Una caratteristica delle scene del crimine che lascia sempre sconcertati è la loro intrinseca capacità di congelare la banalità, per far emergere ciò che il linguaggio comune chiama “orrore”. In un certo senso, è quello che succede, su di un piano forse più “rassicurante”, con le questioni giuridiche, le quali possono costruire ipotesi, contro-ipotesi e soluzioni astratte a partire da problemi che, al di fuori della ricostruzione tramite le categorie del diritto, si mostrano spesso in tutta la loro piattezza e quotidianità, se non squallore. Herzog, probabilmente, ha capito proprio questo: da una parte, l’abisso va cercato tra i non luoghi della provincia texana e, dall’altra, le costruzioni più profonde possono instaurarsi su una storiaccia. Due sbandati, poco più che adolescenti, massacrano tre persone per rubare un’auto: uno finisce all’ergastolo (life sentence), l’altro all’iniezione letale (death sentence).
Herzog decide di farci vedere tutto ciò attraverso una serie di interviste e, ancora più efficacemente a parere di chi scrive, mediante le originali riprese delle crime scenes, effettuate dagli stessi inquirenti. Aveva sfiorato tale cognizione Truman Capote con il suo In Cold Blood; tuttavia, lo scrittore si era fermato prima del burrone, prima dell’orrido, limitandosi a riflettere sulla soglia tra fiction e non fiction. Il titolo del film ben riassume questa definitiva consapevolezza del regista tedesco: in un primo tempo, sarebbe dovuto essere Gazing into the Abyss, con scoperto rimando a Nietzsche e al rimirare nel baratro mostruoso di qualcosa contro cui si combatte, fino a venirne nichilisticamente fagocitati. Forse, però, il gioco sarebbe stato facile e, in un qualche modo, si sarebbe fornita una scorciatoia interpretativa, ponendo la vicenda in contatto diretto con gli apoftegmi e gli interludi immobilizzati in Al di là del bene e del male. La questione in discorso è invece, completamente diversa: le strade della cittadina di Conroe, i mall, le stazioni della Exxon, le casette linde e ordinate sono già l’abisso, perché si presentano come il correlativo oggettivo delle contraddizioni più intime della natura umana e delle sue più complete disfatte. Gli assassini che massacrano l’infermiera Sandra Stotler nella sua bella casa, si preoccupano di nascondere il sangue sotto due finti tappetini persiani; nel garage dove si impossessano dell’auto, tra le strisce di sangue lasciate dai corpi, vi è anche, riverso sul pavimento, un pupazzo di peluche. In un film qualsiasi, sarebbero forse stati particolari risibili, simboli facili: nella realtà abissale di Conroe, Texas, invece, stanno lì a parlarci di un’umanità vuota e contraddittoria che ha il potere di inquietarci, ovunque siamo. Herzog non cerca mediazioni di ordine culturale, politico (peggio attivistico, come qualcuno ha avuto la spocchia di decretare), o letterario, e nemmeno vuole guidare lo spettatore: la sua è pura mostrazione, appunto, dell’abisso.
Il film svela sottili simmetrie, ad esempio tra gli atteggiamenti dei parenti delle vittime, che mostrano fotografie dei congiunti e si riferiscono ai loro fratelli come my best friend, forse ritualità imparate da psicologi e avvocati. Ma simmetrie esistono anche tra i carnefici: Jason Burkett, condannato all’ergastolo, ha un padre, anch’egli in prigione, che il regista ci mostra con gli stessi tagli di inquadratura e attraverso la grata del parlatorio, che funziona quasi da secondo “mascherino”.
Burkett, già in carcere, ha sposato una donna che dice di essere rimasta incita di lui nonostante non possano avere contatti, se non tenendosi le mani sotto lo sguardo degli agenti penitenziari. La donna utilizza metafore semplici, fatte di sorrisi e arcobaleni. Quando poi deve descrivere gli incontri col marito, per comunicare quanto, nel suo cuore, questi siano idilliaci, non le resta nulla di meglio che affermare come tutto sia like a movie; poi ci mostra sul suo smartphone, l’ecografia con il feto. Ancora l’abisso, ancora il vuoto. Michael Perry invece, intervistato otto giorni prima di essere sottoposto ad iniezione letale, sembra un adolescente; pure lui utilizza il linguaggio degli psicologi e dei legali, parla di stress e di traumi. La figlia di Sandra Stotler riporta che Perry, nel last statement concesso all’imputato in dibattimento, che dovrebbe avere la funzione un po’ retorica di cosiddetta “mozione degli animi”, ha perdonato giudici e parti per ciò lui stesso aveva subito; Herzog, a provare le parole della donna, esibisce la pagina del verbale di udienza, contenente la grottesca dichiarazione. È l’abisso, la miseria dell’uomo e le sue contraddizioni. La figlia della donna uccisa dice senza mezze parole che certe persone non meritano di vivere, l’uomo che ha lavorato per anni nel braccio della morte invece, afferma che nessuno dovrebbe morire in quel modo e lascia il lavoro, nonostante non abbia maturato i termini per la pensione.
Rintracciare un universale che non sia lo stesso concetto di contraddizione, di aporia, è difficile e probabilmente, è proprio quello che vuole il regista: lasciarci senza certezze, ma con il bisogno di interrogarci se un significato definitivo, dopotutto, ci sia.
Into the Abyss, regia di Werner Herzog, USA/Regno Unito/Germania, 2011, 105′.