La prima retrospettiva americana dedicata a Andrzej Zulawski offre l’occasione di scoprire un autore la cui visione è altrettanto radicale, intensa e immediatamente riconoscibile – non ci si mette più di una manciata di inquadrature – di quelle di maestri canonizzati come Robert Bresson e Andrej Tarkovskij. Ma forse Paul Verhoeven potrebbe risultare un paragone più utile: come il regista olandese, anche Żuławski ha diviso pubblico e critica in virtù di una sensibilità energica, tanto da spingere i francesi a coniare il termine “Zulawskienne” (ovvero “sopra le righe”).
Considerate ad esempio l’incipit del suo primo lungometraggio La terza parte della notte (Trzecia czesc nocy, 1971): una donna legge l’apocalittico passaggio che contiene il titolo, tratto dalle Libro delle Rivelazioni, solo per essere uccisa pochi minuti dopo da uno dei soldati a cavallo che irrompono improvvisamente nella sua casa. Si tratta chiaramente di un mondo in cui tutto può succedere, e Żuławski si assicura che succeda. Ancora, la metafora più calzante di questo febbrile incubo da Seconda guerra mondiale ambientato nella Polonia occupata dai Nazisti – gli stravaganti esperimenti di “allevamento dei pidocchi” condotti per la Wehrmacht tedesca al fine di produrre un vaccino antitifo – è interamente basata su fatti (Miroslaw, il padre di Żuławski, scrittore e diplomatico polacco, che ha collaborato alla sceneggiatura, vi è stato sottoposto: questo tipo di lavoro a quanto pare garantiva un certo grado di sicurezza agli intellettuali e ai membri della resistenza polacca).
Anche se associato ad uno stile viscerale, fervido e ingiustamente etichettato per le sue idee più scioccanti – come l’orrenda creatura con cui Isabelle Adjani fa sesso in Possession (1981) –, il lavoro di Żuławski brulica dell’inventività di uomo altamente acculturato e ha come risultato una provocativa miscela di grandi idee e torrenti emozionali (riflessi nella decisione del regista di rifiutare quasi del tutto le spiegazioni convenzionali, scegliendo invece di trasmettere i propri temi attraverso una dolorosa ed estatica nudità, spesso estesa alle proprie protagoniste femminili). La sua idea di cinema come una creatura bastarda, come viene esposta nella seguente intervista, può inoltre fare luce sulla sua eccessiva quanto raffinata estetica. Seppure l’accattivante titolo della retrospettiva della BAM “Eccesso Isterico: Scoprendo Andrej Zulawski” può sembrare inopportuno nel riproporre il clichè più abusato dell’immagine del regista, non di meno rappresenta una tanto attesa opportunità di scoprire i film di uno dei più grandi registi europei viventi.
Grazie a Gabriele Caroti e Natalia Babinski per averci aiutato ad ottenere quest’intervista.
THE FERRONI BRIGADE: Il modo in cui concepisci il cinema mostra una grande consapevolezza delle altre arti. Molto spesso il cinema svolge un ruolo essenziale nelle tue trame, ma ci sono anche fotografia, pittura e poesia. Come vivi la relazione tra il cinema e le altre arti? Pensi che sia un’arte minore perché scaturisce dalle altre o vedi questa combinazione come una qualità?
ANDRZEJ ŻUŁAWSKI: Il cinema è un ladro. La sua natura bizzarra è legata alla sua stessa chimica: è teatro che si fa cinema grazie a interventi fisici, tecnici… Credo abbia anche a che fare con l’urgenza di mostrare, come nell’allegoria della caverna di Platone. Perché poi vogliamo mostrare delle cose, proprio non lo so. Perché i bambini abbiano voglia di giocare, non so davvero dirlo. Semplicemente, credo che questa esigenza faccia parte, in maniera profonda, della nostra natura. Ecco perché il cinema, quando è venuto alla luce, ha rubato – o preso in prestito, se preferisci – tutto quello che aveva intorno: pittura, letteratura e musica, teatro, vaudeville, grottesco, pantomima. Tutto! Quindi il cinema è un bastardo. Ed è per questo che lo amo tanto.
TFB: Questa concezione nel tuo lavoro si esprime attraverso una combinazione di elementi che altri registi potrebbero percepire inappropriata: ad esempio l’improvvisa intrusione di umorismo in scene orrorifiche. La natura bastarda del cinema ti spinge in questa direzione, nel rendere tali combinazioni più potenti?
ŻUŁAWSKI: Anche nella
vita quotidiana gli elementi umoristici si intersecano con il
drammatico, con il tragico e il lirico. In definitiva è la stessa
cosa. Mi piacciono molto alcuni lavori di George Stevens, perché ha
realizzato film con Stan Laurel and Oliver Hardy – e forse quelli
sono i suoi film migliori! Anche se poi è diventato estremamente serio
e pomposo. C’è però qualcosa verso la metà della sua carriera,
in cui intercetta quest’umorismo slapstick in alcuni lavori
assolutamente seriosi, e la cosa mi piace. Amo tantissimo quei momenti.
Quindi la tua osservazione è pienamente giustificata, ma è una cosa che
notano pochssime persone, il che mi dispiace molto.
TFB: Abbiamo amici di cui rispettiamo moltissimo le opinioni che rifiutano fortemente questo aspetto della tua opera, proprio non riescono a coglierlo. Per me, in un certo senso, si tratta di qualcosa di evidente e autentico rispetto alla realtà.
ŻUŁAWSKI: Non conosco le persone con cui avete a che fare, ma la gente ha questa curiosa tendenza a diventare rigida quando si tratta di arte o presunta tale: per loro, dev’essere sempre in un modo o in un altro. Secondo loro non puoi mischiare Thomas Mann con Franz Kafka. Ma nella mia opinione, si tratterebbe di una proposta molto interessante e seducente per la letteratura futura. Hanno torto a voler tenere separate le cose “serie” da quelle “frivole” o popolari!
TFB: Noi pensiamo che sia una delle idee che rendono il tuo lavoro così personale da non avere altra scelta che recepirloo come tale. Ciò potrebbe essere un’altra ragione per cui non rientra in questo tipo di categorizzazione: dividere le cose in categorie aiuta a mantenere una distanza, a conservare l’arte a portata di mano.
ŻUŁAWSKI: A distanza…beh, questa è una domanda che potrebbe essere dibattuta per ore. Faccio anche parte del pubblico, e dato che sono stato educato in una certa maniera posso guardare una gran varietà di film completamente diversi e farmeli piacere ugualmente. Non voglio essere pretenzioso e dire: questo è l’unico modo – il mio! E per piacere, odiate gli altri, ma non il mio film! Sarebbe assolutamente mostruoso e io sono anche troppo consapevole del fatto che il cinema è come un albero. Come in un albero, ovviamente, ci sono diversi rami, ma siamo tutti seduti sullo stesso albero. Allo stesso tempo però non sono umile, perché faccio quello che voglio. E lo faccio proprio perché penso di essere assolutamente uguale a ogni altra persona nel cinema.
TFB: Questa è l’idea democratica: tutti sono uguali quando sono tra il pubblico.
ŻUŁAWSKI: Certo. Ma a volte il pubblico elegge Hitler e a volte applaude Stalin.
TFB: Uno dei miei film preferiti è il tuo adattamento del romanzo del tuo prozio, Sul globo d’argento (Na srebrnym globie, 1987). Pensiamo sia una delle espressioni più evidenti di uno dei tuoi temi chiave: la ricerca della libertà, forza che pervade ogni tuo film.
ŻUŁAWSKI: Spero proprio che sia così. Anche se a volte maschero questa tendenza – per evitare di risultare predicatorio!
TFB: L’unico film che hai girato in Polonia dopo essere stato costretto a lasciare Sul globo d’argento incompleto a metà degli anni ‘70 è stato quando 20 anni dopo sei tornado per fare La sciamana (Szamanka, 1996): siamo rimasti molto sorpresi nello scoprire con quanta violenza è stato rifiutato nel tuo Paese. Pensi sia dovuto al ritratto tutt’altro che lusinghiero dei primordi del capitalismo nella società polacca?
ŻUŁAWSKI: Non saprei proprio! Nella tua domanda proietti la tua chiara visione personale di qualcosa che in Polonia è solo remotamente collegato alla realtà. La Polonia è ancora una nazione piuttosto arretrata! E La sciamana è stato realizzato 16 anni fa. All’epoca la chiesa, il clero, i resti del sistema comunista e la piccola borghesia stavano cercando di arraffare qualche soldo per accumulare ricchezza: stavano davvero governando il paese, e quello era un film contrario a ogni aspetto del loro pensiero, o meglio del loro non-pensiero. Questa arretratezza del Paese – per certi versi ricorda il romanzo di Stendhal Il rosso e il nero: avevamo il rosso, ora abbiamo il nero. Si sa che i preti proibivano alla gente di andare al cinema nei villaggi polacchi, affermando che guardare quel film era peccato. La cosa ha completamente distrutto la ragazza che recitava nel ruolo della protagonista, e tuttora La sciamana è considerato un fallimento nella mia intelligentissima patria. Spero di non suonare arrogante nel dirlo, ma è così!
TFB: Noi siamo sicuramente d’accordo con te, ma purtroppo il film è tuttora semisconosciuto, quindi non sappiamo quanti altri possano concordare…
ŻUŁAWSKI: Beh, cominceranno ad aumentare, perché Mondovision ha prodotto negli Stati Uniti questa bella edizione in DVD disponibile in versione normale e deluxe. I francesi hanno fatto lo stesso, e gli italiani saranno i prossimi. Per questo spero che il film possa incontrare un po’ di consenso, anche perché per me è stato importante girare in Polonia dopo tutti quegli anni all’estero,
TFB: Per certi versi ricorda I tuoi primi lungometraggi, La terza parte della notte e Il diavolo (Diabel, 1972), anch’essi rappresentazioni non esattamente rosee della società polacca. Ma in quei casi erano coperte da un velo storico, mentre La sciamana è contemporaneo: eppure, tutti, in definitiva, mostrano una società orrenda.
ŻUŁAWSKI: Si, ma tutte le società sono orrende, in definitiva. E un regista che elogia la società in cui vive per me è feccia. Quasi tutti giorni, dalle radio, dalle TV e dai giornali polacchi si viene a sapere che nella campagna si uccidevano ebrei, semplicemente perché era liberi di farlo. Così ci sono davvero pochissime zone luminose, anche se sono mantenute, com’è ovvio, perfettamente pulite. Ma è perlopiù l’intellighenzia a mantenere questo piglio morale e questa consapevolezza. Quindi quando parli di società, dovresti essere più preciso: quali strati della società? O la società intera come una massa di gente ignorante, rabbiosa e cattolica?
TFB: In Austria, dove viviamo, non è molto diverso.
ŻUŁAWSKI: Circa dieci anni fa stavo leggendo Thomas Bernhard, e penso di averlo compreso perfettamente.
TFB: Non è un’attività nota quanto il tuo lavoro come regista, ma sei anche uno scrittore molto prolifico: hai scritto più di venti libri. Sappiamo che il primo è stato tradotto in francese, ma ce ne sono altri disponibili in qualche tipo di traduzione?
ŻUŁAWSKI: Sei sono stati tradotti in francese, e stiamo lavorando sul settimo e l’ottavo. Comunque, beh… fate qualcosa anche in Austria!
TFB: Nei tuoi film hai attaccato spesso la religione e il pensiero retrogrado che ha incoraggiato, ma c’è qualcosa di molto pronunciato in essi che non chiameremmo esattamente religioso: hanno una forte componente spirituale.
ŻUŁAWSKI: Certo, ma non si può mettere un segno “uguale” tra la chiesa, che è un’organizzazione che guadagna un sacco di soldi, e la fede, le aspirazioni spirituali. Non puoi farne un’equazione, o provare a trasformare una nelle altre. Quindi, qualunque cosa tu intenda al riguardo: se sei un uomo spirituale, non andare in chiesa! Sarebbe come arruolarsi nell’esercito come pacifista.
TFB: La fidélité (2000) ha una sequenza d’apertura fulminante: la soggettiva di un treno in corsa che ricorda il cinema delle origini, seguita poi da un movimento all’indietro della macchina da presa attraverso lo scompartimento, oltre un gruppo di persone, fino ad arrivare al protagonista. Dà la sensazione che la storia raccontata sia scelta all’improvviso tra molte altre che si stanno svolgendo simultaneamente.
ŻUŁAWSKI: Qui mi state sfuggendo: Perche nella mia mente le storie che mi interessa filmare non iniziano mai con un incipit, con qualcosa di precedente. Devono cominciare proprio dal…
TFB: …dall’inzio?
ŻUŁAWSKI: Nemmeno da quello! Più che altro dieci minuti dopo l’inizio! E quello il mio modo di realizzare quest’idea. Un aneddoto a parte: abbiamo girato l’intera scena in un treno fermo nella stazione di Parigi: è rimasto sempre assolutamente immobile. Ma il concetto generale vale per tutti i film che ho fatto. La terza parte della notte comincia con l’Apocalisse di San Giovanni letto da un’attrice – è proprio nel mezzo di qualcosa, non all’inizio! Gli incipit sono inutili. Sai, oggi ogni film francese comincia con una ragazza che pedala sulla sua bicicletta. Pedala e pedala, scorrono i titoli, e quando la ragazza arriva ci si è scordati della bicicletta, che non serve più a nulla, e solo allora qualcosa ha inizio. Io non voglio usare quella bicicletta!
TFB: Messa in questo modo, ci rammenta che il finale di La terza parte della notte in fondo non è un finale: si vedono i quattro centauri che evocano i quattro cavalieri dell’apocalisse, ed è chiaro che qualcosa sta per succedere. Quindi non solo non te ne fai niente degli incipit, ma neanche di quello che si può considerare una chiusura convenzionale.
ŻUŁAWSKI: Sì, ai vecchi tempi si chiamava cornice. Cominci con qualcuno che ti racconta l’Apocalisse di San Giovanni e finisci con qualcosa di esso che ti viene mostrato: in questo modo si materializza.
Per gentile concessione di MUBI. Traduzione di Alfonso Mastrantonio.