A Guy Maddin piace citare. Che si tratti delle altrui visioni o parole, il suo immaginario – la maniera unica che ha di raccontarlo – assume le forme di un immenso archivio in cui dimensione memoriale, dimensione onirica e fantasia si fondono alla realtà, trasfigurandola in maniera irrevocabile. Come ha affermato Jean Cocteau, citato da Maddin in un’intervista al quotidiano Libération, “la storia è fatta di verità che alla lunga diventano menzogne, e la mitologia è fatta di menzogne che alla lunga diventano verità”. Alla luce di una filmografia delirante, a tratti barocca e fieramente menzognera, quella di Maddin sembra tanto una dichiarazione d’intenti. È nel 2009 che Maddin cita Cocteau. È sempre il 2009, quando il regista canadese presenta il suo nono lungometraggio, My Winnipeg, e in un medesimo lasso di tempo inizia un nuovo progetto dalle dimensioni, dai tempi, dai contorni ancora insospettabili: quello degli “Hauntings”.
A metà tra cinema e arte performativa (perché pensati per un dispositivo di proiezioni multiple, liberamente dislocate in uno spazio espositivo) gli “Hauntings” sono una serie di undici cortometraggi della durata di non più di cinque minuti ciascuno, commissionati dal Toronto Film Festival. Ognuno è tratto da un film “altro”: scritto ma mai realizzato, perduto oppure incompiuto, comunque concepito da grandi nomi della storia del cinema (da Fritz Lang a Josef von Sternberg, da Kenneth Anger a Hollis Frampton). Per ciascuno dei cortometraggi (o “frammenti impressionisti” dei film perduti, come Maddin li ha chiamati) il regista si propone di rianimare alcune delle migliaia di grandi “perdite” da cui sin dalla giovinezza – così racconta – è abitato, posseduto, haunted.
È d’altra parte un vasto repertorio di immagini e suggestioni quello che ne ha plasmato l’inconfondibile estetica da cinema pre-sonoro. Con il progetto degli “Hauntings” (o “Seances”, che in francese gioca con il doppio significato di seduta spiritica e proiezione cinematografica), il regista non solo rende omaggio a quanti ne hanno ispirato il lavoro, ma va a costituire una vasta, e immaginaria, enciclopedia del cinema invisibile. Tre anni dopo, il progetto si amplia e si definisce: come le immagini a cui si inspira e che trasforma, inizia a proiettarsi altrove: si disloca. Maddin ha nel frattempo proseguito il suo instancabile lavorìo sul cinema, sulla memoria collettiva e personale, stilando una lista corposa ma non esaustiva di altri film perduti. Al Centre Pompidou di Parigi, nell’ambito dell’edizione 2012 del Nouveau festival, il regista è stato invitato a ri-girare 17 “film perdus, inachevés ou non réalisés”; e, tutto questo, dal 12 al 22 febbraio. A partire dalle 11 di mattina fino alle 21 di sera, circondato da una squadra di fedelissimi e da un folto gruppo di giovani collaboratori parigini, Maddin ha lavorato senza sosta alla realizzazione dei suoi nuovi – questo il nome che prendono in Francia – “films Spiritismes”.
Gli “spiriti erranti” dei film di Alice Guy, Ernst Lubitsch, Alfred Hitchock e Jean Vigo (per non citarne che alcuni) hanno infine trovato riposo. Nelle mura del Forum -1 del Centre Pompidou, dove i visitatori hanno accesso gratuito e libera opportunità di circolazione, sono state installate tre telecamere, a riprendere costantemente il set e ridiffonderne le immagini in diretta sul sito del Centre Pompidou. Quindi, Maddin ha fatto allestire una scenografia parzialmente modificabile, dove ai quattro muri di una stanza si sostituivano schermi mobili e dove a ogni giorno corrispondeva una nuova proiezione, un nuovo set e una nuova equipe di attori. Ai nomi di Udo Kier, Charlotte Rampling, Mathieu Amalric e Geraldine Chaplin se ne affiancano altri, meno noti, ugualmente soggetti alle “bizzarrie” istrioniche che Maddin richiede loro. E (ad esempio): a ogni inizio di riprese, gli attori “si costringono” e ingabbiano, facendosi legare a un elemento della scenografia (una sedia, un letto), inscenando l’entrata in trance necessaria per stabilire quella connessione – una comunicazione sottile e medianica – con lo spirito del film. Una volta posseduti – a seduta spiritica avviata – il film potrà avere ufficialmente inizio.
Per il progetto degli Spiritismes, al contrario di quanto avveniva negli Hauntings e in quasi tutti i suoi film precedenti, Maddin sceglie di girare a colori. Possiamo solo immaginare, per adesso, che gli “Spiritismes” giocheranno col ventaglio cromatico – e con l’artificialità delle immagini – come facevano, negli anni ’90, Careful (1993) e Twilight of the Ice Nymphs (1997). Le tonalità bicrome del primo Technicolor e i suoi colori iper-saturati, allora, andranno ad accentuare l’inverosimiglianza delle storie narrate, i tratti surreali che spesso le attraversano, la ludica trasfigurazione delle immagini. Si sommeranno a quel vocabolario di tecniche in disuso a cui Maddin, sin dall’inizio della sua produzione, fa ampio ricorso: iris, sovraimpressioni, intertitoli. La sgranatura e la super-esposizione delle immagini, saranno ulteriori presenze di un passato da decostruire, ricostituire e restituire profondamente trasformato, da scrutare attraverso uno spettro in cui di autentico non vi è che la nostalgia.
La mitologia, in questa prospettiva, diventa per Maddin una questione del tutto personale: nella misura in cui il regista non ci offre tanto una visione del passato, ma piuttosto il suo sguardo – il suo fantasmatico ricordo – su di un ‘allora’ mai vissuto, in cui la fantasia eccede, inganna e sorpassa il documento storico. Si dovrà dunque attendere ancora qualche anno, prima di conoscere gli Spiritismes nel loro aspetto finale: per scoprire gli scarti che Maddin ha impresso alla mitologia cinematografica e per vederne l’attualizzazione a contatto con le pratiche più contemporanee a cui l’immagine si confronta.
Il progetto consta la realizzazione di un altro centinaio di lost films, e prevede almeno (per ora) altri tre set di elezione: il prossimo a Winnipeg, città natale di Maddin, quindi al MoMA di New York e alla Biennale di San Paolo. Rispetto alla veste conclusiva degli Hauntings, tra l’altro, gli Spiritismes mutano forma e destinazione. I cortometraggi realizzati, a progetto concluso, saranno disponibili direttamente on-line. Lo spettatore (o meglio, l’utente) potrà giocare con il loro ordine, inventare nuovi accostamenti, letteralmente montare un film contro-accanto all’altro per creare continuità sempre diverse. E spiarne le immagini – Guy Maddin ha cosi affermato – “come attraverso una serratura”. È uno spazio intimo di esposizione, quello in cui Maddin propone di addentrarsi. Se, come ha affermato, la realtà che meglio conosce è quella dei suoi sentimenti, il regista non esita a offrire una sistematica rimessa in questione della propria mitologia: tanto cinematografica quanto personale. E non è un caso che il suo ultimo film, presentato al Festival di Berlino in contemporanea alle riprese degli “Spiritismes”, si chiami Keyhole, “buco della serratura”: perché per Maddin i film corrispondono al bisogno irresistibile di ritrovare i propri più oscuri fantasmi, il tempo perduto, gli affetti dimenticati. E attraverso una keyhole sul proprio passato, guardando al più profondo di se stessi e della memoria personale, li si va a rievocare e riabbracciare.
A differenza di tutti i precedenti film di Guy Maddin, Keyhole è girato in digitale. Ma, ancora una volta, la scelta ricade sul bianco e nero e sulla rievocazione di una mitologia, in questo caso quella dell’Odissea. Una volta di più, il regista mette in scena un ritorno: se prima era quello degli spiriti erranti di un cinema dimenticato, adesso è quello di un uomo senza ricordi, se non quelli di un viaggio senza tempo lontano dalla famiglia. Il sofferto ritorno a casa di Ulysses Pick (questo il nome che Maddin sceglie per il protagonista, interpretato da Jason Patric) diventa occasione per giocare con i codici di genere: quello gangster e quello horror. Ulysses è un uomo d’azione, a capo di un gruppo criminale, non ha tempo per abbandonarsi alla malinconia dei fantasmi passati. Sta alla loro iniziativa e al loro potere di suggestione di irrompere nel presente del gangster: di farsi corpo, condurlo attraverso i meandri della casa alla ricerca di una verità dimenticata, fare in modo che raggiunga la stanza della moglie (Isabella Rossellini). Ogni oggetto e ogni luogo sono parte di un grande mosaico, quello di una vita rimossa e che dolorosamente riemerge in superficie; ogni serratura è il ponte verso un ricordo, il tempo di una divagazione.
A Guy Maddin piace rielaborare mitologie, inventare ricordi e ancora una volta rubare visioni, parole, lasciarsene ispirare. Per Keyhole, il regista afferma di essersi fatto guidare dalle riflessioni del Gaston Bachelard della Poetica dello spazio. L’intersezione tra spazio filmico e spazio memoriale, cui Maddin ha sempre rivolto attenzione e cura in tutti i suoi film, avviene allora al chiuso delle quattro mura della casa: nello spazio dell’“immensità intima”, in quella immagine stessa della nostra intimità, come scriveva Bachelard alla fine degli anni ’50. La casa di Keyhole, nei suoi corridoi senza fine e senza luce, nella profusione di oggetti strani e fantasmi da cui è occupata, si fa proiezione dei pensieri di Ulysse e diventa il luogo dove cercare la propria intimità più segreta. Per esplorarla ancora attraverso il foro – tra distanza e vicinanza, distacco, coinvolgimento e vuoto – di una serratura; e per poi infine (chissà, forse) ritrovarsi.