Una sparuta pattuglia di uomini si aggira in auto, nella notte. Battono la zona collinare nei dintorni di Ankara, alla ricerca del cadavere di un uomo, che dovrebbe essere sepolto da quelle parti. “Dovrebbe” – il condizionale è d’obbligo: il suo (sospetto) assassino, infatti, non è più tanto sicuro del luogo.
Dopo un anno di attesa, mentre in molti stavano abbandonando le speranze, C’era una volta in Anatolia (Grand Prix al festival di Cannes 2011, il terzo dopo quello del 2003 a Uzak e il premio alla regia per Le tre scimmie nel 2008), il sesto lungometraggio di Nuri Bilge Ceylan approda finalmente nelle sale italiane.
Ceylan – assistito in sceneggiatura da Ercan Kesal e dalla moglie Ebru Ceylan – si serve dei generi come ingredienti: uno spunto narrativo, una suggestione visiva, un personaggio vengono utilizzati per comporre un lungo racconto in cui si mescolano stili e toni differenti. Il titolo sembra omaggiare il western di Sergio Leone (e con il cineasta italiano Ceylan condivide sicuramente lo stesso gusto dei grandi spazi aperti, enfatizzati dallo schermo panoramico); lo spunto iniziale è da film noir, ma viene sviluppato come un road movie psicologico: l’omicidio iniziale (non mostrato) è quasi un Mac Guffin. Forse non conta tanto sapere dove sia seppellito il corpo, né quale sia stato il vero movente. Il vero mistero riguarda tre uomini del drappello: il commissario Naci (Ylmaz Erdoğan), dalle maniere rudi e spicce, il procuratore Nusret (Taner Birsel), e soprattutto il più silenzioso di tutti, il dottor Cemal (Muhammet Uzuner). Ad ognuno di loro è idealmente dedicata una sezione del film, mentre i dialoghi apparentemente banali (nei quali Ceylan nasconde citazioni da Čechov, chiamato in causa anche nei titoli di coda) lasciano trapelare via via considerazioni più profonde.
Romanzesco e banale, interiorità ed esteriorità: una mescolanza di elementi che il regista duplica a livello visivo (decisivo l’apporto dell’abituale operatore, l’eccellente Gökhan Tiryaki). La prima parte di C’era una volta in Anatolia è calata nei toni notturni del blu e del nero, in cui la zona stepposa a due ore d’auto dalla capitale diventa il palcoscenico astratto e quasi onirico della ricerca, per di più gravato da un vago senso di minaccia, con quei lampi che illuminano all’improvviso il paesaggio. La seconda parte, invece, è diurna, più “fisica” e concreta, dominata dai colori spenti dell’ocra (i campi sterrati) e del grigio (il cielo piovoso), dove il fascino del paesaggio notturno lascia il posto a un vago senso di squallore. La ricerca del morto è stata una singolare “evasione”, un piccolo viaggio all’interno di se stessi, terminato il quale la mediocrità del quotidiano torna a prendere il sopravvento.
Nell’intrecciarsi fra la struttura visivamente bipartita del film (giorno/notte) e quella narrativamente tripartita (le vite dei tre personaggi), si manifestano sequenze di abbacinante suggestione. Valga per tutte l’incontro con la ragazza che serve il caffè a casa del sindaco: resa ancor più straniante dal fatto che sino a un momento prima gli uomini a cena stavano chiacchierando di problemi “amministrativi” (c’è anche un velato tentativo di corruzione), l’apparizione della giovane donna diventa una sorta di “reagente” a contatto con il quale ciascun personaggio sembra illuminarsi di una luce particolare; e addirittura trascolora nell’allucinazione quando Kenan (Firat Taniş), il sospetto omicida, vede comparire davanti ai propri occhi l’assassinato.
Non sempre, tuttavia, Ceylan è in grado di governare questo suo naturale estro immaginifico, e qualche volta la sceneggiatura sembra traballare. Nei 157 minuti di film ogni tanto si avverte qualche compiacimento “festivaliero” di troppo, qualche silenzio superfluo, qualche snodo della sceneggiatura troppo “spiegato” (il racconto del procuratore, che duplica in un certo senso quello del film), qualche movimento virtuosistico della macchina da presa che non aggiunge nulla (il long take che segue il frutto caduto dall’albero finché non viene trascinato via dall’acqua di un torrente).
Peccati veniali, in ogni caso, e abbondantemente controbilanciati non solo dalle qualità visive, ma anche da un umorismo che attraversa tutto il film come un fiume carsico – e che dimostra ancora una volta la capacità del regista di amalgamare fra loro elementi dissonanti. Si tratta di una comicità nera, talvolta con sfumature slapstick. Le gag sono innumerevoli: l’iterazione dei movimenti ad ogni esplorazione del territorio, il tormentone dell’auto che non parte, la coppia di scavafossi, la difficoltà del trasporto del cadavere (degna di un film di Keaton). Aleggia insomma una sorta di “comico orrore” lungo C’era una volta in Anatolia. Un orrore che è anche burocratico, “istituzionale”. Senza alcuna tentazione folkloristica, Ceylan dipinge un Paese, la Turchia, sospeso fra residui di arcaicità e i ritardi del moderno, con acute pennellate satiriche sparse qua e là. La più emblematica, forse, sta nella la frase con cui il procuratore rimprovera al commissario i metodi d’interrogatorio eccessivamente brutali: “Così non si entra nell’Unione Europea!”.
E quando alla fine si procederà all’autopsia del cadavere, dove un’ulteriore e un po’ raccapricciante scoperta non altera il “burocratese” con cui il buon medico detta i risultati all’impiegato della procura, i suoni tutt’altro che piacevoli dei bisturi fanno da sfondo alle grida dei bambini che giocano lì vicino.
La vita, con il suo indistricabile amalgama tra felicità e dolore, divertimento e infelicità, fra realtà e sogno, continua.
C’era una volta in Anatolia (Bir zamanlar Anadolu’da), regia di Nuri Bilge Ceylan, Turchia 2011, 150′.