L’ultima fatica del cineasta filippino, presentata a Rotterdam 2012, esce a breve distanza dal precedente Century of Birthing, passato a Venezia 2011. Come di consueto, Diaz procede secondo un’estrema frammentazione narrativa: tante storie che, nel dipanarsi delle sei ore del film, si coagulano sostanzialmente attorno a due macrofiloni. Il primo concerne il personaggio disgraziato di Florentina Hubaldo e della sua famiglia. Si tratta di una donna affetta da una malattia degenerativa, l’encefalopatia traumatica cronica (CTE), collegata a traumi subiti in tenera età: dopo la morte della madre, il padre la seviziava, la teneva incatenata e legata e la costringeva a prostituirsi. L’altro snodo narrativo è incentrato su due poveracci che lasciano la città per recarsi nella regione di Bicol, in cerca di un tesoro sepolto. I lunghi ed estenuanti scavi, però, si riveleranno infruttuosi.
Diaz gioca sull’alternanza di tempi diversi, con situazioni non collocate necessariamente in ordine cronologico, e il flusso temporale si fa spesso estremamente diluito (come nelle scene degli scavi seguite quasi in tempo reale). Un flusso che arriva a cristallizzarsi nei tableaux vivant di Florentina e della sua famiglia bagnati da un ruscello mentre un personaggio si interroga sui mali del mondo, e in quello della barca che accoglie un’esanime Lolita, la figlia di Florentina, traghettata dal padre adottivo, novello Caronte. L’acqua, presenza materica onnipresente nel cinema di Diaz.
In uno dei primi film di Diaz, West Side Avenue (2001), uno dei personaggi commentava la vicenda di un ragazzo ucciso da mani ignote definendola emblematica delle Filippine. La stessa cosa vale per Florentina Hubaldo, metafora di un Paese martoriato da colonialismo e dittature e devastato da cataclismi naturali, tifoni, eruzioni vulcaniche. In un film che, nel progetto iniziale, avrebbe dovuto intitolarsi “Agonistes – The Myth of Nation”, il cineasta filippino prosegue il discorso sul legare e intrecciare l’identità personale con quella collettiva, che aveva già trovato i suoi apici in Evolution of a Filipino Family (2004) e Melancholia (2008). Una tragedia, quella di Florentina, che si perpetua di generazione in generazione, visto che la sua sfortuna sembra essere ereditata dalla figlia Loleng/Lolita, affetta da gravi handicap fisici e mentali. Attraverso la figura di Florentina, Diaz realizza ancora una volta un lamento per il proprio Paese, un lamento che trova eco anche nel secondo subplot, quello dei cercatori del fantomatico tesoro. «Non c’è un tesoro, ma solo morte» dice uno dei due scavatori dopo aver disseppellito uno stivale insieme a detriti vari. Le lunghe ed estenuanti riprese degli scavi sono come una discesa nelle viscere di quel Paese, un sottosuolo che se, sventrato, si rivela gravido di salme, che possono essere quelle delle vittime del cataclisma di Death in the Land of Encantos (2007), sepolte nel fango – siamo proprio nella zona in cui si staglia l’imponente e minaccioso vulcano Mayon dove fu girato quel film – o i cadaveri occultati, dagli squadroni della dittatura di Marcos, dei “desaparecidos” di Melancholia.
Con Florentina Hubaldo, CTE, Diaz si interroga sull’origine del male, della violenza e della crudeltà del proprio paese e dell’umanità. Florentina racconta la sua storia come una cantilena, in maniera reiterata, come incantata, in un primo momento alle sue capre e, alla fine del film, con sguardo in camera, rivolgendosi direttamente agli spettatori. È affetta da turbe mentali che la inducono, proprio come il protagonista di Encantos, a “produrre” flashback. Le scene d’infanzia del personaggio di quel film, uno scrittore, si riveleranno alla fine frutto di una patologia, la “schizofrenia paranoide”, che spinge chi ne soffre a «raccontare gli episodi del passato come fossero flashback». Una frase che può sembrare tautologica e che rientra nel gioco di Diaz della messa in discussione e reinvenzione delle convenzioni stesse su cui si fonda il cinema. Convezioni sempre bellamente ignorate, come nel caso delle durate, ben più estese di quelle canoniche legate a uso e consumo della programmazione in sala; o nel fare a meno della luce naturale in esterni, a favore di un continuo, e spesso casuale, cambiamento della luminosità, in balia di un cielo dalla nuvolosità sempre variabile.
Florentina sta perdendo la memoria come la figlia. I suoi ricordi per immagini (i flashback) si alternano a quelli orali e, questi ultimi, come anche quelli dello scrittore di Death in the Land of Encantos, si mescolano a elementi fantastici (le visioni dei giganti vagheggiate in tenera età). Diaz, come sempre, mette a confronto e fa entrare in conflitto diversi sistemi narrativi. Sarà proprio l’immagine in flashback a demistificare il ricordo di quell’aurea fiabesca che permane nella dimensione orale, svelando che i fantomatici giganti altri non sono che grandi fantocci, maschere del folklore come i “moriones” di Butterflies Have No Memories, visti da piccola in uno spettacolo di strada. Sembra che sia l’immagine, in questo caso, a farsi portatrice di verità. O al contrario la verità invece è proprio quella del racconto, con il suo portato mitologico, come dimostrerebbe la presenza beffarda del geco, animale che riveste un ruolo nel folklore di alcune culture sud-est asiatiche, che interrompe e scompagina il lavoro dei due scavatori. Che sia la principessa lucertola evocata nel film Heremias (2006)?
Florentina Hubaldo, CTE, regia di Lav Diaz, Filippine 2012, 360′