Nella scena in cui compare per la prima volta ne Il Caimano, Nanni Moretti rifiuta inizialmente d’interpretare il film su Berlusconi, giustificando così il suo diniego: “Tutti sanno già tutto su Berlusconi […] Chi voleva sapere sa, poi chi non vuole capire, dai… cosa vuoi informare di più? Si sa tutto […] c’è qualcosa nella vostra sceneggiatura che non mi convince […] C’è, lì, quello che il pubblico di sinistra vuole sentirsi dire”. Sgomberiamo subito il campo da ogni possibile equivoco (dovrebbe essere superfluo, ma visto il massiccio consenso che il film ha raccolto, spesso epidermicamente di natura ideologica, è meglio ribadire): per ciò che riguarda i fatti dell’irruzione nella scuola Diaz la sera del 21 luglio 2001 e le successive torture nella caserma di Bolzaneto vi è solo una parte con la quale ci si può e ci si deve schierare, senza se e senza ma, senza giustificazioni o contestualizzazioni di sorta, ed è ovviamente quella delle vittime, delle persone malmenate e portate di peso in caserma per essere torturate in tutta calma.
Ma Diaz non è realmente un film su Genova. È un film che non aggiunge nulla a ciò che si sa e che racconta la storia molto più confusamente di quanto non faccia, ad esempio, Carlo Lucarelli nella sua trasmissione dedicata ai tragici fatti in esame. È un film che non offre una lettura degli eventi, si limita a illustrarli con compiaciuta morbosità, sfruttandone le componenti spettacolari intrinseche in maniera cinica, amplificando tale cinismo nelle dichiarazioni rilasciate a giornali e televisioni, nelle quali il regista e i suoi attori e produttori si presentano come campioni di democrazia e indignazione, eroi coraggiosi che avrebbero sottratto all’oblio una storia secondo loro già dimenticata.
L’incipit del film ne dà subito la cifra, ne condensa l’essenza. Una bottiglia di vetro, lanciata da un manifestante, ruota su se stessa per poi infrangersi in terra. Un oggetto goffamente ricostruito al computer, così ridicolmente artificiale da risultare dissonante in un film che è stato presentato come una rigorosa ricostruzione dell’irruzione della polizia alla scuola Diaz di Genova. Un vezzo lezioso, che dovrebbe subito mettere in allarme. Soprattutto perché la bottiglia diventa un elemento ricorrente, funzionale alla comprensione degli avvenimenti, in quanto Vicari decide di non far procedere il suo film linearmente, ma di farlo costantemente ritornare indietro per poter seguire più personaggi e svelare passo passo la complessa rete di relazioni tra essi. È questa una delle scelte che inspiegabilmente ha fatto gridare al miracolo. Si è scritto molto, soprattutto in virtù di questa caratteristica, di Diaz come di un film “poco italiano”, addirittura vicino a Elephant. Quella bottiglia sta lì, come un cippo iscritto, ad ancorare il film alla sua limitata italianità, alla necessità di rendere tutto chiaro, pedestre, di prendere lo spettatore per mano e dirgli costantemente dove si trova, quando ci si trova e perché vi si trova, procedimento che rasenta il demenziale nel momento in cui si mostra la fabbricazione delle prove false, portate in mano in quella che è forse la scena più didascalica di un film che in quanto a pedanteria non lesina su nulla. Siamo proprio agli antipodi, ci sembra, rispetto all’ambiguità di Van Sant, che peraltro segue i suoi personaggi senza cercare facili identificazioni e soprattutto non primariamente in virtù del momento dell’esplosione di violenza, che in Diaz diventa invece il cuore spettacolare del film. Che senso può mai avere, quindi, questo continuo ritornare indietro? La risposta è ovviamente semplicissima: si tratta di dilatare allo spasimo l’attesa del pestaggio e il pestaggio stesso, di estendere a dismisura quella che è la scena madre del film, di prolungare la trepidazione dello spettatore nei confronti della violenza e del sangue.
Vicari fa bene il suo compito: le vetture della polizia assumono la forma di un mostruoso serpente luminoso mentre corrono per le strade di Genova, e l’orchestrazione della sequenza dell’irruzione, con la fuga verso l’alto e i poliziotti corazzati che salgono le scale anticipati dalle grida e dai rumori, è sicuramente di facile presa. Le forze dell’ordine, come si diceva, non sono – se non per un paio di notazioni – personaggi. Non che lo siano gli stereotipi animati ai quali Vicari affida il ruolo dei protagonisti (il Giornalista Libero, la Bella Americana con la Chitarra, il Bell’Organizzatore Romantico, il Vecchio Compagno Saggio, etc.), ma per ciò che riguarda gli Sbirri il regista si limita a qualche ghigno malvagio sul volto (specie su quello di Alessandro Roja), che fa il paio con le figure brutte e unte delle alte sfere, personaggi che sembrano usciti da un poliziottesco di oltre trent’anni fa, le cui motivazioni sembrano solamente limitate a una connaturata quanto tranquillizzante perfidia. Vicari si bulla di voler seguire i fatti, ma poi struttura il film come una qualsiasi opera di finzione, addirittura con elementi speculari: il gruppo dei buoni ha il suo cattivo (il black block di colore [!]) e quello dei cattivi il suo buono, il personaggio di Santamaria che, in una scena emblematica, esprime bene l’ambiguità strisciante e vagamente assolutoria del film. Se il black block, nel finale, è pronto al pentimento e a farsi carico interiormente della violenza, il poliziotto buono è invece rassegnato alla violenza in cui è immerso. Nella sua ultima scena infatti, mentre è nel gabinetto dove poi sarà gettata la ragazza tedesca, egli sente provenire i rumori delle torture dai piani inferiori (gli inferi, evidentemente), ma non può fare nulla se non scrollare la testa e allontanarsi.
La Polizia è un Male senza volto e nome, una creatura gorgogliante contro cui nulla si può fare: è Hannibal Lecter, è un Gremlin che si è nutrito dopo la mezzanotte, un mostro malvagio ma affascinante, nella coreografia dell’implacabile salita delle scale della scuola, quando travolge coreograficamente tutto ciò che si trova davanti, come fosse il Nulla della Storia infinita. Ovviamente, attraverso questa scelta, invece di irrobustire il suo film, Vicari lo indebolisce ulteriormente. Le forze dell’ordine sono un’entità invincibile, la cui violenza invita alla rassegnazione. Questo è il limite principale, la colpa dell’opera: portare il pubblico a inorridire invece che a esasperarsi, ad accettare invece che a sollevarsi. Diaz è una storia di buoni e cattivi, che non ci dice nulla sui fatti di Genova. Appare in questo senso quasi disgustoso il lavoro di selezione fatto sui torturati dal regista e dai suoi collaboratori: si sceglie di raccontare la storia del personaggio (la giovane ragazza tedesca) che permette soluzioni spettacolari più efficaci, che consente un’immediata identificazione e indignazione.
A Vicari, quindi, solo sulla carta interessa realizzare un film di denuncia. Quello che realmente vuole fare ed effettivamente fa è poi solo un film d’azione, un robusto film spettacolare con qua e là qualche silenzio, qualche sospensione che fa molto “autore”. Un film girato come in Italia si girava oltre dieci anni fa (le inquadrature di Vicari ricordano quelle di Enza Negroni per Jack Frusciante è uscito dal gruppo, al punto che chi scrive per lungo tempo ha pensato che le scelte di regia fossero dettate da una volontà mimetica nei confronti del cinema realizzato negli anni in cui la storia si svolge) più vicino a Palermo Milano solo andata che agli illustri esempi del cinema civile italiano che si dice sia oggi (finalmente?) risorto. Diaz non è un apologo petriano né ha la radicalità del primo Rosi. È un film retorico nell’esposizione e nel tratteggio dei suoi personaggi, quindi conformista. È un film illustrativo, quindi conservatore. Rispetto a prodotti come L’orizzonte degli eventi, Vicari ha il solo merito di aver relegato le sua ambizioni al di fuori del film, nelle cartelle stampa e nelle chiacchiere con i giornalisti, dove Diaz viene presentato per quello che non è. Sullo schermo, scorre un poco meno che dignitoso film di genere, con qualche caduta di stile.