d’amore tra l’attore Jacek (interpretato da Zbigniew Cybulski, qui anche nei panni di sceneggiatore) e Marguerite (Teresa Tuszyńska) sullo sfondo di una Danzica mai totalmente neutra rispetto alle vicende presentate. Infatti, la città è parte attiva della costruzione filmica: i suoi spazi, i suoi scorci sono spesso pendant degli stati d’animo dei protagonisti, che si muovono lungamente per le strade urbane, senza seguire dei percorsi precisi, mossi semplicemente da una casualità tipica di tanto cinema della modernità. In generale, il realismo esteriore dell’ambientazione è uno degli elementi peculiari del film, che si rifà dichiaratamente ai modelli francesi della contemporanea Nouvelle Vague. A completare la pellicola la sua componente musicale: qui come in tanti altri film dell’epoca è il compositore Krzysztof Komeda a realizzare una colonna sonora di particolare impatto. Non sfuggirà nemmeno allo spettatore meno attento che l’interprete del personaggio di Romek altri non è che un giovanissimo Roman Polanski, già attivo nei panni d’attore anche in Ingenui perversi.
Quattro importanti film, che caratterizzano il passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta, un periodo chiave anche per la storia del cinema polacco, sono stati raccolti in un cofanetto dalla casa inglese Second Run, che riunisce le versioni restaurate delle pellicole con contenuti speciali a cura di Michael Brooke, César Ballester e Michal Oleszczyk.

Cinema Polacco , 4 film (Second Run)
Night Train di Jerzy Kawalerowicz, Polonia 1959, 94’
Goodbye, See You Tomorrow di Janusz Morgenstern, Polonia 1960, 82’
Innocent Sorcerers di Andrzej Wajda, Polonia 1960, 84’
Eroica di Andrej Munk, Polonia 1957, 81’

Mother Joan of the Angels di Jerzy Kawalerowicz (Second Run)

(1) Nel complesso, il film è sostanzialmente sconosciuto al di fuori della Polonia. Il nome di Kawalerowicz è certamente legato ad altri titoli della sua lunga carriera, come Il faraone (Faraon, 1966), sua prima pellicola a colori e monumentale impresa della cinematografia polacca dell’epoca. Tuttavia, nel 2009 viene realizzato un remake statunitense di Treno di notte, l’omonimo Night Train, scritto e diretto da Brian King con Danny Glover, Leelee Sobieski e Steve Zahn.
(2) Dichiarazioni riportate in Małgorzata Furdal, Munk. La drammaturgia della conoscenza, in Il cinema di Andrzej Munk, a cura di Małgorzata Furdal, Sergio Grmek Germani, Venezia-Milano, la Biennale di Venezia-Il Castoro, 2001, pp. 15- 16.
(3) Ibidem, p. 18.
(4) Tadeusz Sobolewski, Munk dopo il 1956: oltre il complesso polacco in Ibidem, p. 69.
(5) Andrzej Munk, Eroismo e ironia, in Dalla scuola polacca al nuovo cinema 1956- 1970, a cura di Małgorzata Furdal, Roberto Turigliatto, Torino-Milano, Torino Film Festival-Ubulibri, p. 87.
(6) Włodzimierz Sokorski, allora principale ideologo della cultura in Polonia scrive: “All’imperialismo non bastavano più il nichilismo e il catastrofismo apportati dal formalismo. Gli viene in soccorso il naturalismo, detto oggi in Occidente neorealismo […]. Il naturalismo che imperversa oggi in Occidente sia nei film americani, sia in quelli vaticani, è primitivo esibizionismo dei più infimi istinti dell’uomo, delle sue forme più odiose di efferatezza, sadismo e superstizione”. Citazione tratta da Bolesław Michałek, Le scelte del cinema polacco tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Ibidem, p. 30.
(7) Stanislaw Janicki, Romanticismo e paradosso. Intervista con Andrzej Wajda, in Ibidem, p. 101.
(8) Dichiarazione del regista contenuta in Entretien avec Andrzej Wajda, a cura di Bolesław Michałek, in “Études cinématographiques”, 69-72, Paris, Minard, 1968, p. 12 (la traduzione dal francese, come le altre tratte da questo volume, è nostra).
(9) Jean-Louis Manceaux, La tragédie de l’illusion, in Ibidem, p. 143.
(10) Ibidem, p. 147.